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-Capitolo 49-

Pov. Alan

Ero stato razionalmente, irrazionale. In ogni gesto, in ogni frase, anche la minima, non riflettevo. Quando la riaccompagnai a casa, avrei avuto solo voglia di prenderla e baciarla. Di non lasciarla più scendere, e di essere perdutamente mia. Anche solo il fatto che mi avesse chiamato con quel nome, mi aveva distrutto.

Ma quando uscì dal bagno, con solo un telo addosso, ed i suoi occhi accendersi di desiderio lussureggiante, mentre i miei andavano in fiamme alimentate dal vento che sprigionavano i suoi, mi portarono a baciarla con una tale foga, una tale rabbia repressa. Rabbia che provavo nei miei confronti, ero in pieno conflitto interiore, pieno delirio. Le sue gambe che si stringevano attorno al mio bacino, assicurandomi che sentisse quanto fossi duro, quanto cazzo desiderassi affondare e perdermi dentro la sua calda intimità. Quei gemiti rauchi ed i suoi ansimi disperati. Ogni singola cosa di Hope mi faceva letteralmente divenire cenere, poltiglia. Sentivo quanto fosse Krys in quei frangenti, in quei giorni dove i suoi occhi divenivano miei come il suo corpo. Non potevo scordarmi la sua voce tenue al suono del mio falso nome. Ed era lì che tornavo l'Alan rigido, un pezzo di ghiaccio più duro del vetro, più freddo di un'iceberg. Per quanto lei non potesse sapere, la sua mente a breve avrebbe ripreso il suo ingranaggio.

Voleva domande, ed io non potevo mostrarle le risposte, perché alcune le teneva conservate nel cassetto della memoria, altre facevano parte del mio passato oscuro, un passato di cui neanche Kristal era a conoscenza, e per questo non c'era una fottuta magia per poterle cancellare. Prima o poi tutto viene a galla, anche ciò che non avresti voluto.

Non avrei mai dovuto incontrare quella ragazza dai capelli come fuoco, non dovevo neanche essere su quel furgone con mio padre. Non avrei dovuto sentirmi ossessionato da lei, da stalkerarla quando meno se lo aspettava, e disegnare ogni suo singolo tratto, leggere miriadi di libri di Jane Austen, solo perché lei amava quella scrittrice, che le ricordava quando sua madre ogni sera le leggeva un pezzo di Orgoglio e Pregiudizio. Ed ora ero ancora più convinto che non avrei mai dovuto rincontrarla nelle vesti di Hope. Bella come sempre, più donna che mai, una lingua biforcuta, il corpo più maturo con delle curve da uccidermi, con il suo sapore di femmina, gli occhi ammaliatori, e la sua solita timidezza che le apparteneva da sempre. Piombata di nuovo davanti casa mia, un segno del destino, perché ovunque andassimo, in qualsiasi spazio temporale, in qualsiasi vita ci saremmo reincarnati, eravamo destinati ad essere noi.

Guardai l'immensa tenuta vuota, una casa priva di valore, non conteneva nulla eppure tutto.

Aprii la porta finestra della camera, che dava accesso al balcone.

Non l'aprivo quasi mai, e se lo facevo era per lasciarmi avvolgere dall'oscurità della notte che incombeva dentro e fuori di me, e da quel leggero refolo di vento che ormai non mi faceva neanche più rabbrividire.

Mi tolsi la maglia, sfilandola dalla testa e l'appallottolai per buttarla sul letto, estraendo il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni neri.

Mi parai appena con la mano, per accendere quella sostanza, che tra poco mi avrebbe scaldato i polmoni, tirandone subito una boccata come se fosse stata aria necessaria per continuare a vivere. Guardai la luna nel cielo, quasi del tutto piena. Veniva a ricordarmi che ero solo come lo era lei. Ma lei vegliava su molte persone sconosciute, ma a me piaceva pensare che guardava e proteggeva solo me, volendo credere che dentro qualche cratere, ci fosse mia madre a guardarmi ed a dirmi che avevo fatto tutto il possibile, ma non sempre va a lieto fine.

Mi sporsi di più, poggiando gli avambracci, sull'inferriata fredda, ridipinta di bianco che ormai era quasi consumato, rivelando il colore originale grigio, come me, rigettando una terza nube che si dissolveva nel buio e nel silenzio plateale della casa.

Solo la luce della camera a dare visibilità e quello lunare. Solo qualche faretto del giardino sotto. Troppo grande per un uomo solo.

Mi passai il palmo fresco della mano sul volto stanco, fin sopra ai capelli neri e bagnati.

Dopo tutto quello che avevo fatto, davvero mi stavo arrendendo?! Non era questo, il mio scopo. Se il fato mi aveva riconcesso una seconda opportunità era perché vi era la possibilità di vedere il sole dopo la luna.

E tornai indietro nel tempo, al ricordo più doloroso ma anche quello che mi diede conferma, che prima o poi il male che fai, ti si ritorce contro.

-Ohio, flashback-

Era stato tutto programmato. Kevin era stato la mia manforte. Aveva avuto la sua uscita libera, dopo 10 anni rinchiuso in quel cesso di posto, e la prima cosa che gli chiesi fu di poter testimoniare tutto ed incastrare Valten. In questo modo potei agire a modo mia, senza ucciderlo subito, altrimenti non ci sarebbe stato gusto. Quell' uomo doveva soffrire, e come avevo sofferto io, avrebbe fatto così anche lui. Dovevo sentire le parole che tanto agognavo, e risposte irrisolte che cercavo come acqua in un fottuto deserto.

Entrai lentamente ed a passo silenzioso, nella camera di Valten. Potei sentire lo scroscio d'acqua dall'altra parte della porta, dove vi era il bagno. Cantava e rideva il pezzo di merda sotto la doccia.

Serrai una mano stretta a pugno, talmente forte, da sentire la pelle delle nocche tirare e divenire bianche, aspettando che tornasse in camera.

Appena sentii il rumore tenue dell'acqua, svanire, mi avvicinai piano, attento a non far rumore con la suola delle scarpe in gomma, arrivando fino al muro, al lato della porta, e mi attaccai con la schiena.

Appena sentii lo stridulo gracile, della maniglia abbassarsi, impugnai il piede di porco, e non appena la testa rasata di Valten fece capolino, sferzai un colpo dietro la sua nuca, vedendolo cadere a terra con la bocca spalancata, che emise un verso strozzato di dolore inaspettato.

Uscii dalla porta, chiamando silenziosamente Kevin che stava di guardia a controllare. Si voltò nella mia direzione, facendo un cenno di assenso con la testa, e gettando un'occhiata fugace, venne dentro. Vide mio padre a terra, alzando un attimo lo sguardo su di me, prima di piegarsi ed aiutarmi a trascinarlo fino al ripostiglio, lo stesso in cui venivo rinchiuso per giorni dopo una lunga e dolorosa punizione. Lo mise a sedere su una sedia e lo legò ad essa, mentre aspettai appoggiato al muro di fronte a lui, che riprendesse conoscenza.

Era una soddisfazione poterlo vederle inerme e con il capo chino verso il pavimento sporco di polvere. Sentivo l'adrenalina pulsarmi forte nelle vene, tanto da pompare energica nel cuore.

Finché non intimai a Kevin di tornare fuori, e gettai una secchiata di acqua gelida, sulla figura di mio padre, che tale non consideravo più, vedendolo rinsavire a poco a poco.

Tossì fortemente, quasi sentendo le sue pareti interne raschiarsi, ed un sorriso nascermi sul volto.

"Ti sei svegliato finalmente" proruppi sarcastico, divaricando le gambe sulla sedia difronte alla sua, mentre continuava a tossire.

"Ora fai in modo di non deludermi, d'accordo?" Gli domandai in modo pungente, vedendolo tossire un'ultima volta, prima che il suo sorrisetto apparisse su quel volto segnato dall'età, ed alzare la testa lentamente, incrociando il mio sguardo freddo.

Mi guardò impassibile come se non gliene importasse nulla... non mostrava né paura ne timore e questo mi fece irritare ancora di più.

"cosa pensi di ottenere, avendomi legato sopra una stupida sedia? Ti senti più uomo?" Mi chiese con affanno nella voce, ma mantenendo quel sorriso di chi sapeva che avrebbe vinto, ma non oggi, non più.

"può darsi. .. ora mi divertirò un po' con te"
Lo guardai dritto negli occhi,
Cercando di non lasciar trapelare alcuna emozione da essi oltre all'odio e allo schifo che provavo.

Mi allotanai di poco, avvicinandomi al tavolino dove avevo in precedenza sistemato i vari strumenti che mi sarebbero serviti per potergli infliggere un po' di quel dolore che mi aveva fatto provare per anni.

"Che illuso. Sei ridicolo. Dovevi morire come tua madre, sei un ingrato. Dopo tutto ciò che ho fatto per te" rivelò con un ghigno, come se fosse stato fiero della merda in cui mi aveva sepolto in questi anni, restando sulla sedia a testa alta.
Strinsi la mano in un pugno, talmente forte da sentire le nocche indolenzirsi

"bastardo" sussurrai digrignando i denti,

"pensi di mettermi paura con quegli arnesi? Cosa vuoi usare?" mi domandò istigandomi, tenendo gli occhi fissi su di me come una sorta di sfida, ma vedevo che era una maschera la sua. Sentivo la sua puzza di paura.

Presi una tenaglia di ferro soppesandola con le mani e avvicinandomi a lui.

Mi sputò dritto in volto, vedendo come spingeva le mani legate da dietro lo schienale, sottoponendo le sue braccia ad uno sforzo inutile.

"Voglio farti delle domande, e tu risponderai" confermai assertivo e gelido, come il ghiaccio che risucchiava le mie pupille.

"No brutto bastardo. Non risponderò a nessuna delle tue cazzo di domande" ribatté guizzando lo sguardo dai miei occhi alla tenaglia che tenevo ancora in mano.

"Peccato"affermai

"Ed io che volevo fare il buono... ora ti faccio sputare io" dissi prima di sferrargli un colpo con la tenaglia, sullo zigomo, e guardarlo sputare sangue, emettendo versi di dolore mai provato. Lui non sapeva che il dolore fisico non eguagliava il dolore dell'anima.

Lo vidi colare fino al mento, come un rigo preciso, voltando il viso per tornare tronfio su di me.

"non ti facevo così meschino, forse stai imparando ad essere un uomo. Che cazzo vuoi sapere?" domandò pacato, come se niente lo potesse mai scomporre, e la cosa mi urtava, oltre ogni limite.

"Perché hai ucciso la mamma?" L'unica domanda che lacerava i miei pensieri, più di qualsiasi altra cosa. Il cuore stretto in una morsa, come se fosse stata una pezza strizzata, e gli occhi riempirsi di quella sensazione di vuoto, che mi riaffiorava i tempi in cui io e mia madre, eravamo pedine del suo gioco.

Lui rimase muto, sapendo solo fissarmi, senza pentimento o risentimento. Lui non aveva sentimenti.

"Rispondimi " gridai con la voce spezzata da un singulto portando la tenaglia alla sua mano sinistra per staccargli un dito. Lo stesso dito che portava ancora quell'anello... l'anello che lo legò a mia madre.
Cercavo di restare calmo, ma era troppo per la mia anima ferita.

"perché non valeva un cazzo in questa vita" rispose pacato, rivelando un sorriso di merda su quel volto.

Lo odiavo con tutto me stesso, come aveva potuto dire una cosa del genere? brutto figlio di puttana. La voglia di ammazzarlo era sempre più forte ma tentavo di reprimerla.

"mia madre...mia madre lavorava giorno e notte a causa tua, si occupava anche della casa senza mai lamentarsi di nulla, era il mio orgoglio, e tu l'hai distrutto brutto pezzo di merda" sbottai con voce graffiata, lanciando con quanta più forza avessi, la tenaglia contro il muro al suo lato, che produsse un tonfo raggelante, portandolo a sobbalzare.

"Cosa vuoi che me ne freghi, eh? Io ho fatto di te l'uomo che sei oggi, e lo sarai per sempre. Ogni volta che ti guarderai allo specchio...Jason" scandì ogni singola parola del mio finto nome, sentendo il fuoco bruciarmi dentro, di un'emozione che tenevo compressa da troppi anni. L'odio viscerale per un'essere così. Avevo aspettato troppo. Progettato troppo.

"sai una cosa? Hai perfettamente ragione" Dissi freddo, mentre Mi portai una mano alla tasca Estraendo un coltello a farfalla iniziando a giocarci, sotto il suo sguardo incredulo e scrutatore.
Tutto ciò che pensavo era -possibile che sono diventato come lui?- ma infondo non importava, non ora che ero arrivato a questo punto. Inchiodai i miei occhi dove il
ghiaccio ormai aveva ibernato anche il mio cuore, e con la lama accarezzai il suo viso.
"Tutto ciò che sono lo devo solo a te
Sono esattamente come mi volevi tu... Una di quelle bambole senz'anima da usare a tuo piacimento.
Dovresti essere fiero di ciò che hai creato"
Mi scappò una piccola risata isterica.
"Però non hai messo in conto una cosa'" dissi affondando il coltello nella sua gamba sentendolo gemere di dolore.
"per tutto questo tempo, la bestia che tenevo nascosta in me ha continuato a crescere, covando, nell'attesa di questo momento, più odio di quanto immagini. Ormai ha spezzato quelle catene che io stesso avevo creato"
estrassi il coltello e lo infilzai sull'altra gamba. Mentre tentava di muoversi e pronunciava parole a spezzoni.
"solo per non cedere e perdere il controllo"
Lo estrassi ancora e mi lasciai andare ad un breve ricordo che sfumò subito. Aprii la mano e feci cadere il coltello insanguinato, mentre avanzai verso l'angolo del ripostiglio buio e freddo, come me, notando una corda spessa.

Lo vidi voltare il volto, per vedere cosa stavo facendo, ma il corpo legato, gli lasciava pochi movimenti, mentre imprecava silenziosamente.

Mi posizionai dietro di lui, e potevo sentire quanto fosse rigido, quanta paura si può avere, quando non puoi difenderti. Quando non hai un Dio sul quale confidare.

Intrecciai i lembi della corda, nei rispettivi palmi della mano, in modo saldo, tanto da farmi male, ma non quanto il dolore che avevo covato.

Finché non la portai davanti al suo collo, stringendo appena e tirando verso di me, prima che potesse parlare.

Lo guardai dimenare i piedi, che elevavano solo polvere, sentendo la suola delle sue scarpe, consumarsi su quel pavimento, e provò a scuotere la testa.

"C...cosa, c...az...zo, V...vuoi, s.." non riusciva a terminare la frase, mentre i miei occhi erano cechi, non vedevo, volevo solo ucciderlo, ma non potevo.

Lasciai lentamente la presa, vedendo le sue spalle rilassarsi appena.

"Cosa cazzo vuoi sapere?" Riformulò la domanda per intero, mentre c'era una tra le poche domande che ormai volevo porgli, ed era tra le più importanti. Importanti per chi amavo, e per chi ero stato obbligato a fare tutto ciò che avevo fatto. Non me lo perdonavo. Ero tornato buio, e il sole qua non splendeva mai senza la mia speranza.

Strizzai gli occhi per non cedere in un pianto, ma non era debolezza. Quando ami e non vuoi perdere, mostri i lati che non vorresti.

"La numero 276" cacciai fievole, ricordando che lui ricordava le persone in base ai numeri. Niente nomi, niente cognomi, sentimenti o affetti. Numeri come codici a barre.

Lo sentii sospirare, e tutti i muscoli del mio corpo, tendersi fin quasi a spezzarsi.

"Cosa le hai fatto?" Domandai con il mento che tremava, per la paura, di non aver mantenuto una promessa. E mi ricordavo che per una vita che salvi, l'altra muore. Speravo di no, sentivo i brividi di freddo espandersi sul mio corpo, che ora era una statua, e sentivo solo il mio cuore scoppiare dai battiti elevati, ed i suoi sospiri rilasciati nello spazio angusto, privo di finestre.

"È morta. La ragazzina dai capelli castani. Era bella. L'avevano richiesta per un'orgia, dei clienti mafiosi importanti, erano affari, lo sono sempre" rivelò asettico, come se davvero fosse stata una bambola di pezza, mentre il mio sguardo sembrava posseduti dai demoni interiori, le pupille dilatate oltre al limite, la bocca serrata in una linea rigida, ed il corpo preso da spasmi, come se non avessi più la dote di muovere gli arti. Sembravo un vegetale, che ascoltava ma non faceva nulla. Vedevo oscurità trapelare, gli occhi pizzicare fortemente, come il setto nasale.

Strinsi gli occhi in due fessure, tirando di nuovo in uno scatto la corda verso di me, sentendolo emettere un singulto strozzato, e la testa gettata all'indietro.

Guardai i suoi occhi sgranati dalla paura, mentre i miei erano fiamme in un ghiaccio.

"Come? Come?" Gridai isterico, stringendo di nuovo la presa, e rilasciandolo per farlo parlare, con talmente tanta veemenza, che la sedia oscillò come dei colpi sul suolo ritmici e fastidiosi, vedendolo tossire nuovamente.

"Overdose. Le hanno dato più dosi per farla stare calma e non ribellarsi" ammise l'ultima rivelazione, con il fiato spezzato, che mi fece rimanere pietrificato e con lo sguardo perso nel vuoto, come mi sentivo dentro, mentre mi gettai a terra, battendo le ginocchia sul suolo duro e freddo. Mi piegai appena su me stesso, prendendomi la testa tra le mani, e cullarmi come un pazzo.

Sentii le lacrime salate, colarmi lungo il volto spigoloso, scendendo velocemente verso il mento, mentre le dita erano diventate un tutt'uno con i miei capelli pece, come la mia anima.

"Uccidimi forza. Ammazzami" sembrava che me lo stesse imponendo, o forse sapeva che non ero in grado di farlo. Avrei voluto ucciderlo. Ma il destino aveva ripagato per me.
Mi ero messo anche in accordo con il mafioso più importante di tutta la Russia. Mikhael lackovic. Avevo prove che dimostravano che mio padre si sbatteva sua moglie americana, all'insaputa di lui.
Avrei vinto. Anche se dentro ero morto.

Scritto in collaborazione con kira-devilkiller  💕💕

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