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-Capitolo 39-

Pov. Alan

Finimmo di mangiare la cena, tra risate e chiacchiere sul più e il meno. Ero rimasto terrorizzato quando Jhonny ci chiamò entrambi zii, e dovetti inventarmi di sana pianta quella scusa. Non gliene facevo una colpa, lui era piccolo, e certe cose non poteva saperle, anche se Dorothy aveva cercato di spiegarglielo, come quando raccontiamo la verità un po' fantasiosa ai bambini, per non farli rimanere male, rendendo tutto un po' magico.
La vedevo lì, aiutare a sparecchiare Dorothy, con il volto sereno, e gli occhi luminosi. Ogni tanto ci scambiavamo occhiate, e diveniva rossa, abbassando subito lo sguardo e mordendosi le labbra rosee. Era bellissima, perfetta, ed era mia per quel frangente. Mi ricordavo ancora quando lo era davvero, quando per noi ogni paura veniva spazzata via, perché c'importava solo essere insieme. Ed ora mi sembrava una pellicola che faceva un rewind all'indietro, riavvolgendo quel nastro. Noi un po' più cresciuti, ma come se non ci fossimo mai divisi. Sapevo che reazioni provocava il mio tocco sul suo corpo, febbricitante e voglioso di avermi, la stessa voglia che riempiva i miei occhi, che da ghiaccio si tramutavano in una notte stellata, come se lei fosse quella stella tanto agognata. Ed era così infatti, era la stella che ricopriva il
cielo oscuro, dove mi perdevo.

"Andatevi a riposare ragazzi, finisco io qui. Sarete stanchi" c'informò Dorothy, togliendo i piatti sporchi dalle mani di Hope, rivolgendomi un'occhiata d'intesa.

"Sicura Dorothy? Mi scoccia lasciarti fare tutto da sola" domandò dolcemente Hope, aggiustandosi la ciocca dietro l'orecchio, un po' a disagio.

"Figliola, vai pure. Mi aiuterai domani" replicò cristallina Dorothy, facendo cenno di salire al piano di sopra e smetterla d'intralciare le sue pulizie. Risi di cuore, abbassando appena il mento e rialzandolo, verso di lei, per ringraziarla ma mi ammonì con la mano, come se non ce ne fosse stato bisogno. Ed invece dovevo ringraziarla di tanto, oltre che di questa opportunità.

"Vai su, ti raggiungo tra poco" le intimai carezzevole, portando un palmo sul suo fianco, sentendola irrigidirsi ed avere un sussulto dolce, mentre mi accostai al suo orecchio, assorbendo il suo profumo inebriante. Dolce droga per il veleno che mi scorreva dentro.

"S...si" balbettò appena, con voce poco udibile, portando un palmo, sul corrimano in ferro battuto delle scale a chioccia. Guardai affascinato le sue natiche muoversi ad ogni scalino, e mi morsi il labbro. Cazzo se avevo voglia di sentirla ancora.

Mi girai verso Jhonny che stava guardando un cartone alla TV, leccando un ghiacciolo alla menta, e ridendo del cartone, stando con le gambe incrociate sul divano.
Era piccolo, indifeso.

Mi avviai verso la cucina, trovando Dorothy che finiva di asciugare i piatti, con la pezza in mano.
"Non la raggiungi?" Domandò cauta, sapendo che aveva avvertito i miei passi flebili, sulle mattonelle in cotto.

Mi passai una mano tra i capelli, esalando un sospiro.
"Adesso vado. Volevo lasciarle il suo spazio" ammisi basso, poggiando la mano sul muro.

"Il suo spazio Alan? Lei non è Krys, lo sai" mi riprese sicura, sentendo il rumore della porcellana cozzare tra loro.

"Non fate altro che ripetermelo tutti. Speravo che almeno tu fossi dalla mia parte" sbottai duro e rabbioso, sbattendo il palmo contro il muro. Cristo! Nessuno capiva.

Si girò verso di me, con un'espressione premurosa, sul volto buono.
"Alan tu per me sei come un figlio, conoscevo tua madre da una vita. Jhonny se non era per te, non era qui oggi. Ma per quanto tu voglia farla rientrare nel suo mondo, lei non sa di farne parte" mi spiegò esile ma decisa, ciò che io non volevo capire. Sapevo che Krys era dentro di lei, solo era bloccata momentaneamente.

Annuii perché ciò che aveva detto era la realtà, voltando appena il viso verso Jhonny.
"Mi è mancato" le rivelai, riportando il mio sguardo sul suo, vedendola direzionare lo sguardo su Jhonny, con occhi dolci.

"Anche tu. Sei come una figura paterna per lui. Mi ha detto spesso che avrebbe voluto conoscere sua zia, e malgrado io ho tentato di farglielo capire, sa che non può come vorrebbe. Non lo dice, ma soffre dentro. Lo vedo dai disegni che fa, sempre tutti dipinti di nero e grigio, come sagome informi" spiegò sommessa e fievole, vedendo i suoi occhi divenire lucidi e scuotere la testa, come a scacciare l'amarezza.

Deglutii per quel magone che mi si era formato, sentendo una morsa stringermi il petto.
"La conoscerà prima o poi, proprio come vuole lui, lo prometto. Io per voi ci sarò sempre, siete la mia famiglia, insieme a Hope. E lo dimostrerò a lei, che non può essere di nessuno se non mia" affermai risoluto e deciso, guardandola dritto negli occhi nocciola, vedendo un sorriso sorgere sul suo volto.

"Sei proprio come tua madre, non si arrendeva mai davanti a nulla. Forse non capirà quando tornerà Krys, ma il cuore sa sempre che posto prendere, lui non sbaglia" rintuzzò con la sua voce fine e sottile, posando la pezza sul manico del forno, mentre le diedi la buona notte, avviandomi a passi deboli su. Aprii la porta piano, con un cigolio tenue, venendo colto da un po' di buio. Puntai lo sguardo verso il letto, vedendola distesa, con una sottoveste addosso di seta, che le era appena salita su i fianchi, lasciando vedere le sue gambe lunghe e magre. La testa poggiata sul cuscino, e qualche ciocca ad incorniciarle il volto perfetto, che dormiva beata, con le labbra appena schiuse. La mano aperta sul palmo, sul cuscino, mentre il braccio era attorno alla sua esile vita.
Era bellissima, non mi sarei mai stancato di ammirarla, abbagliata appena dal chiarore lunare.
Lei mi faceva tornare in vita, mi faceva dimenticare il mio passato gelido e triste, ed ogni cosa diveniva semplice, liscia.

Raggiunsi a piccoli passi il letto, sfilandomi la maglia da sopra la testa, e gettandola a terra, sentendo le molle del letto cedere debolmente sotto il mio peso. Puntellai un gomito sul cuscino, stando sempre attento a non svegliarla, ed alzai una mano, seguendo il profilo laterale della sua figura con l'indice ed il medio attaccati, senza sfiorare davvero il suo corpo caldo.
Udivo i suoi respiri bassi e tenui, ed il petto che si alzava e si abbassava, celando quel colore azzurro perdizione dei suoi occhi chiusi, dove le ciglia lunghe e nere, contornavano la sua bellezza.

"Non posso, non riesco a lasciarti andare, tu sei mia da sempre. Sono egoista, Krys, perché potrei lasciarti vivere la tua vita, senza intralciarla, ma per egoismo ti tengo ancorata a me. Tu sei la mia ancora di salvezza. Sei quel faro in mezzo al mare buio e tempestoso, pieno di catrame. E preferisco essere odiato mentre mi guardi negli occhi, che essere un codardo e sparire nel nulla" rivelai grave e profondo, sentendo i miei occhi appannarsi. Rivelare tutto a lei che dormiva beata, e non poteva sentirmi, dicendole cose che da sveglio non avrei ammesso neanche a me stesso.
Mi passai una mano sulla fronte madida, percorrendo i capelli fino alla nuca. Il sonno sembrava non volere entrare nel mio corpo. Anche ora che c'era lei, ed a maggior ragione avevo paura di chiudere gli occhi, e rivivere gli incubi che mi straziavano, riducevano in polvere da sparo il mio cuore metà funzionante.
Potevo ancora sentire l'odore del metallo bruciare, udire il rumore pesante degli scarponi, delle cinghia, le urla delle ragazze, i loro volti sporchi, avviliti, esasperati. Si dimenavano senza forze, abbandonandosi al loro destino già segnato, come quel numero che avevano inciso dietro la nuca. Un marchio di fabbrica. Quello che avevo fatto cancellare a Hope. Lei non era mai stata un numero, lei era mia, con il cuore, con la mente, con il corpo.

Mi alzai dal letto debolmente, notando il materasso rilasciare un sospiro, ed estrarre dalla tasca del jeans, il pacchetto un po' stropicciato delle Marlboro rosse.
Ne presi una tra i denti, aprendo con un cigolio appena percettibile, la finestra dall'altro lato della stanza, arredata con mobili bianchi in legno, come il resto della casa.
Scostai la tendina azzurra, portando i gomiti distesi sul cornicione della finestra.
Un fresco refolo di vento, smosse i miei capelli e rianimò il mio volto sudato. Sudavo per ciò che la mia mente ricordava, ed il mio corpo reagiva di conseguenza.
Portai una mano al lato della bocca, parando la fiamma debole dell'accendino, che oscillava un po', sentendo il tizzone iniziare ad ardere, ed aspirai una boccata nociva, per rilasciarla nel cielo più stellato ora.
Socchiusi un attimo gli occhi, avvertendo il rumore pacato e rilassante, delle onde, che si stagliavano dolci sulla sabbia, per riposarsi e trovare la loro pace.
La scena della prima volta che vidi Krys, tornò nitida nei miei pensieri, come quei film che rimangono impressi, troppo belli per dimenticarli, anche se tristi e strazianti.
La sua forza d'animo mi colpii subito, come un pugno dritto nella bocca dello stomaco, contorcendolo di un'emozione strana, viscerale. Lei aveva solo tredici anni, io già diciassette. Facevo parte di quella Merda, ma ero rimasto in disparte, vedendo l'uomo più fidato di mio padre, trascinare Grace, mentre Krys tentava di proteggerla, e ringhiare parole rabbiose verso di lui. Era una combattente, non si lasciava intimidire, era semplicemente una guerriera, la mia.
La sua disperazione era stata la cosa più dolorosa da vedere, mai nessuna mi aveva colpito come lei, come vedere i suoi occhi azzurri iniettati di rabbia viva e ardente, mentre si dimenava come un'ossessa per correre verso sua madre a terra, con il ginocchio sbucciato sulle mattonelle rotte della casa spoglia e sporca.
Il suo azzurro morire lentamente spegnendosi ed il suo volto divenire un telo bianco e tutto da riscrivere, guardando il corpo di sua madre perdere lentamente la vita, ed i miei occhi inumidirsi.
Urlava e scalciava con pianti che rimanevano a seccarsi sulle sue guance arrossate dalla foga con cui gridava, in lamenti che mi spezzavano le viscere. In un attimo, senza farmi vedere da nessuno, mi fiondai verso quella donna bella ed uguale alla figlia. Mi piegai sulle ginocchia, portando una sua mano esile tra le mia più grandi.
Boccheggiava ed annaspava a fatica. Stava per morire, ed io avevo assistito senza poter fare nulla. Senza poter impedire quella sofferenza davanti agli occhi di una ragazzina, mentre la sorella era già stata trasportata nel tendone del furgone opposto, per rincarare la sofferenza, tenendole divise.
Bastardi! Pensai digrignando i denti, sentendo una lacrima colarmi lungo il viso, che il vento prontamente asciugò, mentre rigettai un'altra boccata di nube grigiastra.
Mi permetti i polpastrelli sulla tempia destra, per cacciare via quel ricordo.
Le sue ultime parole mi avevano dato la forza d'animo che nonostante tutto, fino all'ultimo respiro esalato, il suo pensiero era andato alle sue ragioni di vita.
"P...pro...te...ggile. Pro...teggile" balbettò senza più voce, con le corde vocali raschiate ed il cuore che stava perdendo i suoi battiti, come i suoi occhi perdevano lucentezza.
Si toccò la collana, con un ciondolo, e lo aprii vedendo incisa la parola più bella e più insignificante in un momento buio come quello. La parola "speranza".
Presi la collana, con mani tremanti, avvicinandomi al viso della donna, distendendola dolcemente a terra, come una porcellana rara.
"Le proteggerò, la speranza mi darà la forza" le sussurrai sul volto, con la voce spezzata dal pianto che voleva uscire. Il suo corpo ormai inerme e privo di vita, dandole un lieve bacio sulla fronte fresca, lasciando anche una mia lacrima come ricordo. Questo era il mio motivo. Proteggerle. Ma una vita che salvi l'altra muore, e nel mio cuore la tristezza tornava come i sensi di colpa, a prendermi a coltellate, nette e profonde.
Così dentro adesso portavo il suo dolore, che diveniva anche il mio, come se fosse un dono prezioso. Perché quando provi un sentimento come il nostro, anche il dolore della persona che ami diventa importante. Devi saper cogliere il buio e la luce. Ma lei era la mia speranza, di un futuro lontano dal suo e dal mio dolore, che non sarebbe svanito, ma insieme sarebbe affievolito.

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