21. La chiamata
Io e Rob eravamo seduti in auto e il silenzio regnava sovrano: io guardavo fuori dal finestrino, mentre lui era concentrato sulla guida e sui suoi pensieri.
Anche quel giorno il suo abbigliamento non era molto vivace, così come non lo era lui.
Aveva una t-shirt a V rosso scuro, jeans blu notte, scarpe nere e giubbotto di pelle.
Decisi io di rompere il silenzio.
«Cosa ti ricordi della ragazza che ti ha trasformato?» domandai diretto girando lentamente la testa verso di lui, e smettendo di guardare il cielo scuro e limpido sopra di noi.
Rob fece un lungo respiro e poi si fermò al semaforo portando alla tempia due dita della mano che prima era poggiata fuori dal finestrino.
Non mi degnò di uno sguardo, si limitò a fissare la segnaletica stradale.
«Poco o niente, neanche il suo nome. Potrei chiedere a Rafael, no? È sua sorella, in fin dei conti», mi rispose sarcastico ripartendo quando il semaforo tornò verde.
«Non ho mai voluto chiedere nulla a riguardo. Tuttavia, è colpa mia se hai dovuto condividere così a lungo questa maledizione con me», dissi in evidente tono di scusa, cercando inutilmente il suo sguardo che scrutava la strada.
Non era da me giustificarmi, ma era il minimo che potessi fare.
«Se avessi potuto scegliere, ti avrei comunque seguito e aiutato accettando tutto questo. Ma se avessi potuto decidere come essere trasformato, avrei preferito sicuramente un modo migliore. Avresti potuto farlo tu o Lauren, ma non una sconosciuta che non avrei mai più rivisto. Se non fosse stato per Lauren, probabilmente mi sarei fatto ammazzare dai Lama Oscura o sarei diventato un psicopatico come...» affermò Rob, per poi bloccarsi e scuotere la testa.
«Come lo ero io e come lo è Faith?» conclusi ridacchiando nervosamente.
«Devo ammettere che almeno ora se uccidi lo fai solo per nutrirti. Non approvo, ma prima era diverso. Non avevi regole, remore e nessun tipo di emozioni se non per quella puttana», confessò il mio amico svoltando a destra con impeccabile abilità.
«Ma si stava parlando di te, Rob, raccontami di quella notte. Per oltre un secolo sei sempre stato molto vago. Davvero ricordi così poco?» gli chiesi curioso.
Dopo un sospiro, finalmente mi guardò.
Eravamo quasi arrivati. Infatti, dopo due svolte veloci, fermò la macchina di fronte al bar di Doyle e tirò il freno a mano. Dopodiché spense il motore e mi fissò.
«La rivolta era appena finita, e la taverna locale era ancora fortunatamente intatta. Così, per rilassarmi un po' e calmarmi dopo tutto quel casino, mi recai lì a prendere qualcosa da bere», iniziò deglutendo il mio amico.
Quella storia era davvero interessante: sapendo l'identità di quella ragazza, forse, aveva trovato la forza di parlarne.
«Stavo bevendo con Pietro e due dei suoi uomini. Ci stavamo divertendo e chiacchierando, quando fummo tutti colpiti da una donna, minuta e graziosa che era seduta sola al tavolo vicino. Era di una bellezza davvero rara. Capelli biondi e lisci, lunghi fino alle spalle, due occhi azzurri come il ghiaccio e un corpo che pareva modellato con la creta», continuò addolorato il racconto il vampiro voltando la testa verso il parabrezza e fissando la strada asfaltata di fronte e lui.
Non dissi nulla e mi limitai ad ascoltare.
«Avevo da giorni ricevuto la notizia che Carolina era rimasta uccisa nella rivolta, ero incredibilmente addolorato. Perciò decisi di rimanere per un po' da solo anche io, nonostante Pietro mi incitasse ad andarle a parlare. Bevevo molto per compensare la perdita di Carolina e non ero nel pieno delle mie facoltà mentali», ridacchiò Rob passandosi una mano sul viso.
«Dopo qualche minuto, fu lei ad avvicinarsi. Sembrava gentile, disponibile e ascoltò a lungo me che raccontavo di Carolina», aggiunse poggiando la testa al sedile e guardando fuori, puntando al cielo oscuro.
«Lei mi riferì poco di sé, giusto di suo fratello e del fatto che sarebbe stata poco in città. Da quel che riesco a ricordare, sembrava scappare da qualcuno. Era un po' come Carolina sotto alcuni aspetti: la corporatura minuta, la dolcezza e il sorriso, anche se le caratteristiche fisiche come capelli e occhi e lineamenti del viso erano diversi. Però, nei suoi atteggiamenti mi dava una vaga immagine di lei. Rammento che bevemmo ancora qualcosa insieme e poi lei iniziò a dirmi che un ragazzo come me meritava di meglio. Infine, affermò che era si era fatto tardi per lei e che sarebbe dovuta rincasare», fece una pausa mentre si apprestava a raccontare la parte che più gli faceva male esternare.
«Mi offrii di accompagnarla a casa, nonostante le mie condizioni. Uscimmo dalla locanda e svoltammo in una strada secondaria. Era buio, non si vedeva molto. Mi disse di rilassarmi e che tutto sarebbe andato per il meglio, che avrei avuto l'eternità per capire. Dopodiché posò le labbra sulle mie. Rimasi sorpreso, ma ricambiai.
Il bacio fu intenso e molto passionale. Il tutto andò avanti per diversi minuti, carezze e scambi di effusioni varie. Scese sulla mia gola con la bocca, e sentii una fitta al collo, poi debolezza e, infine, il buio», concluse il racconto poggiando una mano sulla portiera. Lo fermai prima che potesse uscire.
«Mi dispiace...» dichiarai sincero fissando i miei occhi scuri dentro i suoi, più chiari di poco rispetto ai miei.
«Ma una domanda mi sto ponendo... Hai sempre affermato che non ti piacciono le bionde, come mai lei sì?» chiesi assottigliando lo sguardo curioso della risposta.
«Se ci pensi bene, non l'ho mai detto prima di diventare vampiro», si congedò uscendo dalla macchina, svelandomi un enigma che mi ero sempre posto sul suo conto.
Entrammo nel locale di Doyle e ci dirigemmo al bancone. L'uomo ci salutò con gesto della mano, mentre con l'altra dava un colpo di straccio al banco del bar. Stava lì sorridente, con la t-shirt nera che fasciava la sua muscolatura, i pantaloni scuri e le scarpe nere.
«Cosa vi porto, ragazzi?» chiese con il suo solito modo di fare diretto.
«Nulla per me, devo parlarti», gli dissi indicando il retro.
Rob, invece, ordinò un drink, per poi alzare le spalle.
Scossi la testa ridacchiando, e raggiunsi Doyle, dopo che ebbe servito Rob.
Gli raccontai a grandi linee la vicenda, omettendo il fatto dei sacrifici, mettendolo semplicemente in guardia sul fatto che un potente vampiro era in città.
Gli domandai se sapesse qualcosa al riguardo e infine mi congedò dicendo di tornare la sera seguente, così avrebbe indagato in giro.
Tornai da Rob e notai che era già in buona compagnia.
«Rob, possiamo andare», lo esortai, ignorando le due tipe che civettavano con lui.
«Tu vai pure, troverò un modo per tornare, anzi unisciti a noi», mi propose indicando con lo sguardo le due ragazze more dai lineamenti graziosi.
A una prima occhiata sembravano molto attraenti, entrambe mi guardavano in attesa della mia decisione, era il tipo di situazione che in genere non rifiutavo.
Tuttavia, non mi soffermai sui particolari delle due tizie, neanche su come erano vestite, il mio telefono iniziò a squillare e risposi al terzo squillo, allontanandomi da loro.
«Pronto? Chi è?» chiesi come si fa di solito quando in rubrica il numero chiamante non è segnato.
«Sono Sharon! Spero tu non abbia ancora cenato, volevo restituirti i tuoi libri e invitarti da me per mangiare qualcosa insieme. Non sono un'ottima cuoca, ma farò del mio meglio. È il minimo che possa fare per ricambiare la tua gentilezza», replicò la voce femminile della ragazza che poco tempo fa avevo salvato.
Ero indeciso sul da farsi, data la situazione: sarebbe potuta essere in pericolo se Nathan e i suoi l'avessero collegata a me, ma sapendo dove abitava, potevo proteggerla più efficacemente. Non capivo neanche perché continuavo a preoccuparmi per lei.
«Ehi, Sharon. Per tua fortuna, non mi sono ancora nutrito, ma lo farei volentieri con te. Mandami l'indirizzo per messaggio e arrivo. Accetto volentieri uno spuntino, ho proprio fame», gradii di buon grado l'offerta, e poco dopo mi accorsi di quanto fosse macabra la mia frase dato la mia natura.
Ritornai da Rob e le due ragazze declinando l'invito e raccomandando Rob di stare attento.
«Mio padre è morto centocinquant'anni anni fa, non c'è bisogno che ora ti metti a fare le sue veci», mi disse infine il mio amico, mentre uscivo dal locale per dirigermi da Sharon.
Durante il tragitto pensavo a come mai mi importasse tanto di questa ragazza, ormai mi sentivo in dovere di proteggerla e passare del tempo in sua compagnia, era piacevole. Dal giorno in cui l'avevo salvata, era come se avessi deciso di essere il suo angelo custode, al massimo sarei potuto essere un angelo nero, anche se la parola "angelo" non si addiceva per nulla al mio demone interiore.
Arrivai davanti a casa di Sharon, scesi e, prima di dirigermi verso la porta della villetta a schiera che si ergeva su due piani, mi diedi una specchiata al finestrino dell'auto. Ero vestito in maniera molto semplice, una maglietta bianca a manica lunga, jeans, scarpe da ginnastica scure e il mio giubbotto di pelle.
Suonai due volte e lei mi aprì.
Era incantevole, i capelli neri corvini le cadevano lisci sulle spalle, i suoi occhi verde smeraldo mi guardavano e sembravano che trasmettessero il sorriso che si vedeva sulle sue labbra, che mostrava la sua dentatura perfetta e splendente.
Indossava una canotta bianca che aderiva al suo corpo, ma non in maniera volgare e un paio di pantaloncini grigi che risultavano un po' larghi per le sue gambe slanciate e in forma. Era scalza, notai lo smalto rosso alle dita dei piedi. Inclinò la testa di lato e mi invitò a entrare.
«Prego, entra. Che piacere vederti, Henry! È quasi pronto», mi accolse con solarità la ragazza mentre varcavo la soglia di casa sua.
Era ben arredata, la ragazza aveva gusto! La maggior parte delle cose erano mobili antichi, ma eleganti.
«Vivi qui da sola?» chiesi curioso, mentre lei mi faceva cenno di seguirla.
«Sì, da un paio di mesi», disse storcendo la bocca. Capii subito che prima probabilmente divideva l'appartamento con un fidanzato.
«Siediti pure. Ho cucinato una pizza, spero ti piaccia la cucina italiana», dichiarò con un sorriso radioso, per poi andare verso il forno e tirare fuori la nostra cena.
A dire il vero, in Italia io ci ero nato, nel 1856, e la cucina italiana la conoscevo benissimo, ma non credevo di poterglielo comunicare.
«Oh,sì... certo! Ho sempre voluto andare in Italia», affermai annuendo con decisione. Aspettai che servisse la pietanza nei piatti e poi iniziai ad assaggiarla. Di solito mangiavo poco, giusto per sfizio, ma, in compenso, bevevo tanto!
«Ottima, davvero! Alla faccia che non sai cucinare!» sostenni gustandomi la deliziosa fetta di pizza.
«Oh, ti ringrazio! Ho preso un libro di ricette e quella più comune era proprio questa. A proposito di libri, i tuoi sono sul mobile accanto al divano», mi informò mentre anche lei cominciava a mangiare.
«Spero siano utili, almeno a te. Li conosco talmente bene che potrei affermare di esserci stato a Firenze in quel periodo», dissi ironico, ma non troppo, a Sharon, mentre afferravo un altro trancio.
«Che studioso! Sì, ho passato un esame grazie a loro. Ora, però, voglio mettere alla prova le tue conoscenze», asserì la ragazza ridendo e coprendosi la bocca con una mano.
«Dica, Professoressa», recitai la parte dello studente interrogato.
«Che fine fece la famiglia Nardini?» chiese lei, fingendosi seria.
«Giustiziati tutti, tranne Nicola che risultò disperso. Ci furono tracce che condussero a San Gimignano, ma poi le guardie che avevano l'ordine di cercarlo furono barbaramente uccise e di lui non si seppe più nulla», affermai cercando di attenermi alla versione ufficiale.
«Non sapevo che le guardie furono ammazzate», disse lanciandomi un'occhiata sorpresa, e poi proseguì riprendendo quella buffa interrogazione, «la famiglia Marchese, invece?».
«Federica scappò con Enrico Giusti subito dopo la rivolta, suo padre e suo fratello furono freddati in una congiura quella stessa notte, mentre la madre morì di vecchiaia parecchi anni più tardi.».
«Ma la signora Marchese non viene menzionata...»spiegò lei e io mi limitai a sorridere, non avevo letto quei maledetti volumi, andavo a memoria.
«E la famiglia Giusti?» chiese curiosa.
«Enrico fuggì con Federica Marchese, suo padre scomparve nel nulla, mentre la madre si ammalò e venne a mancare qualche anno dopo la rivolta», affermai cercando di rimanere impassibile.
«I libri dicono che sparirono, non che fuggirono insieme. Come sai tutte queste cose?» domandò bramosa di conoscenza la ragazza.
«Cose che ho sentito dagli studiosi» replicai infine, per poi cambiare discorso.
La cena continuò parlando del più e del meno, ma intanto la nostra chiacchierata mi aveva fatto ricordare le mie origini, chi ero. Raramente ci pensavo, ma con lei accadeva a ogni nostro incontro. Eravamo sul divano e, con il volume antico tra le mani, lo sfogliavo con delicatezza immerso nei ricordi.
«Tutto bene?» mi chiese Sharon guardandomi e sfiorando con la mano il mio avambraccio. Mi aveva riportato alla realtà con quel tocco, perché la mia mente era ferma al 1876 e non a ora.
Non risposi ma voltai il viso verso di lei, posai lo sguardo dalla sua bocca ai suoi occhi. Annullai la distanza tra i nostri visi, poggiando le labbra su quelle di lei. Ci muovemmo all'unisono, mentre le nostre lingue si conoscevano e roteavano una attorno all'altra in un turbine di passione crescente.
Il bacio continuò mentre portavo una mano sul viso e mi buttava le braccia attorno al collo, tirandomi verso di lei. Inclinai la testa da un lato e poi dall'altro, gustando ogni istante di quell'attimo, senza pensare alle conseguenze che sicuramente sarebbero state molte.
Forse era il momento di dimenticare il passato e vivere nel presente.
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