6. Ricordi a catena ( Parte II )
Miami, 3 Gennaio 1999
Eravamo all'inizio dei nostri affari e una banda di cacciatori di vampiri era sulle nostre tracce. Il nostro obiettivo era di eliminarli per conto di un potente vampiro di Miami che non li voleva intorno. Per nostra sfortuna, erano quasi cinquant'anni che non ci scontravamo con dei veri e propri cacciatori di vampiri, e quindi eravamo sorpresi dalle loro tattiche e dalle loro abilità.
Una volta o loro prendevano te o tu prendevi loro, invece ora potevano ucciderti senza toccarti, utilizzando una pistola da lontano. Le vecchi e armi erano troppo lente e difficili da adoperare, oggi qualsiasi idiota poteva farne uso.
C'eravamo nascosti in un capanno abbandonato e sentimmo lo stridere delle gomme dell'auto dei cacciatori, ci avevano in pugno. Iniziarono a scendere dal veicolo e il rumore dei loro passi sul pavimento bagnato faceva compagnia al lento cadere della pioggia sul tetto dell'edifico.
Entrambi i rumori coprivano le urla degli uomini che si preparavano all'irruzione. In quel preciso istante mi venne in mente l'ultima volta che mi avevano dato la caccia. Era il 1942 e non erano semplici cacciatori, ma le SS tedesche.
18 Marzo 1942 Roma, Italia
I tedeschi mi stavano col fiato sul collo, volevano catturare vivi tutti i vampiri che scovavano.
Quando, inevitabilmente, scoprirono la nostra esistenza grazie alle loro ricerche, decisero di studiarci per creare dei soldati con le nostre abilità, ma privi delle nostre debolezze, come il nutrirsi di sangue e la luce del sole. Uno dei pochi sopravvissuti a questo esperimento comandava lo squadrone della morte che mi dava la caccia, il suo nome era Herbert Weshner.
I suoi uomini erano protetti da una speciale uniforme nera molto resistente, indossavano una maschera antigas con elmetto ed erano ben addestrati e armati per cacciare i vampiri. Scappai in una stradina secondaria con cinque individui alle calcagna, anche se non c'era traccia di Herbert.
La pioggia era incessante e quel vicolo stretto di Roma era quasi allagato, visto il pavimento dissestato e le varie buche che avevano formato grosse pozzanghere. Due file di palazzine decadenti rendevano quella stradina una specie di lungo tunnel claustrofobico.
Alzai lo sguardo e il cielo grigio come il piombo sembrò in qualche modo fissarmi, tramite due nuvoloni neri che parevano occhi indagatori, che vennero poi illuminati da vari lampi color cobalto. Il rombo di un tuono mi riportò alla realtà, mentre sentivo l'odore della pioggia che mi inebriava i sensi.
Saltai su un balcone al terzo piano di un palazzo alla mia destra e guardai di sotto.
Le SS sfondarono il portone e accedettero al condominio.
Da lì, entrai nell'appartamento e mi trovai di fronte una signora terrorizzata. La scansai e iniziai ad armeggiare con i fornelli, lasciando uscire più gas possibile.
«Va' via di qui e scappa di sotto ignorando i soldati, muoviti!» le intimai agitato.
Lei eseguì i miei ordini. A loro importavo io, non una semplice donna, non l'avrebbero calcolata. Appena i militari varcarono la soglie dell'appartamento, sfondando la porta, feci volare il mio accendino verso i fornelli e l'esplosione travolse due di loro, che furono scaraventati parecchi metri più in la, contro il muro. I soldati non avrebbero sparato, altrimenti sarebbero saltati in aria, perciò potevo affrontarli nel corpo a corpo, l'unico modo in cui potevo batterli.
Eravamo tre contro uno e loro avevano dei manganelli che culminavano con un paletto di legno. Sapevo però che non mi avrebbero ucciso, pertanto ero in vantaggio, perché io con loro lo avrei fatto.
Il primo dei tre partì all'attacco.
Bloccai il suo colpo afferrandogli il braccio, lo picchiai allo stomaco con una ginocchiata e, prendendolo dal colletto e dai pantaloni, lo lanciai dalla finestra, facendogliela sfondare. Un urlo e un tonfo sordo annunciarono la morte del soldato. Gli altri due mi attaccarono insieme mettendomi in seria difficoltà. Riuscivo a schivarli ma non a contrattaccare.
Mi spinsero contro il tavolo da pranzo della cucina, io presi una bottiglia di vetro e la fracassai in testa a uno dei due, stordendolo nonostante l'elmetto protettivo. L'altro riuscì a colpirmi facendomi rotolare sul ripiano, ma mi voltai di scatto e afferrai una sedia per poi rompergliela sullo sterno.
Nel mentre, i due tizi finiti al tappeto per l'esplosione si erano lentamente ripresi e avevano sfoderato i loro manganelli.
Tuttavia, erano ancora troppo intontiti per spuntarla, così evitai velocemente i loro attacchi e sfruttai lo spazio in mezzo a loro per portarmi dietro le loro spalle. Acchiappai entrambi sotto il mento e feci scattare le loro teste di lato, spezzandogli il collo contemporaneamente. Presi i loro manganelli e li lanciai rispettivamente agli altri due SS, trafiggendoli al petto con la parte appuntita dello strumento.
Dopodiché sentii un'auto frenare bruscamente e delle urla, coperte dal rumore del temporale che batteva forte e dai passi dei soldati che si dirigevano su per le scale. L'unica via di fuga possibile era il balcone da dove ero entrato; guardai di sotto e vidi un'altra macchina, accostata a quella da cui erano scesi i nazisti di prima.
I soldati in questione fecero irruzione.
Ero in trappola!
Balzai agilmente fuori dalla finestra e iniziai a correre verso la strada principale, con la pioggia incessante che mi martellava sul viso. Non percorsi molta tragitto, perché mi ritrovai davanti quattro uomini che mi puntavano contro delle MP40.
Udii dei passi alle mie spalle e mi voltai lentamente.
«Guten Abend!»esclamò la figura che si avvicinava con cadenza decisa e le mani dietro la schiena.
Era un uomo biondo, con indosso un paio di occhiali da sole, nonostante il cielo fosse scuro. Herbert Weshner stava dinanzi a me, era alto e con un fisico imponente, e aveva delle cicatrici sul viso.
Era completamente vestito di nero, con un lungo soprabito che arrivava fino alle caviglie, i suoi anfibi erano lucidi e scuri mentre la sua espressione era gelida e fredda.
Herbert Weshner era il risultato di un esperimento sui vampiri: era stato modificato geneticamente.
Prima che potessi reagire, mi sferrò un destro e poi mi lanciò a gran velocità contro il muro. In pochi istanti la vista mi si sfocò e iniziai a sentirmi svenire per l'enorme forza con cui mi aveva colpito.
Miami, 3 gennaio 1999
Eravamo spacciati: i cacciatori erano penetrati nel deposito e ci avevano in pugno. Eravamo circondati e disarmati, pronti alla nostra esecuzione, quando avvertimmo una seconda auto fermarsi proprio davanti all'ingresso.
I fari della macchina non permettevano di vedere chi uscisse dal veicolo, ma riuscii a percepirei passi di quattro uomini. I cacciatori puntarono le loro armi verso il chiarore abbagliante che entrava dalla porta. Udimmo diversi spari, dopodiché le luci dell'auto si affievolirono, permettendomi di intravedere i cinque stesi sul pavimento, e due uomini in giacca e cravatta rifoderare i loro armamenti. Un terzo individuo, in abito elegante, fece capolino all'entrata. Quell'uomo era Luke Collins.
Era il classico uomo d'affari, di altezza e corporatura nella media, aveva capelli castani e pettinati con eleganza e gli occhi scuri. I suoi lineamenti erano marcati, il mento leggermente allungato e la mascella pronunciata.
Ci disse che ci osservava da qualche mese, da quando era partita la nostra attività, e che gli avevamo fatto una buona impressione per le nostre abilità e la nostra discrezione.
Ci aveva perdonato questo errore di calcolo con i cacciatori e ci aveva proposto di lavorare in cambio di finanziamenti per la nostra attività. Noi accettammo e lui, facendosi aprire la portiera dal quarto uomo di cui io avevo sentito i passi ma che era sempre stato accanto all'auto, sparì nella pioggia di quella notte tempestosa.
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