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Chapter 3.↯

'Did I disappoint you or let you down?
Should I be feeling guilty or let the judges frown?
'Cause I saw the end before we'd begun,
Yes I saw you were blinded and I knew I had won.'

17 luglio 2017

"Dai tira!" un ragazzo più alto di me di una spanna, mi incinta a tirare il pallone. È la finale. Basta un goal e vinceremo il torneo estivo di calcetto, anche quest'anno. Tutti guardano me, mi aspettano. Posiziono la palla davanti ai miei piedi, calcolo l'angolazione giusta. È un calcio di rigore, Mario. Ce la puoi fare. Sospiro, prendo la giusta e tiro. Il pubblico esulta, i miei compagni di squadra mi esclamano. Ho segnato, ho vinto. Abbraccio la mia squadra, sento gli esulti, eppure ho come l'impressione che qualcuno mi stia guardando. Vi volto, ma c'è troppa gente per capire da quale parte proviene quello sguardo. Ma c'è, lo sento. Mi perfora la schiena, mi mette in suggestione, tanto da non farmi godere la vittoria. Lo ignoro e continuo a concentrarmi sui miei compagni. Alzo la coppa, tra le urla e le risate e per un po' mi lascio andare, ritornando presente. Ma è una questione di un attimo, perché quello sguardo ritorni di nuovo insistente su di me. Sbuffo, allontanandomi ed entrando nello spogliatoio maschile. Mi spoglio, apro la tenda per farmi una doccia, ma la qualcuno appoggia una mano sulla mia spalla. "Mario" mi chiama. Non la riconosco la sua voce, o forse sì. È calda, avvolgente, dolce. Mi volto, ma non riesco a vederlo in viso. I lineamenti sono sfocati, ma gli occhi quelli sì, li vedo bene. Sono verdi come due fari di un semaforo, mi scrutano l'anima. Era lui prima che mi guardava. Sento la potenza dei suoi occhi su di me. Sto per aprire la bocca e chiedermi qualcosa, quando lui sparisce, sparisce tutto intorno a me. Non sono più nello spogliatore del campo sportivo, non sono a più a Roma. Sono in un bosco, non c'è luce. È notte. Poi sento delle urla da lontano. Inizio a correre per allontanarmi il primo possibile e trovare riparo, ma inciampo. E poi buio."

Mario si svegliò nel bel mezzo della notte. Il cuore che batteva all'impazzita dal petto, gli occhi lucidi, il sudore sulla fronte. Era solo un sogno, un sogno che lo tormentava da notti ormai.

Devi calmarti, Mario. Va tutto bene sei sveglio.

Se lo ripeté, ma non bastò più. Si passò una mano sui capelli bagnati dal sudore, e cercò di controllare i suoi respiri e il battito del suo cuore. Non sapeva esattamente del perché di quel sogno, lo tormentava da cinque giorni, cinque come i giorni in cui Claudio non dormiva più con lui. Ogni notte però si ricaricava di un dettaglio, e stanotte li vide quegli occhi verdi, gli stessi di quel ragazzo col ciuffo strano e una spalla rotta, che si aggirava sempre dalle sue parte.

Mario non lo conosceva, o meglio non lo ricordava. Per lui era stato orribile svegliarsi un giorno davanti a facce sconosciute che non smetteva di chiedergli come stava, e controllare i suoi parametri. Appena vide i medici ebbe paura, tentò di scappare ma una signorina, probabilmente era l'infermiera, gli somministrò dei calmanti. "Come ti chiami?" le chiese dolcemente, e quello fu il momento peggiore per Mario. Come si chiamava? Non lo sapeva. Chi era? Cosa ci faceva lì? Di chi sono quei occhi verdi che vide appena sveglio? E voleva tanto chiederglielo, ma il ragazzo venne portato via non appena i medici entrarono nella sua camera. E fu un inferno per Mario non sapere neanche chi fosse, non riconoscersi in quel corpo. Era come intrappolato dentro una massa di carne e ossa che non gli appartenevano. Passò il primo giorno a piangere e avendo paura anche della sua immagine riflessa nello specchio, non mangiava, non dormiva, affogava i suoi singhiozzi in quel cuscino. E a volte lo vedeva, dietro la finestra della stanza, quel ragazzo castano che lo osservava con un'espressione di dolore in viso. Lo odiava, odiava perché lo vedeva star male ma non sapeva quello che lui stava passando, nessuno lo sapeva. Poi a poco a poco flashback di momenti vissuti ritornarono alla sua mente. Spezzoni di vita, amici, feste, un pianoforte. Il terzo giorno si guardò allo specchio e "cazzo, Mario sei messo proprio male" rise mentre finalmente aveva ritrovato la sua identità, e fu felice di abbracciare i genitori e la sorella. Ma lui no, lui non lo riusciva per niente a ricordare.

Solo una domanda gli frullava nella testa, una domanda di un medico "Come si chiama il suo coniuge?". Coniuge, al solo pensiero Mario rabbrividiva, non era sposato, aveva solo ventuno anni, o meglio credeva di averne quando poi scoprì di star essere rimasto sei anni indietro. La sua mente e i suoi ricordi si fermavano a una festa a casa Luca. C'era anche Silvia, la sua fidanzata, e aveva provato l'ecstasy solamente perché era curioso di sapere come fosse e spinto dai suoi amici. Ricordò la musica, l'alcol, e la droga che gli mandò il cervello in giostra. Da lì in poi, buio.

E lui chi era veramente? Cosa aveva fatto in questi sei anni? E poi perché "il suo coniuge", perché il medico usò il maschile e non il femminile. Cosa gli stavano nascondendo tutti quanti?

Si mise seduto sul letto e allungò una mano verso il comodino per bere un po' di acqua, quando notò quel pacchetto che Claudio gli aveva lasciato quel pomeriggio, con la promessa di aprirlo solamente quando fosse stato solo. Lo prese tra le mani e lo percosse, sentendo dentro il suono di metallo che sbattevano. Si trattava di un gioiello ne era certo, e pure se da un lato era curioso, dall'altro non si sentiva ancora pronto ad aprilo. Avrebbe potuto contenere una verità alla quale ancora non era pronto, e probabilmente anche la chiave del suo sogno. Lo chiuse dentro il secondo cassetto, e tornò bere, prima di prepararsi di nuovo a dormire.

***

"Allora sta messo abbastanza bene, se continua così, tra due giorni sarà a casa" Il medico terminò la sua visita, mentre ricopiava tutti i valori di Mario nella sua cartella clinica. Il moro si coprì, abbottonandosi la camicia, e lo osservò in silenzio fino a quando non trovò il coraggio di chiederglielo.

"Dottore, perché non riesco a ricordare gli ultimi sei anni della mia vita?", sussurrò con la voce debole e imbarazzata. Il medico sussultò e alzò lo sguardo dai fogli a Mario.

"Ha avuto un trauma cranico, è una patologia ricorrente."

"Si ma io ricordo tutto il resto, ma quando cerco di sforzarmi e pensare a quell'arco temporale, vedo nero". Mario si distese, mentre si passava una mano sui capelli esausto. "Io voglio ricordare. Lei lo capisce? Ci sto provando, mi sto sforzando, ma non ci riesco"

"Forse sta provando nel modo scorretto." Intervenne allora l'uomo, sedendosi sulla sedia accanto al letto, per ascoltarlo meglio.

"Cosa intende?" chiese ancora Mario.

"In genere, il nostro cervello tenta di eliminare tutti i momenti difficili della nostra vita, è come se cercasse di ripararsi da situazioni, eventi che hanno suscitato grande sconvolgimento emotivo, nel bene e nel male. Lei ha avuto una commozione celebrale, dove a causa dell'urto e ha avuto un'alterazione temporanea nelle funzioni mentali, senza alcun danni al cervello, fortunatamente. Ciò comporta una perdita di memoria che può risultare duratura o momentanea. Vi sono diverse tipi di amnesia, signor Serpa. Quella che ha colpito lei si tratta di una amnesia selettiva ovvero si perdono i ricordi relativi a un dato periodo o ad un dato evento. Questi ricordi possono essere recuperati o persi definitivamente. Questo non è possibile stabilirlo." Concluse il medico, ritornando a verbalizzare i valori in quel foglio di carte.

Mario non rispose. Ringraziò l'uomo e poi aspettò che esso uscisse per rimanere da solo con i propri pensieri. Le parole del medico però non lo lasciarono in pace neanche per un istante. Cercava di ricostruire gli eventi inutilmente, ogni volta che chiudeva gli occhi, l'unica cosa che sentiva era un dolore fisico allucinante. Lo schianto e l'incidente erano però vivi nella sua mente. Non ne conosceva le cause, ma le urla quelle le ricordava bene.

eppure sapeva che non era tutto. C'era qualcosa che il suo cervello non voleva ricordare, c'era qualcosa che i suoi genitori gli tenevano nascosto, e lui lo sapeva, li conosceva bene. E poi c'era Claudio che era come un martello fisso nella sua testa. Non riusciva a farlo andare via, era più forte di lui. Si girò dall'altra parte del letto e ripensò alla sua ragazza.

Chissà perché Silvia non è qui.

Un altro dubbio, un'altra domanda. Lui amava quella ragazza, di un amore tenero e tranquillo. Niente di festoso o passionale. Agli occhi degli altri la loro storia poteva pure apparire piatta e vuota, ma a lui andava bene così. Con lei stava bene, e sapeva che un giorno l'avrebbe sposata e ci avrebbe creato una famiglia. Ma adesso la sentiva lontana, non solamente dalla sua mente ma anche dal suo cuore. Non trovava pace, né il giorno né la notte, la voleva al suo fianco e quando chiese a Martina di lei, sua sorella si stupì, diventando improvvisamente pallida in volto. Quindi era chiaro, non stavano più insieme, e a quanto sembrava, avevano chiuso anche il malo modo i rapporti, altrimenti conoscendola, Mario sapeva che sarebbe venuta a trovarlo con la sua famiglia.

Si tirò su dal letto, ormai incapace di riposare. Il pranzo era ancora intanto sul comodino, ma il suo stomaco era chiuso. Aveva altre necessità in questo momento. Volevo capirci di più in questa storia. Si avvicinò alla finestra, zoppicando con le stampelle a causa del femore rotto, e scostò la tenda per far entrare i raggi del sole in quella stanza troppo vuota per i suoi gusti. Guardò per pochi secondi il cielo limpido di quella giornata estiva, e poi la sua attenzione venne catturata da una macchina sportiva, una porche rossa, parcheggiata proprio sotto la sua finestra. Pensò che era proprio una bella macchina, una di quelle che lui avrebbe sempre voluto avere, e desiderato quando era piccolo. E poi lo vide.

Ancora tu, non riesco proprio a liberarmi di te.

Claudio era lì, che teneva in mano un libro, o qualcosa del genere, e camminava a passo svelto verso l'entrata dell'ospedale. Si ricordò del medico che ieri gli disse che avrebbe avuto la visita di controllo alla spalla, e Mario non ci mise molto a fare due più due. Claudio sulla sua stessa automobile. Avevano avuto un incidente insieme.

Magari voleva portarmi a una festa, o forse è stato lui stesso a provocarlo e sentendosi in colpa viene qui tutti i giorni per risparmiarsi una denuncia.

Scosse il capo, e ritornò a fatica seduto sul letto. Il suo istinto lo portò ad aprire di nuovo quel secondo cassetto del comodino, e tirar fuori quella scatola che Claudio ieri gli aveva lasciato. Si stupì quando trovò il cassetto pieno con i suoi effetti personale. Un orologio, un bracciale di cuoio nero con sopra incisa una data, i suoi documenti, e un biglietto aereo per Mykonos. Sistemò tutto sul letto davanti a lui e dopo aver chiuso gli occhi, aprì quella scatola. Dentro vi trovò al principio, un foglietto piegato in quattro. Lo prese e con delicatezza lo aprì. Vi erano scritti dei versi con una calligrafia elegante e raffinata.

"Se solo che tu sapessi quello che sei per me

Una giornata di sole,

il vento sulla spiaggia,

il dolce fior di ciliegio,

forse allora capiresti

forse solo allora mi ameresti"

Mario lesse quelle parole più volte. Non vi era una firma, né il nome dell'autore, ma era certo di non conoscere il poeta. Mise da parte il foglio, e guardò di nuovo dentro la scatola. Il dottore gli aveva detto che forse stava affrontando nel modo sbagliato la questione, che aveva cercato risposte dove non c'erano. Mario sapeva che lì dentro ci fosse qualcosa che lo avrebbe scosso, che avrebbe cambiato la sua vita, non credeva di trovarci proprio quello però.

Adagiato su un tessuto di stoffa, vi erano due anelli diversi tra di loro. Il primo era un cerchietto sottile in oro bianco con un semplice brillantino, il secondo invece era una fede nuziale. In oro giallo, era più spesso del primo anello ma più semplice, tranne per un dettaglio che non sfugge ai suoi occhi: all'interno della fede vi era inciso un nome ben preciso. Quel nome. Claudio. Mario ripassò il dito su quella scritta e un senso di rabbia lo accecò. Strofinava il dito con così potenza da voler quasi cancellare quelle lettere. Ripensò al volto di Claudio e a tutte le cose che gli aveva sussurrato quando lui credeva che dormisse.

"Scusami se non sono stato forte abbastanza da salvarti."
"Ti prego, perdonami"
"Non sono niente senza di te"

Tante frasi che rimbombavano nella mente di Mario, tante domande che forse adesso avevano un senso. Cercò di respirare, ma gli mancò l'aria. Prese il telefono che fino a quel momento non aveva toccato, e lo bloccò selezionando la galleria. Dentro vi trovò centinaia di foto che lo ritraevano con l'altro. Al mare, in montagna, a Roma, Verona, su una spiaggia spagnola. Baci, carezze, sguardi. Spezzoni di vita che erano lontani da quello che lui aveva fatto fino ai suoi ventuno anni. Gli pizzicarono gli occhi, mentre lesse un contatto telefonico registrato come Amore, con la faccia di Claudio. Aprì la conversazione, l'ultimo messaggio risaliva a circa una ventini di giorni fa. Gli venne da vomitare, mentre ormai lacrime calde ricadevano il suo volto.

Perché mi hai mentito? Chi sei tu davvero? Chi sono io? Perché i miei genitori non me l'hanno detto?

Gettò il vassoio del cibo per terra, mentre si distese di peso su letto, lasciandosi andare in un pianto muto. Stretto in un pugno aveva ancora i due anelli, e ricordò le mani di Claudio che gli accarezzarono il polso quando si svegliò, e la prima cosa che notò fu quella fede luccicante al dito.

"Sa dirmi come si chiama il suo coniuge?". Il suo coniuge. Maschile. Suo come Claudio.

"Cosa fai nella vita Claudio?"
"Mi sono laureato l'anno scorso in lettere. Sono un insegnante di letteratura e mi piace molto scrivere."
"Tu scrivi? Posso leggere qualcosa?"
"Forse, un giorno"

Ripercosse la conversazione avuta ieri con Claudio. Lui scriveva, e Mario gli aveva chiesto di poter leggere qualcosa. Il biglietto della scatola con gli anelli. Quei versi appartenevano a Claudio. Questo non fece altro che peggiorare il suo stato d'animo.

E mentre piangeva e si lasciava andare, mentre si dava dello stupido perché non solo non riusciva a ricordare, e non riusciva a dar un senso alla sua vita, adesso non voleva accettarlo, qualcuno bussò alla porta. Bastò un attimo affinché quella voce non gli perforò i timpani.

"Ehi..." Claudio era davanti alla porta con un sorriso stampato in volto, che morì subito appena vide la scena davanti. Mario si voltò verso di lui. I suoi occhi neri colmi di lacrime, puntarono in quelli verdi di Claudio, stupidi e meravigliati.

E Mario capì. Capì che lo odiava, capì che lo detestava, che non voleva più volerlo nella sua vita, capì che era stato lui a rovinargli l'esistenza, a mentirgli per primo. Amici. Certo, era stato facile proteggersi lasciando il moro nei casini. Capì che voleva ucciderlo, e che gli dava fastidio la sua vicinanza.

Claudio fece un passo in avanti sussurrando un "Ti posso spiegare", ma Mario prontamente, gli voltò le spalle urlando un "No" che ferì il più piccolo nel profondo.

"Dio. Ti odio, Claudio" e glielo urlò così, senza guardarlo in volto e tirandogli quei due anelli contro.

La verità era che neanche lui sapeva perché odiasse così tanto quel ragazzo dal ciuffo strano che si era preso cura di lui in quei giorni, non capiva perché lo volesse così tanto lontano da lui. Ma quando Claudio non si intimorì e come una supplica gli disse "Mario, ti prego", il moro non ce la fece più e scoppiò in un pianto disperato e senza fine, con una nuova consapevolezza.

Claudio era suo marito. E Mario non sapeva cosa ciò significasse per lui.

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