-capitolo 64-
Salutai Kevin, che mi rivolse un sorriso stirato, uno di quelli che mi facevano capire che stavo sbagliando. Era meglio così.
Decisi d'indossare la maschera di una calma e felicità fasulla, legandola saldamente dietro alla nuca, con un nodo invisibile. Aprii la porta lentamente, richiudendola con un cigolio debole, e mi avviai su a passi flebili, come se le mie gambe facessero tutto da sole, come un'involucro insensato, che viene trascinato da solo senza opporre resistenza. Appena spalancai la porta della camera, fu come ricevere un pugno dritto alla bocca dello stomaco. la tempia era ancora dolorante, ed un livido sarebbe rimasto a rendermi partecipe, che ero una stupida. Potevo finire all'ospedale, e comunque lui non se ne sarebbe curato, lui era tra le braccia di Vanessa, a spazzare via i gesti di una notte, che avrei ricordato nel silenzio doloroso. Che avrei rimembrato durante la prima notte di nozze con Simon, per farmi ulteriore male.
Richiusi con veemenza ed un tonfo assordante, che riecheggiò tra le pareti, la porta della camera, pigiando la schiena contro il legno freddo, e mi lasciai scivolare a terra, avvertendo ancor più freddo con il pavimento.
Socchiusi gli occhi per poi riaprirli, ed emettere un singulto strozzato alla laringe, lasciando scorrere lento due lacrime, che mi sporcarono il viso. Bruciavano maledettamente, ma non quanto il bruciore che stava annientando il mio organismo. Seguirono lente il tragitto fin sotto al mio collo, e la forza per toglierle era immensa. Volevo lasciarle seccare, volevo che diventassero colla sulla mia pelle presa da spasmi convulsi, mentre il petto mi doleva ed il cuore sembrava avere una tachicardia potente.
Mi portai una mano sul cuore, per placare quel battito furioso, inspirando ed espirando aria.
Pensavo di stare meglio, ma mi ero illusa. Quando restiamo da soli il dolore ritorna, sempre e comunque.
Mi sentivo una donna rotta. Ed una rotta non poteva offrire niente d'intatto. Volevo semplicemente stare bene. Volevo che il vuoto incolmabile di un passato nullo, venisse rimpiazzato. Volevo un futuro spensierato, dove la luce avrebbe bagnato sempre i miei giorni. E mi rendevo conto che solo Simon poteva offrirmi quello. Mi ero arresa, avevo gettato le armi di una battaglia più grande e più forte di me. Non volevo più lottare, per qualcosa che mi avrebbe sempre spezzata ulteriormente. Volevo smettere di essere masochista, e pensare al mio bene.
Allungai il dorso della mano, passandolo sotto al collo, per scacciare il rimasuglio delle lacrime, e mi alzai a fatica, avvertendo le gambe tremolanti, per avviarmi verso il bagno.
Mi svestii velocemente, tirando giù il pantalone che sembrava aver aderito addosso, come una seconda pelle. Mi sfilai la maglia di velo turchese, gettandola a terra come una vecchia pezza, e venir presa da un brivido freddo, che portò i miei capezzoli ad indurirsi, mentre mi sfilai anche il reggiseno, lasciandolo scorrere via dalle mie braccia, che avevano formato la pelle d'oca, facendo raddrizzare i peli chiari.
Non mi curai di guardarmi allo specchio, avrei trovato l'ennesima conferma alle mie domande. Avrei trovato gli occhi rossi e gonfi, le labbra secche e screpolate, il viso pallido con macchie rosse come se avessi avuto ematomi o un'allergia, la stessa che avevo al cuore e portava il suo nome, che avrei cancellato. Avrei fatto finta che Alan fosse stato solo frutto di una mia immaginazione. Un amico immaginario, che devi lasciar andare, perché sei cresciuta, e devi guardare avanti per camminare davvero.
M'infilai sotto il getto di acqua, senza accorgermi di quanto fosse gelida. Era gelida e fredda come i suoi occhi, che mi ammaliavano, mi soggiogavano. Quegli occhi che percorrevano infiammati il mio corpo che si contraeva. Quegli occhi che mi avevano scrutato con ardore e dolcezza, capace di abbattere ogni cosa intorno. Quegli occhi che parlavano anche se le nostre labbra restavano dischiuse, nutrendoci solo dei nostri sospiri, da bocca a bocca.
L'acqua scorreva impetuosa sul mio corpo, sentendo lo scroscio possente, picchiare sulla ceramica della piastrella.
Portai il palmo sul vetro del box doccia, macchiato da goccioline trasparenti, facendo scorrere i polpastrelli, vedendo i segni delle mie impronte che spazzavano via la condensa che si era creata nello spazio angusto, mentre l'acqua scorreva sulla mia schiena, inarcata appena in avanti, come il busto, attraversando il solco delle mie natiche, e arrivando fino al centro della mia intimità.
Ricordavo le sue mani ruvide, che si poggiavano su i miei fianchi esili, riempiendomi da dietro. La sua mano che saliva e racchiudeva il mio seno, sfiorando con le sue dita squadrate ed esperte i miei capezzoli.
Dio mi uccidevo del suo pensiero. Mi facevo ancora male. Magari mi avrebbe ricercata per soddisfare i suoi bisogni in assenza di Vanessa. Ma non sarei più stata una pedina.
Mi ero donata perché credevo che ne valesse la pena di correre il rischio. Lo avevo corso, mi ero scottata, bruciata e ferita. Una ferita che non sarebbe mai guarita, ma sarebbe cicatrizzata, ricordandomi sempre che Alan non lo avrei dimenticato, ma sarei andata avanti per me stessa.
Schiacciai con forza il getto d'acqua che cessò, facendo scendere a picco le ultime goccioline, che si confusero tenui con le altre, sotto i miei piedi. Avvolsi il corpo infreddolito ed appena raggrinzito per essere rimasta fin troppo dentro, con un telo bianco.
Andai verso lo specchio, in cui la condensa formatasi, come uno strato di grasso spesso, non mi permetteva per fortuna, di vedere i lineamenti abbattuti del mio volto.
L'unica cosa che brillava era il ciondolo che avevo al collo.
Allungai l'indice ed il pollice, toccandolo lentamente, ed avvertendo una scossa che si riverberò nel cuore, elettrizzandolo, al ricordo di quando me lo diede.
Le sue dita che mi sfiorarono dolcemente l'incavo del collo, mentre la sua giacca m'inebriava del suo odore, e la sua presenza magnetica dietro di me, mi eccitava e mi faceva sentire spaesata. Fatta di una sostanza introvabile.
Strinsi le dita sul ciondolo, strappandolo con disprezzo e amarezza dal mio collo, avvertendo il pizzicore ed un graffio al lato destro del collo, dove la catenina d'oro sfregò, sentendola scivolare giù, come un rivolo di sangue bollente, e cadde a terra con un tonfo sonoro, aprendo a metà la medaglia.
Lo scalciai malamente con il piede, vedendolo strusciare sulle mattonelle, e finire sotto un mobilino bianco laccato.
Esalai un respiro spossante, tornando in camera, e come mi girai, sobbalzai appena, per lo spavento.
Studiò il mio corpo, celato dal telo che stringevo come uno scudo, vedendolo risalire su i miei occhi, con quella dolcezza che gli apparteneva, nelle iridi nocciola.
"Non volevo spaventarti. Sono tornato prima" ammise amorevole, alzandosi dal letto, che gracchiò appena, avanzando verso di me.
"N...no credevo di essere, da sola" rivelai, scacciando quel batticuore che mi aveva fatto trasalire.
Mi voltai per aprire il cassetto del comò, alla ricerca dell'intimo, finché non sentii le sue mani soffici, posarsi su i miei fianchi, muovendole in su e giù con lente carezze, dove chiusi gli occhi per inghiottire il magone, e lasciare Alan fuori dal mio corpo.
"Scusa se non sono stato presente. So di aver sbagliato e di averti dato poche attenzioni, ma..." si bloccò con la voce delicata, staccando le sue mani, e come mi girai abbassai lo sguardo, sentendo una fitta al ventre, un'ansia padroneggiare al mio interno.
Lui non esiste, lui non è vero, lui ti ha ferita. Simon mai.
La vocina aveva ragione, mi ricordava tutto.
Era inginocchiato, e con una scatolina di velluto nero nel palmo della mano destra.
Intercettai con lentezza i suoi occhi, che mi fissavano carichi di amore e speranza, riscuotendosi con un gesto della testa, per aprire la scatolina, rivelando un anello fine, con un diamante brillante incastonato.
"Non te ne avevo ancora comprato uno, e ho girato per trovarne uno che si addicesse a te" confessò con voce roca per l'emozione, mentre avvertii un dolce calore, ma poco per vedere la fiamma alimentarsi.
"Simon non importava" affermai febbrile, e scosse la testa, come diniego.
"Importa a me invece. Appena entrasti a casa mia, vedevo come eri timida, impacciata. Pensavi addirittura di dare fastidio. Ti richiudevi nella tua camera a leggere libri, finché gli occhi non ti si chiudevano, ed io venivo e ti prendevo delicatamente tra le braccia, per metterti a letto. Ti vedevo stupenda ai miei occhi. Una ventunenne con un'anima da bambina, con un'innocenza che mi faceva scalpitare il cuore. Molto spesso ho pensato di chiederti di uscire, o di spingermi oltre. Poi un giorno stavi uscendo per andare a correre, e mi sono detto -perché no. È una sua passione, magari avremmo qualcosa da condividere- annullai tutti gli appuntamenti in ufficio, anche con clienti importanti, solo perché volevo entrare nel tuo mondo strano e affascinante.
Con il fiatone, ti raggiunsi e mi affiancai, fingendo che la mia milza non stesse chiedendo pietà..." si fermò di nuovo, mentre scoppiai a ridere a quel ricordo, abbassandomi sulle ginocchia, per guardarlo negli occhi che ora erano lucidi, come i miei.
Mi fece cenno di aspettare, per continuare.
"Tu ti girasti, sorridendomi dolcemente, ed è lì che ho capito. Era la tua semplicità, la tua genuinità. Il tuo rimanere incantata da così poco. Ti amo Hope, e forse più di quanto tu mi ami. Ma c'è sempre chi ama di più e chi ama di meno, in una coppia.
Quindi per la seconda volta...vuoi essere mia moglie?" Una domanda piena di speranza, le sue iridi nocciola che brillavano quanto il diamante. Le sue parole intrise di amore incondizionato. L'espressione di chi ha paura.
Ingoiai quel groppo che non voleva scendere, deglutendo con difficoltà.
Lo dovevo fare. Per me. Per trovare felicità nella mia vita incognita.
Strusciai con le ginocchia sul pavimento freddo, dividendo la distanza, per allacciare le mie braccia al suo collo.
Lui era l'unico che poteva rimanere al mio fianco. Alan sarebbe per sempre rimasto il mio grande amore, impossibile ed incancellabile.
Rimirai i suoi occhi, regalandogli un sorriso mellifluo.
"Si" affermai con una contrazione allo stomaco, per non essere stata sincera con me stessa.
Ma avrei imparato ad amarlo di nuovo, a costruire un futuro, a pensare che Alan era stato un passeggero nella mia vita. E forse mi sbagliavo, e forse sapevo anche quanto.
Non mi diede il tempo di dire altro, che poggiò le mani sulla mia vita, attirandomi contro le sue labbra soffici, intrecciando le nostre lingue in un bacio che sapeva di amore. Un bacio lento. Uno di quelli che sentivi uno sfarfallio lontano ma che non voleva sfociare.
Mi staccai debolmente, mentre mi prese la mano, sorridendomi ed infilandomi nell'anulare che tremava, l'anello che calzava a pennello.
Mi aiutò a rialzarmi, dandomi un altro bacio, per poi staccarsi, come ad essersi ricordato qualcosa.
"Mi dovevi parlare stamattina. Dunque?" Mi chiese serio ma pacato, richiudendo con un tonfo secco la scatolina, per riporla sul comodino, mentre strinsi la biancheria tra le mani, con il cuore in gola, ed il respiro pesante.
"Io..." abbassai lo sguardo, mordendomi l'interno guancia, quasi a volermelo staccare, e rialzandolo per fissare l'armadio come se avesse avuto la risposta magica.
"Non sapevo che vestito mettermi" mentii spudoratamente, cercando di essere convincente ed innalzando le spalle, con un'espressione di scusa.
Lo guardai innalzare il sopracciglio, per poi ridere cristallino.
"Beh è importante anche il vestiario. Ti ho comprato un abito, è nell'armadio. Non volevo che se ne occupasse mia madre. Era impegnata, e...lo saprai alla festa. Non voglio dirti niente" rivelò con un tono più cupo e labirintico, come se qualcosa lo tormentasse, mentre avanzai e gli poggiai una mano sulla spalla, avvolta ancora nella giacca.
Si voltò lentamente, con il viso, ed in punta di piedi mi avvicinai, accarezzandogli con i polpastrelli la ricrescita ispida, e gli lasciai un bacio casto sulle labbra.
"Grazie" soffiai dolcemente, vedendolo stringermi e ricambiare il bacio con più enfasi, più di staccarsi ed uscire dalla camera, facendomi rilasciare un sospiro.
Gettai svogliata il telo a terra, afferrando dalla gruccia un abito rosso, lungo fino a piedi, con una fascia di diamanti ad evidenziare la vita, ed uno scollo generoso.
Lo indossai, chiudendo gli occhi, per dimenticare tutto.
Per mettermi in blackout.
Alzai entrambi i piedi, per calzare le decoltè nere lucide, ed avanzare contro voglia, verso il comò, dove avevo riposto i gioielli.
Aprii lo scrigno, alzando casualmente lo sguardo, incrociando il mio attraverso lo specchio perfettamente pulito.
La mia espressione mi puniva, il mio corpo stretto nel vestito, mi contraddiceva.
Ma ormai era fatta. Non combattevo più per l'impossibile.
M'infilai gli orecchini a goccia, per far sembrare che il mio viso brillasse.
Rilegai ancor più stretta, la maschera che avrei portato finché non avrei imparato a conviverci e dimenticare per sempre l'uomo del mistero, e mi toccai con mano tremante il collo scoperto, senza quel ciondolo.
Sono Hope Weston, e da domani sarò la Signora Weston.
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