-Capitolo 71-
Avevo ponderato a lungo sulla mia decisione. Joy non mise bocca a riguardo, e Kevin si limitò a fissarmi come sempre, per farmi comprendere le sue parole celate nel silenzio.
Non potevo perdonarlo.
Come puoi derubare una persona dei suoi ricordi?
Essi erano parte di me. Belli e brutti. Ne avrei fatto tesoro.
Ed ora era una sofferenza maggiore. Per la seconda volta il mio cuore era stato preso a pedate.
Ricordavo ogni singola cosa. Tutto. Tutto ciò che era nero, tutto ciò che era bianco.
Ero stata coccolata dalle braccia di Joy per tutta la notte. Mi aveva accarezzato i capelli, dicendomi quanto sembrassero diversi dai miei soliti, e facendo la finta offesa, che il mio parrucchiere era migliore del suo.
Avevamo guardato Dirty Dancing, mangiando pop corn al cioccolato e caramello, a gambe incrociate sul morbido materasso.
Mi chiese come era mia sorella Grace.
Sapevo che era morta. Kevin mi aveva confessato ciò la notte stessa. Era stato un mio volere. Mi ero impuntata fino allo stremo, ed alla fine lui provato nel volto, aveva ceduto.
"È morta Krys. G...Grace è morta" la sua voce fu spezzata da un singulto, mentre rimasi come una statua ferma sulla sedia, con i palmi sulle ginocchia e lo sguardo svuotato ed asettico.
Si avvicinò lentamente a me, circondando il mio collo da dietro, baciandomi il cuoio capelluto, e sussurrando un "mi dispiace" sommesso, ed una lacrima rigò il mio volto, finendo sul dorso della sua mano calda.
"C...come? Voglio sapere come è m..." non riuscii a terminare che mi alzai di scatto, tuffandomi con tutta la disperazione, tra le braccia di Kevin, nascondendo il mio volto sul suo petto che emanava calore.
Il corpo slittava ad ogni singulto, ed ormai la mia vista era passata in secondo piano, ricoperta da fiotti di lacrime, che scorrevano lungo il mento, e nutrendomi di esse.
"Overdose" rivelò debole, mentre scuotevo la testa, come a non volermene capacitare. Come a non accettare una realtà così cruda.
Il petto doleva come non mai, e bruciava come se avessero appiccato un incendio sul mio cuore che mancava battiti, riprendendo a pulsare più forte, fino a scoppiare come le tempie.
Sentii il sapore metallico ed amaro del sangue sulla lingua, per quanto mi ero torturata il labbro inferiore.
Ricordi di me e Grace da bambine mi passarono davanti come quei film in bianco e nero che non passano mai di moda, perché sono i più belli.
E mi sembrò di risentire la sua voce carezzevole e leggiadra come un usignolo.
Correvamo nel prato con i piedi scalzi, avvertendo l'erba bagnata sotto la pianta.
Ci nascondevamo tra i panni stesi che profumavano di bucato e Marsiglia, mentre nostra madre ci riprendeva bonariamente, per poi aggregarsi a noi che ci alleavamo correndo mano nella mano.
Quando giocavamo a fare il the per Mr funny e Mrs lolita.
Imitavo un accento francese che la faceva ridere, guardandola con un sopracciglio innalzato, per farla rispondere con superbia mentre oscillava nella mano Mrs lolita, come una regale.
Grace era il mio centro di gravità. Era quel bengala sparato nel cielo. Era la mia stella guida.
Grace ora brillava, come solo le migliori stelle sanno fare.
Piansi tutta la notte, consumando chili di lacrime, e vomitando anche l'acqua.
Lo sapevo infondo, ma la speranza era l'ultima ad abbandonarci.
Strano quanto sia perfido ed infame il destino di noi umani. Esseri che un giorno non avranno più nulla da ricordare, e chissà dove andranno. Forse sulle nuvole a vegliare sulla gente. Forse diventeranno stelle e parte della galassia infinita.
Hope era il mio nome che aveva scelto mia madre per me o Grace. Ma alla fine cedette con mio padre a chiamarci Kristal e Grace.
La speranza la portiamo nel cuore, le sussurrava sempre mio padre, e lei gli poggiava la mano esile e bianca come il latte, sulla sua provata dal duro lavoro di agricoltore.
Quando ci abbandonò fu il periodo più buio della nostra vita. Sentivo i pianti convulsi di mia madre la notte, ma la mattina arrivava con il sorriso a prepararci i pancake, per farci capire che il sole torna sempre.
E con quel pensiero riuscii ad addormentarmi, sognando la nostra famiglia in riva al mare, a creare castelli ed a schizzarci con l'acqua.
Sognai Alan, ed il suo volto triste che mi dava le condoglianze e mi cullava teneramente. Mi chiedeva scusa in ogni modo.
Ma non ci riuscivo e non potevo.
Avevo bisogno di capire chi ero davvero. Un nome non attesta chi siamo, se non lo sappiamo nel profondo.
Mi alzai stiracchiandomi come meglio potessi.
Ero stata in posizione fetale per tutta la notte buia e fredda, sola con le mie lacrime e con le carezze di Joy che comunque non portavano via la tristezza immensa.
Andai in cucina, trovando Kevin dietro ai fornelli, spadellare qualcosa, e versare l' impasto che schizzò anche sulle piastrelle salmone della cucina e sul top di granito.
"Buongiorno" proclamai apatica, scivolando sulla sedia, mentre Kevin si girò per irradiarmi con il suo sorriso, luminoso come il fascio di luce che entrava dalla finestra di cucina.
Lo vidi prendere un piatto e versare dentro la sua prelibatezza, spruzzandoci sopra dello sciroppo d'acero, per poi farlo scivolare come uno di quei dischi alle sale giochi, sul tavolo bianco, notando il pancake.
"Niente è meglio di un pancake la mattina" affermò gioioso con la sua solita voce roca, mentre dentro di me sentii una lieve scossa dolce.
"Ti ricordi?" Gli domandai tenue, anche se sembrava una constatazione la mia, ed infatti annuì convinto. Ogni mattina veniva da noi, quando mia madre ci preparava i pancake. Era uno di famiglia.
"Loro sono qui Krys. E vorrebbero vederci mangiare il pancake. Facciamoci sotto" mi consolò con amore e con il suo tono sarcastico che spazzava via il malumore, prendendo la forchetta per spezzare un pezzo del mio pancake che difesi, iniziando a fare una mini battaglia di forchette.
"Joy è a lavoro?" Domandai curiosa a Kevin, finendo d'ingerire il boccone, che sembrava più appetibile ad ogni morso.
"Si. Ti hanno dato un mese di ferie. Avevi arretrati" m'informò Kevin, bevendo dal cartone il succo all'arancia.
Mi feci una doccia veloce, ripensando a tutto ciò e mischiando l'acqua con altre lacrime.
Affacciandomi di nuovo alla soglia di cucina.
"Ok. Senti io devo...andare" mi mangiai le parole, mordendomi il labbro ed avviandomi alla porta.
Quando sentii la sua presa forte, afferrarmi il polso e farmi bloccare la corsa.
"Dove?" Domandò netto, senza diminuire la presa.
Mi girai verso di lui, sostenendo il suo sguardo intimidatorio.
"Devo fare due cose. Kevin ti prego" gettai uno sguardo alla sua mano, come ad invitarlo di lasciarmi andare, e così fece. Lo vidi aprire la mano e lasciare il mio polso.
"Pensaci bene" mi redarguì carezzevole e abbassai un attimo lo sguardo sulle mie decoltè color carne.
"Ho già pensato" rivelai veritiera, richiedendo la porta alle mie spalle.
Sfrecciai verso casa di Miranda, sostando la macchina davanti al garage, sbattendo lo sportello alle mie spalle con un tonfo pesante.
Sorpassi il vialetto di pietra con il cuore in gola, e la furia cieca negli occhi.
Finché non esalai un respiro che comprimeva il petto coperto da una canotta verde smeraldo in seta, innalzando la mano racchiusa in un pugno per scaraventarlo contro la porta di legno bianca.
Rilasciai cadere lentamente il braccio lungo il fianco destro, solo quando avvertii il rumore ovattato dei suoi zoccoli, ed il mio cuore andare a quel passo.
Quando sentii il cigolio della porta aprirsi, ed il volto pallido di Miranda palesarsi difronte a me.
"Che sorpresa Kristal, non ti..." la bloccai non volendo più sentire la sua voce falsamente melensa, alzando la mano ed entrando dentro come una furia.
"Non mi aspettavi certo. Sorpresa? Sono così dispiaciuta che il tuo piano meschino sia andato a rotoli. Io non ti ho mai fatto nulla. Che motivo avevi? Obbligarmi a sposare tuo figlio" l'accusai spietata e tagliente, sforzando quasi anche la mia voce a parlare.
Guardai i suoi occhi scuri, tremare, passandosi la mano sul collo appena grinzoso.
"Sposandolo saresti rimasta Hope. Alan doveva soffrire, come ho sofferto io. Per tutti questi anni." Rivelò sprezzante, celando un singulto che le morì in gola, mentre il mento traballava.
"Non ti sei fatta schifo in questi anni. Guardandoti allo specchio non provavi sdegno per il tuo riflesso. Accecata da una vendetta insensata. Sei stata abbandonata però. Tua figlia ti ha perdonata solo per farmi un dispetto e poi è scappata dalla persona orrenda che sei.
Tuo figlio Simon è fuggito dalle menzogne, e ringrazia che è arrivato Kevin, o a quest'ora una cella putrida era il suo posto."
Parlai senza freni, fin quanto le corde vocali avrebbero resistito avrei dato finalmente voce hai miei pensieri, mentre la sua rima cigliare fece vibrare una lacrima che non mi impietosi.
"Hai perso Miranda. E sarebbe inutile infliggerti altro dolore. L'abbandono fa più male di tutto. E il non avere il perdono ti logorerà per sempre l'anima maligna che ti appartiene" aggiunsi ispida, come uno stelo di rosa piena di spine, le rose che ricoprivano le sue aiuole curate, l'unica cosa di cui si prendeva cura per i suoi incantesimi spicci.
"Perdonerai Alan dopo ciò che ti ha fatto? Mi ha obbligata lui ha privarti della memoria, io per ringraziarlo di aver salvato Vanessa ho solo adempiuto al mio compito" rivelò pacata, mentre ero voltata di spalle, pronta per uscire da quella casa e dal suo odore di chiuso ed incenso.
"So quello che ha fatto Alan, la mia memoria ricorda. Come il mio cuore ricorda quanto ci amiamo. Buona vita Miranda" la salutai per l'ultima volta, fredda, con il cuore messo in congelatore per non usarlo, e con un ghigno che sapeva di averla ferita, lasciandola alle mie spalle.
Ed era ero ciò che avevo detto di Alan, come era vero che non potevo dargli il mio perdono su un piatto di argento.
I ricordi erano freschi ora, e come la pittura richiedeva tempo per asciugarsi.
Ripercorsi la strada, quel cartello stradale, la mia agitazione, il pulsare del sangue nelle vene, il battito convulso del cuore come una batteria a percussione.
Il vento caldo, i capelli lunghi che finivano a solleticare le mie guance, adagiandosi nuovamente lungo il seno.
Il rumore delle ruote che sfrecciavano sull'asfalto liscio, e l'odore di granturco.
Lo stesso cancello di sempre aperto, aumentava di più l'agitazione e il ritmo cardiaco.
Le suole degli stivaletti scalciavano i sassolini che scricchiolavano, l'odore delle piante m'invase le narici.
Ed alzai gli occhi azzurri verso la casa.
Ero entrata da Krys, ero uscita da Hope.
Ed ora sarei di nuovo rientrata da Krys ed uscita da ambedue le persone.
Hope ormai era parte di me, era forse anche più forte di me.
Avevamo amato Alan anche con tutti i suoi segreti che non voleva rivelare. Ci bastavano i suoi occhi di ghiaccio per perderci nel fondale freddo, che diveniva caldo solo quando le sue mani ruvide ci sfioravano.
Alzai la mano, bussando prima debolmente e poi con più convinzione all porta, che mi separava da lui.
Fremevo, tremavo, mi muovevo agitata. I piedi ballavano sul posto. Ma lui non rispose e forse da una parte ero sollevata.
Mi sfilai la forcina dai capelli, strappandomi un capello, dove storsi le labbra, per fare pressione sulla serratura, che scattò metallica, dandomi l'accesso alla casa.
Un'odore strano m'investii, mischiato a l'odore della colonia di Alan, pungente e virile.
Salii le scale, controllando che non ci fosse.
La camera dove avevamo fatto l'amore era la stessa dove mi aveva rimosso la memoria.
Strizzai le palpebre a quel pensiero, avanzando mesta verso quella dei miei dipinti.
L'aprii lentamente, guardando il fascio del lucernario puntato solo sul tavolo con le tempere, mentre il resto era nel segreto del buio.
Strappai un foglio, afferrando una penna dal barattolo, iniziando a scrivere tutto ciò che sentivo, tutto ciò che mi passava per la testa. La mano scriveva ed io avvertivo i battiti, imbrattando quel foglio avanti e dietro d'inchiostro nero, ripiegandolo e dando un bacio sul foglio, fermandolo sul nostro quadro con una puntina rossa come la nostra passione.
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