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-Capitolo 63-


Lasciai quella casa, allontanandomi il più in fretta possibile.
O almeno speravo che la macchina mi permettesse di andare ad una velocità tale, da non lasciarmi neanche tempo di visualizzarla dallo specchietto retrovisore.
Volevo farla dissolvere, non solo dalla vista ma anche dai miei pensieri.

Quella casa che aveva visto il nostro conflitto interiore duellare, la nostra passione bruciare quanto una tanica di benzina sparpagliata in un pagliaio, o da un fuoco appiccato da piromani quali eravamo, in un bosco, rasentando tutto al suolo.
Quella casa che aveva visto le mie lacrime calde, per la gioia, che ci dissetavano.
Quella casa che aveva visto ed udito il nostro amore, silenzioso, solo fatto di gesti, poiché era sigillato dalle nostre labbra che non emisero quelle fatidiche Paroline.

E forse da una parte era stato meglio non averle sprecate, mi sarei resa ulteriormente ridicola.
Ma che contava ormai? Era inutile che mi prendevo in giro.
Anche se il mio cuore non aveva dato voce tenue su quelle parole, lo sentivo in ogni fibra, in ogni singola parte minuscola del mio essere, in ogni molecola, scorrere nei vasi sanguigni, si confondeva e mimetizzava con i globuli, con le piastrine.
Era divenuto parte integrante di me.

Aveva scavato in profondità, negli inferi della mia anima, trapassato la pelle e le ossa, divenute improvvisamente lattiginose per la troppa potenza con il quale schiacciavo con le scarpe con il tacco, appena scivolose, l'acceleratore.

Sorpassai quel cartello stradale, che ora mi trafiggeva, nel solo leggerlo, varcando la soglia della mia angoscia logorante.
Come avevo potuto credere alle sue parole?
Erano falsi anche i suoi sorrisi? I suoi occhi di ghiaccio che mi leggevano dentro?
Erano fasulli anche i suoi baci e le sue mani che vagavano nel mio corpo febbricitante?
Erano false anche le sue promesse?
Ero stata soggiogata. Aveva fatto buon uso del mio corpo, gustandoselo per cambiare nuovamente.
Non aveva aspettato neanche un giorno.
Ed io scocca a credere a tutto. La verità era che ero solo una bambola di pezza, da strapazzare e tenere come compagnia per non sentirsi soli. Ma quando ne trovi una più bella e nuova, getti la vecchia, non contando che lei anche se un po' rotta e malconcia, ti aveva regalato tanto.

Sfrecciai veloce, assorbendo il vento che sferzava prepotente, dal vetro basso. Esigevo aria pulita, perché il respiro mancava, e faticavo quasi a prenderne altro.
La gola era arida e scarsa di salivazione.
Lo sterno doleva ancora come se mi avessero fracassato di botte.

Ora neanche quel sole mi riscaldava più, neanche quei raggi bollenti, anzi, bruciavano la mia pelle come tizzoni ardenti.
Guardai una macchina dallo specchietto, dietro di me, correre veloce, come se volesse cozzarmi.
Quando accelerò di più, mi salii il cuore in gola, ed in uni scatto repentino, nel quale la mia mente non si capacitava più di niente, sterzai il volante di troppo e con troppa foga, finendo nella corsia accanto.
Un attimo che parve infinito. Il trambusto assordante dei clacson che otturavano il mio apparato uditivo, rimbombò come una fionda sparata nel cielo, la macchina che mi sorpassò senza curarsi di nulla ma solo del suo tragitto, e prima di immettermi nella corsia, voltai il volto frastornata, subendo una botta come un'esplosione che mi fece guizzare in avanti. La macchina si mosse da sola, facendo un giro su se stessa, e battei la testa contro il volante, per avvertire un dolore lancinante colpirmi vicino all'attaccatura dei capelli, venendo sferzata contro il vetro freddo.

Spalancai le labbra, rendendomi conto di avere gli occhi chiusi, come una cucciola impaurita e tremavo come le chiome degli alberi in una giornata burrascosa.
Alzai la mano tremolante, come il braccio che sembrava calcestruzzo, per portarlo a fatica, sul punto dolorante.
Avvertii su i polpastrelli, qualcosa di umido e liquido. Finché non li allontanai, vedendo i polpastrelli sporchi di sangue, disegnare bene i contorni del dermatoglifo come un'impronta digitale.

Quando un pugno veemente, non mi fece sobbalzare, piantandomi come se avessi avuto una spina nel fianco.
Mi girai repentina, emettendo un grugnito di dolore, per essere stata così veloce nel compiere il movimento, puntando lo sguardo perso, verso il finestrino.
Notai una mano racchiusa a pugno, di un uomo, battere incessantemente, tanto da farmi pulsare le tempie, e provai con la bocca sigillata, di mugugnare qualche parola strascicata.

"Q...qui" sussurrai scarna, una parola a caso. Bene! Avevo perso anche l'uso della parola oltre che del pensiero.

Sentii il rumore placarsi di botto, sostituendosi al cigolio sfrangiato, dello sportello aperto, fino a visualizzare davanti ai miei occhi ancora incollati dal velo di lacrime salate e rimmel colato, il volto preoccupato di Kevin.
Kevin? Era una visione?
Ne avevo in quantità illimitate ultimamente, come le offerte del supermercato.
Un cipiglio ad incorniciare la fronte aggrottata, ed i tratti pronunciati della mascella squadrata. Perlustrò la mia figura, fino a risalire su i miei occhi, inchiodandomi al suo verde magnetico.
Ed in un attimo i tratti del suo volto si rilassarono, e potei captare un sospiro cupo, venir soffiato via dalle sue labbra sottili.

"Dio. Stai bene Hope?" Mi domandò tenue, non riconoscendo questo suo lato da -Salviamo la povera malcapitata-
Ma comunque acconsentii senza fare molte storie.
Amavo un uomo che mi aveva usata.
Mi stavo per sposare con uno che non amavo ma sapeva infondere sicurezza, per non lasciare la mia vita ancora più buia e solitaria.
Ed avevo fatto solo un'incidente, dove probabilmente dietro il portabagagli c'era una botta grossa come un cratere.
Stavo bene!

Sentii la sua mano ruvida, poggiarsi sul mio fianco, e sussultai a quel contatto, venendo intimata dai suoi occhi più intensi, di non ribellarmi.
Mi lasciai andare, aggrappandomi al suo collo robusto, per venir tirata fuori dalla macchina, lentamente.
Mi posò delicatamente a terra, entrando in contatto con l'asfalto, e lo notai aprire il portabagaglio per sistemare il triangolo a pochi metri da noi, fino a ritornare da me a passo sicuro.

"Che cazzo volevi fare? Suicidarti?" Mi aggredì pungente, passandosi una mano frustrata tra i capelli castani.
Ridussi gli occhi a due fessure, scuotendo la testa, non sapendo bene cosa dire.

"Io...io non lo so, ok?" Proclamai ancora scossa.
"La macchina mi voleva, io...ho avuto un momento di sbandamento, ero soprappensiero eh..." non mi lasciò terminare, che emise una risata amareggiata.

"Eh quindi volevi andare verso la morte sicura" mi riprese irruente, avvicinandosi a me, addolcendo maggiormente i tratti, per puntare i suoi occhi sulla mia ferita e sussurrare un "cazzo" digrignato con i denti.
"Chiamo un carroattrezzi per la macchina. Vieni con me, a pochi metri da qui c'è un bar, almeno potrò medicarti la ferita" spiegò serio ma con quel tono gentile, che di nuovo mi lasciava con il fiato mozzato per lo stupore.

Annuii febbrilmente, mordendomi delicatamente il labbro, per adagiarmi sul sedile in tessuto nero a quadri grigi, del suo suv nero opaco.
Lo guardai innestare la prima, ma si bloccò, girandosi con un sopracciglio innalzato verso di me.
E ora che aveva? Si era pentito di salvarmi? Certo non che fossi una sua grande amica, neanche ammiratrice, anzi c'era un certo astio, ma che diamine! Il suo sguardo intimidiva più di quello di Alan! E nel pensiero di lui, ricadevo nel baratro nero, di un fondale spoglio, e freddo, che mi lasciava priva di difese e di risorse. Priva di tutto.

"La cintura Hope" la sua voce possente mi rianimò, indicandomi con un cenno della testa, di mettermela.

"Agli ordini padrone" sbruffai, facendomi beffa di lui, mentre sorrise e mi porse un fazzoletto per pulire il sangue, scuotendo la testa per immettersi sulla strada.

Arrivammo dopo cinque minuti, di silenzio raggelante, in cui nessuno dei due prese parola, davanti ad un bar, o meglio dire un punto di passaggio, frequentato per lo più da camionisti che viaggiavano per portare le merci.
Tenni per tutto il tragitto, lo sguardo perso verso la strada e i terreni incolti, alcuni bruciati dal sole forte.
Tentavo di mascherare la tristezza che portavo come un bagaglio appresso, che tirava giù il mio organo vitale, con una fune spessa e ben salda.

Kevin parcheggiò nello spiazzato terriccio, sentendo le ruote sfrigolare sulla polvere del terreno, per poi scendere, e di conseguenza fare il giro per aiutarmi a scendere.
Lo segui mesta, mentre tirò la leva nera della porta, venendo avvolti da odore di disinfettanti per pavimenti, misto a fritto, ed una musica jazz che sparava un juke-box all'angolo del locale.
Le pareti bianche tappezzate da quadri di Marilyn Monroe ed Haudrey Hepburn, alcuni dischi in vinile. I divanetti in pelle verde bottiglia ed alcuni cognac, e tavoli di legno lucido.

Guardai due uomini a sedere, con delle camicie a quadri, gustarsi una birra, finché uno, attorno alla cinquantina, calvo e con dei baffi brizzolati, mi rivolse un sorriso, mostrando la dentatura giallognola e sbieca, consumata forse dal fumo o dagli alcolici che assumeva.
"Ehi bellezza" mi chiamò tentando di essere virile nella voce.

Dirottai lo sguardo verso Kevin, che era intento davanti al bancone bianco, a parlare con una signora, che annuì ad una sua richiesta.
Finché non sentii una mano unta e grassa, posarsi su una mia natica, portandomi a sobbalzare spaventata ed a girarmi verso quell'uomo che sorrideva compiaciuto, mentre lo guardai schifata, ridendosela di gusto.

"Lei è con me. Guardala o toccala di nuovo...e giuro che questa sarà l'ultima cazzo di birra che berrai" sputò fuori ispido e freddo come il gelo sulle nevi alpine, Kevin, che mi strattonò il braccio, cingendolo con la sua mano ruvida, ed accompagnandomi a sedermi in uno dei divanetti, vicino alla finestra dove una cacca di piccione era esposta come delle manate.

"Senti ma sei sempre così svampita, o ti ho trovata nel giorno "No" " canzonò virgolettando, ma con un tono sprezzante che attendeva una risposta, prima di poggiare con un tonfo sordo, una tazza fumante di the verde, sotto ai miei occhi.

"Me la so cavare da sola, non avevo certo bisogno di te" lo ripresi risoluta, mantenendo il suo sguardo duro, mentre il labbro serrato in una linea, tremò appena per farlo scoppiare successivamente in una risata, e prendere postazione nel divano difronte a me.

"Ne sei sicura? Vediamo..." temporeggiò beffardo, prendendo un sorso della sua birra, dove la schiuma bianca ormai si era fusa con il luppolo del liquido.
"Ti ho tirata fuori dalla macchina, e ringrazia che sono stato io il malcapitato che sborserà soldi per pagare il danno sul mio suv.
E successivamente ti ho salvata da un' ubriacone che ti ha solo palpata il culo, dove se non ci fossi stato a quest'ora sarebbe ad esplorare le tue graziose mutandine" rivelò goliardico, Innalzando un angolo delle labbra in maniera intrigante.

Lo guardai allibita e scioccata, aprendo le labbra per dire qualcosa, e richiuderle nello stesso istante, che si portò di nuovo il bicchiere di birra sulle labbra, continuando a tenere saldi i suoi occhi nei miei.
"Non dirmelo" affermai all'improvviso, dando forse a voce alta un mio pensiero.

Lo vidi poggiare con un tonfo pacato il bicchier sul tavolo, per poggiare la schiena al divano di pelle, e posizionarsi a braccia conserte, dove la maglia a maniche corte verde militare e lo scollo a V, lasciavano intravedere il suo corpo definito, aspettando con curiosità che cosa avessi da dire.
"Che cosa?" Proclamò, invitandomi a continuare.

Esalai uno sbuffo per il suo modo da sbruffone, ticchettando ritmicamente le unghia sul tavolino.
"È con questi mezzucci e sorrisi intriganti che hai conquistato la mia migliore amica?" Gli domandai sardonica, mentre si piegò in avanti, arrivando quasi vicino al mio viso, e sussultai presa alla sprovvista.

"Con lei ho fatto di meglio, ma intrigante non è la parola che ha usato" sussurrò vicino al mio lobo, con voce rauca e beffarda, sentendo il suo alito caldo scendere fino all'incavo del collo, e ritornare nella posizione normale, quando la signora che prima stava dietro al bancone, non mi fece riprendere da quell'improvviso stato di trance.
La botta aveva fatto effetto, assodato!
Poiché lui era di nuovo nella stessa postazione, con un sorrisetto lascivo ad incorniciargli il volto fresco di rasatura.

Scossi la testa, con un'espressione buffa, concentrando l'attenzione sulla signora dai capelli castani, sigillati in una cuffia, ed un grembiule azzurro, che copriva il vestito nero a fiorellini, simile ad un prendisole.
"Qui c'è acqua ossigenata, cerotti, e cotone" rivelò gentilmente, per poi lasciarci lo scontrino, delle bevute.

Presi un sorso di the, soffiando appena all'interno, mentre la musica si espandeva e proseguiva senza interruzione.
"Avvicinati" ordinò con tono fermo ma carezzevole, mentre mi voltai verso Kevin che batté una mano nascosta dal tavolo, sul divano, con un tonfo ovattato, come se fossi stata un cane.

"Non credo proprio" sibilai sprezzante, emettendo un risolino infastidito.

Lo sentii emettere un respiro provato e spazientito, alzandosi e mettendosi accanto a me.
"Fai la difficile Hope" affermò goliardico, mentre strappò un pezzo di cotone idrofilo, ed aprì la boccetta di acqua ossigenata per versarne un po' sopra, vedendo il cotone impregnarsi di quel liquido e l'odore forte infestare l'aria già putrida di suo.
"Ferma" m'intimò serio, prendendomi il mento tra il pollice e l'indice con delicatezza, la stessa che usò, quando mi appoggiò il cotone sulla ferita, dove avvertii un bruciore propagarsi in quel punto, facendomi emettere un lamento strozzato.

"Brucia" piagnucolai appena, stringendo le palpebre e le labbra, potendolo notare ridere appena.

"Non ho detto che non avrebbe bruciato, ma ti dovevo disinfettare" annunciò pacato, ripulendo per bene il contorno, soffiandoci appena sopra, avvertendo un senso di freschezza, avvolgermi appena, e farmi rilassare.

"Perché sei così gentile?" Gli domandai curiosa, esponendomi in base ai nostri incontri di frecciatine e sopportazione pari a Tom e Gerry.

Richiuse la boccetta, guardandomi con il
suo verde bosco.
"Hai iniziato te con la tua lingua biforcuta" sogghignò sfrontato, portandomi a ridere ed annuire. L'aria si era fatta più leggera, ma la tristezza aveva ormai infettato il mio corpo.
"Perché ho avuto l'impressione che scappassi da qualcosa, o meglio...da qualcuno?" Più che una domanda sembrò una constatazione, detta con un tono più serio, dove l'ombra del gioco era svanita, riportandomi alla vista di Alan e Vanessa, avvertendo un brivido di freddo che raggelava le ossa.

Mi morsi il labbro, abbassando lo sguardo, ed esalai un sospiro mozzato.
"Conosci già la risposta" sussurrai fievole e debole, alzando appena lo sguardo verso di lui.

"Senti Hope. Dimentica ciò che ti ho detto su Alan, io mi ero sbagliato, voi siete fatti..." ma bloccai le sue parole, sovrastandolo con la mia voce.

"Avevi ragione, avevi pienamente ragione. Dovevo stargli lontana. Che stupida" mi accusai angosciata, prendendomi la testa tra le mani, per portarmi i capelli all'indietro che solleticavano il mio collo.

"Ha fatto qualcosa?" Domandò dubbioso e vigoroso, scrutando i miei occhi che non sapevano ingannare.

Scossi la testa affranta, per poi annuire. Per qualche strano motivo, sentivo di potergli confidare tutto, e sembrava quasi surreale.
"L'ho visto con Vanessa" sputai fuori il suo nome, come se pesasse un macigno, sforzandomi quasi, e potei notare il suo viso sbiancare ed aggrottare la fronte.

"Ci deve essere una spiegazione. Hope credimi non ti farebbe mai del male. Ho sentito stamattina Joy. Mi ha detto che eri contenta e che avresti parlato con Simon" affermò quasi in una supplica per farmi cambiare idea.

"Non ho bisogno di spiegazione. Kevin era lampante" sbottai frustrata, battendo con un tonfo pesante la mano sul tavolo, tanto da sentire il palmo formicolare.

"Gli parlerò io" ricalcò tenue, ma scossi con veemenza la testa.

"No Kevin! Promettimelo. Ormai ho preso la mia decisione" rivelai cercando di essere ferma e convincente, e provando ad assumere uno sguardo che non ammettesse repliche.
"Promettimelo" ribattei di nuovo, come una supplica gracile, vedendolo annuire.

"Lo sai che stai sbagliando Hope" mi riprese severo, mentre feci spallucce.

"Ho bisogno di uno che mi sappia sostenere. E anche se ciò che provo per Simon non può essere minimamente paragonato ad Alan, lui saprà darmi amore. Sarò codarda e forse spaventata. Mi spaventa lo stare sola, in un passato vuoto" confidai in combutta e senza freni, ciò di cui avevo davvero paura. L'abbandono. La non certezza.

Sentii le mani di Kevin, poggiarsi sulle mie spalle, ed attirarmi al suo petto caldo, come un amico che voleva proteggermi.
"Prometto che non gli parlerò. Conta che era un segreto con il tuo migliore amico. Ma saprai che sarà sbagliato. Avrai modo di saperlo" sussurrò tra i miei capelli, lasciandomi un dolce bacio.

"Forse in un'altra vita saremo migliori amici" mi scostai da lui, sorridendogli anche con il cuore rotto come il barattolo.

"È così" proclamò semplicemente, tendendomi la mano, per riportarmi a casa.
Con una consapevolezza. Una tristezza. E ciò che il mio cuore non avrebbe dimenticato, mai.

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