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90. E tutto è morto, e tutto è ancor vivo

E tutto è morto e tutto è ancor vivo 
e solamente tutto è cambiato, 
quello che provo l'ho sempre provato, 
e credo ancora in ciò in cui credevo. 
E il fiocco nero è l'unica cosa 
che mi è rimasta con la malinconia, 
ma insieme a questa stanca anarchia 
vorrei anche te, amica mia.

(T. Sclavi, Il lungo addio - Dylan Dog n. 77 - 1992)

[il verso finale immaginatelo al maschile, ovviamente]

--

«Vi sembra l'ora di bussare a una camera d'hotel?» Nic li rimproverò, ma li fece entrare.

«Scusa Misha, ti ho chiamato e ti ho scritto cento messaggi per sapere se eri sveglio... ma non leggi da oggi pomeriggio! Come stai?» disse Ivan andando verso Michele, che era in piedi accanto al tavolo e rispose facendo così così con la mano.

«Ero quasi sicuro che fossi sveglio. So che hai avuto da fare fino poco fa...» Raffaele si interruppe e guardò le portate sul tavolo. «Oh, ma stavate cenando?»

«Sta ancora cenando...» gli fece notare Nic. Chiuse la porta e si avvicinò a loro, e non appena lo fece sentì uno sgradevole odore alcolico aleggiare intorno a Raf.

Ivan, intanto, stava prendendo in giro il pasto di Michele definendolo «cibo ospedale» e si permise persino di sollevare il coperchio che teneva al caldo il pollo, per vedere cosa c'era sotto. «Ah... pensavo che era dolce...» commentò con aria delusa.

«Vanja, non essere invadente» disse Raffaele.

Nic Stava sopportando malissimo quella situazione. Come avrebbe fatto in Russia? Sarebbe dovuto stare a stretto contatto con lui, quando sarebbe uscito dalla clinica. Non sapeva se poteva farcela. «Possiamo tagliare corto, per favore? Cosa volevi dire a Michele di tanto importante?»

Raf rispose a Nic con una smorfia che deformò la pelle cascante del suo viso, poi si rivolse a Michele. «Volevo ringraziarti. Di persona.»

Michele sembrò molto imbarazzato da quelle parole, abbassò lo sguardo.

Raffaele emise un sospiro, che riempi l'aria di un tanfo orrendo. Possibile che persino prima di andare lì per parlare con loro non fosse riuscito a trattenersi? «Puzzi d'alcol. Hai bevuto? Hai fatto festa prima dell'astinenza che ti aspetta tra un paio di giorni?»

Raf girò la testa di scatto. «Sai benissimo che è pericoloso smettere di punto in bianco. Non preoccuparti. Sono sobrio a sufficienza. Sono riuscito a controllarmi.»

«Se non c'ero io, col cavolo...» gongolò quel cretino di Reshetnikov battendosi il petto con le mani.

«Michele, ricomincia a mangiare» disse Nic, vedendo che Michele restava immobile impalato. Lui sedette ma non sembrò intenzionato a toccare il cibo.

«Dico davvero, Michele. So che lo fai per Vanja, e non per me. Ma grazie. Non credo di meritarmi una cosa del genere» aggiunse Raffaele.

«No che non te lo meriti...» borbottò Nic.

Ma la sua voce fu coperta da Michele: «N-non lo faccio per Vanja... per Ivan. Non lo f-fa-faccio per lui.»

«E allora perché lo fai, se posso chiedertelo?» Raf si rivolse lentamente a Nic. «L'hai convinto tu?»

Nic si sentì colto in fallo e si rese ridicolo, reagendo in maniera esagerata. «Iiiio? È Michele che ha convinto me! Io ero contrario!»

«E comunque devo ringraziare anche te» disse Raf, svelando la menzogna di Nic. «Sergej e Irina mi hanno detto che vieni a Mosca per seguire la...»

«Non ti montare la testa e non pensare di esserti riconquistato la mia amicizia» lo interruppe Nic. «Lo faccio solo perché non voglio che questi centomila euro vadano sprecati.»

Raf sostenne lo sguardo sprezzante di Nic con una compostezza incredibile, considerando che aveva bevuto. «Non lo pensavo. Non mi aspetto che mi perdoni tanto facilmente, dopo che ho fatto il vigliacco e sono sparito senza dire niente a nessuno.»

«Non voglio parlare di quella bambinata, adesso. Hai detto quello che volevi dire, ora potete andare.» Nic notò che Reshetnikov lo stava guardando con aria impertinente. «A meno che non volessi dire qualcosa di fondamentale anche tu...»

Reshetnikov alzò le mani. «Io sono venuto per salutare Misha e per riprendere la ghitarra.»

«Bravo. L'hai salutato. La chitarra è lì.» Nic la indicò, era ancora appoggiata nell'esatto punto in cui l'aveva lasciata quella mattina, quando erano usciti dalla camera. «Prendila, andate e lasciatelo mangiare in pace.»

«Questa è camera di Misha. Decide Misha se sto qua o vado via. Non tu.»

Nic aveva conosciuto davvero poche persone arroganti come quel ragazzo. Aveva il piglio del ricco viziato che otteneva sempre tutto con estrema facilità, pestando i piedi e facendo un broncetto. Lo demoralizzava l'idea che Michele si fosse fatto affascinare dai suoi modi. «Come fa a piacerti questo arrogantello del cazzo?» Poi si rivolse proprio all'arrogantello in questione. «E tu... ascolta Raffaele, non essere maleducato.»

«Sei tu maleducato.» Ora Reshetnikov lo fissava con ostilità. Nic stava contando mentalmente, per trattenersi dal tirargli uno schiaffone.

«Ivan, smettila» lo rimproverò Raffaele, in tono duro. Poi si rivolse più dolcemente a Nic: «E anche tu, Nic... lascialo un po' decidere da solo, a 'sto poraccio. Hai sempre lo stesso vizio, sei iperprotettivo. Lo sei sempre stato.»

«Mi vuoi insegnare come crescere mio figlio? Dall'alto di quale esperienza?» sbottò infastidito. Raffaele era davvero l'ultima persona al mondo che aveva il diritto di dare lezioni su quell'argomento.

Ma Nic si pentì subito di aver detto quelle parole, perché vide l'effetto che fecero a Raf. L'avevano ferito.

«Sei uno stronzo» disse Ivan, rivolto a Nic, con un'espressione seria e giudicante. Nic lo stava odiando per la sua arroganza, ma un po' anche perché aveva detto la verità. 

Sono stato stronzo davvero...

«P-p-prima mi hai deeeetto che stasera, se volevo, potevo passare la notte con Ivan.»

La frase di Michele fu talmente inaspettata che ebbe l'effetto di smorzare la rabbia di Nic.

Alla rabbia si sostituì il disappunto. Perché? Perché tra tutti i ragazzi si era fissato con quel cretino, quel pagliaccio che voleva solo attirare l'attenzione, che trattava tutti con arroganza e senza rispetto!

No! Avrebbe voluto dire... No, ho cambiato idea! Tu con questo non ci passerai un secondo di più in tutta la tua vita. Questo ragazzo non ti rispetta, vuole solo approfittarsi di te e della tua ingenuità. Questo ragazzo pensa solo a se stesso, è un egocentrico a cui interessa più il colore dei propri capelli del tuo benessere.

«Quindi siete davvero... tipo... fidanzati? È ufficiale?» chiese.

Michele sembrò seccato dalla domanda aprì la bocca, poi la richiuse, come se avesse cambiato idea su ciò che voleva dire. La sua espressione cambiò, divenne inquisitiva. «E se fosse?»

Nic si sentiva osservato. C'era lo stronzetto dai capelli verde limone che lo guardava con un'aria divertita, ora. E anche Raf stava scoprendo con un debole sorriso i suoi denti scuri.

Cercò di non farsi intimidire, di mantenere un contegno. «È o non è?»

Michele guardò Ivan. Stava cercando rassicurazione. Aveva paura. Di cosa? Di confessare, era ovvio. Nic ora capiva: la relazione era già cominciata, chissà da quanto stava andando avanti. Una relazione che lui disapprovava con tutto se stesso.

E la conferma arrivò dalla voce di Michele: «È.» Suo figlio sembrava terrorizzato: il suo volto era diventato paonazzo e il suo respiro era affrettato.

Perché hai paura, Michele?

Nic rivide se stesso in suo figlio, rivide la paura che aveva avuto di suo padre. Sì odiò per aver causato quella stessa paura in lui.

Nic fece un cenno di assenso, sentendosi il più colossale pezzo di merda mai esistito sulla terra. «Be', lo immaginavo.» E guardò Raf. Chissà cosa stava pensando. Abbassò la testa, alzò le spalle, quasi potesse, con quel gesto, rassicurare se stesso. «Va bene. Me ne vado io, allora.» 

Si avviò verso la porta e si rese conto che quel rincoglionito di Raffaele stava rimanendo nella stanza. «E tu cosa fai? Resti qui a reggergli il moccolo?»

Ma Raffaele si rivolse ancora a Michele.«Quindi lo fai per lui? Voglio solo sapere. Capire.»

Nic rimase ad ascoltare la risposta, che arrivò dopo quella che sembrava una lunga riflessione. «No... Cioè, n-non solo. Cioè...» 

Michele sembrava in difficoltà, fece un sospiro. Non era abituato a parlare con così tante persone che lo ascoltavano. Ma trovò in qualche modo il coraggio di proseguire. «Q-quel giorno io... lui...» indicò Ivan, «c-cioè, lui p-piangeva e mi... m-mi... cioè, non mi p-piace vedere le persone p-piangere... ma non è solo p-per quello, cioè... eh... mmm...»

Michele andò in affanno, aprì la bocca e non uscirono suoni, Nic già temeva uno dei suoi episodi di mutismo, ma Michele prese un respiro e riuscì a parlare ancora.

Quello che disse, però, fece pensare a Nic che forse avrebbe fatto meglio a rimanere zitto: «Io... la p-prima volta che t-t-ti ho visto ho pensato che fossi un uomo d-disgustoso.»

Raf stupì Nic con una risata.

«Ma cosa ridi, coglione. Ha ragione!» Possibile che Raf trovasse comica la condizione tragica in cui versava?

«Cioè, ssssenza offesa. P-però poi... t-t-ti ricordi q-quando mi hhhhhhai fatto vedere lo slice?» 

«Sì?» ora Raffaele sembrava perplesso.

«Io... io ho p-peensato che fosse... una... uno dei g-gesti atletici più belli che avessi mai visto e... ho pensato: come è p-possibile che un uomo così b-brutto riesca a p-produrre t-tanta b-b-bellezza?»

«Non ci vai leggero, coi complimenti, tu...» disse Raffaele.

Nic era stupito che suo figlio, nel silenzio della sua testa, avesse pensato tutte quelle cose. Michele era un ragazzo che parlava poco a causa della sua balbuzie. Nic aveva fatto l'errore di credere che pensasse, anche, poco.

Peccato, però, che non fossero pensieri suoi. Erano i vaneggiamenti che gli aveva messo in testa Elisa.

«Sei anni che è morta, e hai ancora in testa tutte queste cazzate sulla bellezza» non poté evitare di dire Nic.

Michele gli rivolse un'occhiata addolorata. «Quando è m... q-quando è... quando è m-m-m-morta la mamma, insieme a lei è morta tutta la sua bellezza. Quando Ivan mi ha detto che R-raffaele aveva t-tentato il suicidio io...»

«Hai rivissuto il sui... la morte della mamma» Quelle parole erano uscite di bocca a Nic senza che riuscisse a frenarle, spontanee. Forse perché lui stesso aveva fatto un'associazione simile.

Ma che errore! Che errore gravissimo! Si era lasciato sfuggire le prime tre lettere di quella parola proibita: suicidio.

Merda!

Come aveva potuto essere così stupido?

«No! Non è quello» stava dicendo intanto Michele. Se n'era accorto? Non sembrava essersene accorto, non aveva l'aria di essere turbato. Forse Nic si era corretto talmente in fretta da farlo sembrare un inciampo, un balbettio.

Sì, forse Michele l'aveva interpretato così: un balbettio. Come quelli che faceva sempre lui.

«Io... so che esiste ancora d-della bellezza in te. Non voglio che muoia altra b-b-bellezza... io... voglio rivedere il tuo slice.»

Nonostante quelle parole riecheggiassero dei pensieri di Elisa che Nic non aveva mai condiviso, le trovò commoventi.

E ricordò quando lui stesso, da ragazzo, si era ritrovato ad ammirare la bellezza di Raffaele. Quando si era persino chiesto se l'unico motivo per cui lo amava e gli stava vicino fosse quello, la sua bellezza.

Adesso Michele faceva un discorso simile, lo voleva salvare per salvare la sua bellezza, perché dentro quel corpo deformato dal dolore, aveva trovato della bellezza. Era un discorso superficiale, ma allo stesso tempo struggente. Struggente per molte ragioni, non ultima che la bellezza, qualsiasi tipo di bellezza, era sempre destinata a morire.

Gli occhi di Raffaele, che già erano stanchi, sembrarono acquisire il peso di altri cent'anni di vita. «Sono solo un vecchio. Non gioco mai, e se gioco vado lento come una tartaruga. Quello che dici non ha senso.»

«È vero. Non ha senso. Tua madre ci è morta, di troppa bellezza, vuoi fare la sua fine?» di nuovo, Nic, si lasciava sfuggire parole che rivelavano troppo. Ma era stanco anche lui, stanco di tutti quei discorsi.

Ed era stanco anche Michele, evidentemente, perché gridò: «Sssmettila di p-parlare di lei!» 

Michele, una volta tanto, aveva ragione. Nic non fece nulla per rimproverare quell'intemperanza.

«Stavo p-parlando con Raffaele» aggiunse Michele, in tono più calmo. «Non voglio che muori, ok? Non importano le r-r-ragioni.»

Ed eccole lì, non le vedeva da venticinque anni, ma se lo doveva aspettare: era la cosa che Raffaele sapeva fare meglio. Piangere. Lacrime su lacrime e che gli bagnarono le guance. «Ti prometto, Michele... che non saranno soldi spesi invano. Voglio...»

«Oh, finiscila con queste cazzate!» Ed eccola lì, anche un'altra cosa che Raffaele era bravissimo a fare: causare le grida di Nic. Lui non alzava mai la voce, e Raffaele era stata la persona che, in tutta la sua vita, gliel'aveva fatta alzare più spesso.

«Io ho uno scopo, adesso. Per la prima volta in vita mia...» cominciò Raf.

«Mi hai detto le stesse cose, trent'anni fa! Le stesse parole! Ti prometto...» Nic riprodusse una voce lamentosa. «Ti prometto che troverò uno scopo... ti prometto che non mi drogo più, e guardati! Guardati come ti sei ridotto!» Nic senti di essere sul punto di piangere, e faticò a ingoiare le lacrime.

«Ti prometto che troverò, ti ho detto! E non l'ho trovato. Hai ragione. Ma adesso non devo cercarlo. Ce l'ho!»

«E quale sarebbe questo scopo?»

Raffaele si fece serio, drizzò la schiena curva, e tese un braccio verso Ivan. «Voglio farlo diventare numero uno.»

Era un obiettivo talmente folle e impossibile, con il gioco bislacco e senza senso che quel ragazzo si ritrovava, che Nic reagì con una risata.

«Prima mi hai rinfacciato di non avere figli» disse Raf con gli occhi lucidi. «Be', eccolo, il mio figlio adottivo. Anche se è stata un'adozione al contrario, è lui che ha adottato me. Lui...»

Ivan non lo lasciò finire. Lo abbracciò di slancio. Raf pianse ancora e Nic non riuscì a guardare oltre. «Oh, che scena commovente...» disse, ostentando sarcasmo.

«Mi avevano detto che i russi erano persone fredde...» disse Raf con la voce incrinata.

«Sai che mi piace di essere originale» rispose Ivan.

Nic non ne poteva più di tutte quelle emozioni da poco e scene da telenovela. Andò a separare quella zuccherosa rappresentazione della paternità e trascinò Raf verso la porta. «Sempre a fare melodrammi...»

«Hey! How dare you!» gridò Ivan seguendoli.

Ma Michele con uno scatto fu in piedi e afferrò Ivan a sua volta, lo trattenne prendendolo per le spalle. Sara abbaiò, Nic guardò suo figlio e... il suo ragazzo. Michele era alto, aveva almeno dieci centimetri e venti chili più di Ivan, spalle più larghe, braccia più muscolose, fisico più massiccio e maturo. Ivan nel fisico era ancora un adolescente, nemmeno sembrava un atleta.

Poi li guardò bene in faccia. E vide gli occhioni scuri e sperduti di Michele, e quelli chiari, stretti, furbi di Ivan. E i rapporti di maturità si invertirono.

Ivan sembrava un ragazzo così combattivo, come avrebbe fatto Michele a tenergli testa? Sarebbe stato impossibile.

«Fatti i cazzi tuoi, ragazzino» disse puntando il dito contro Ivan. Poi rivolse un'ultima occhiata a Michele, indeciso se dirgli qualcosa. Non disse nulla. E uscì.

Chiuse la porta.

La sua mano stava ancora tenendo il braccio di Raffaele.

Lo lasciò.

Soli.

Era la prima volta, da quando era tornato, che si trovavano soli, uno davanti all'altro.

Niente sentimentalismi. Praticità. «La mia camera è in fondo al corridoio. Sei in grado di arrivare alla tua camera da solo, o ti devo accompagnare? Preferirei non farlo. Ma se non sei in grado ti accompagno.»

Raf non rispose, ma quando Nic, spazientito, si incamminò, lui lo seguì. Lo seguì fin davanti la porta della camera. «Posso entrare solo un attimo? Vorrei parlarti brevemente di una cosa» disse infine.

Nic aprì la porta e lo fece entrare nella sua stanza, che era molto più piccola di quella di Michele. Rimasero in piedi tra il letto e un divanetto.

«Preferirei se non venissi in Russia» disse Raf.

Nic alzò gli occhi al cielo, pensando che se era tutto quello che voleva dirgli, avrebbe potuto dirglielo anche in corridoio e lui lo avrebbe liquidato con le stesse, esatte parole: «E chi ti sta dietro, quando esci dalla clinica? E se in clinica ti succede qualcosa? Mi dispiace, quando mi prendo un impegno lo porto a termine nel modo giusto, non faccio le cose a cazzo di cane. E per quanto Reshetnikov mi stia sulle palle e preferirei saperlo in Russia piuttosto che in giro per il Tour a dare fastidio a Michele, penso anche che abbia il diritto di farsi i cazzi suoi e pensare alla sua carriera, e non a fare da badante a te.»

«Nic, io sto morendo.»

Nic prese dei lenti respiri, ponderando quella frase. «Stai facendo il melodrammatico del cazzo come tuo solito, o stai dicendo la verità?»

«Io non sarei mai tornato. Non me ne sarei mai andato da Peter. L'unico motivo per cui sono tornato è quel ragazzo là.» Raf indico la porta alle sue spalle. «Sapevo che allenandolo ti avrei incontrato, prima o poi. Speravo che avresti avuto una reazione fredda. Speravo che dopo tutti questi anni rivedermi ti avrebbe lasciato indifferente. Ma vedo che non è così. Se mi stai vicino, adesso, avrai solo dolore.»

«E cos'altro ho mai avuto da te?»

«Dimenticati di me. Non voglio che torniamo essere amici.»

«E cosa ti fa pensare che tornerò essere tuo amico?»

Raffaele ricominciò a piangere.

Nic sospirò. Vedo che non hai perso il vizio di frignare, fu la prima cosa che pensò di dire. Ma invece disse: «Cosa significa "sto morendo"?»

«Che i dottori mi hanno dato un anno, massimo due di vita.»

Nic fissò Raffaele. Osservò quell'uomo in lacrime, che si era lentamente distrutto con le sue stesse mani. 

Morto. Entro uno, massimo due anni. Entro  uno, massimo due anni, quel pezzo della vita di Nic sarebbe sparito nel nulla, per non tornare mai più. Lo aveva già pensato, che non l'avrebbe più rivisto. E quando poi, invece, l'aveva rivisto aveva pensato: perché non sei morto? Aveva pensato che sarebbe stato meglio se fosse morto, piuttosto che rivederlo in quello stato.

E ora lui gli diceva che sarebbe morto davvero.

«E... non... Sei sicuro che non c'è niente da fare?»

«Perché pensi che ho provato ad ammazzarmi? Proprio per questo. Sapevo che stavo messo male, ma credevo di avere ancora qualche speranza. Invece non ce l'ho. Proprio adesso che pensavo di aver trovato qualcosa che assomigliava a uno scopo, il mio tempo finisce.»

Nic continuava a fissarlo, come se riempirsi gli occhi di lui potesse renderlo più concreto, ed eterno nella sua concretezza. «Pensavi di avere qualche speranza, ma hai continuato a bere come un coglione e hai fatto di tutto per distruggerla, quella speranza.»

«Sì. Posso accusare soltanto me stesso. Ma non sarebbe mai potuta andare diversamente.»

Nic fece un passo verso di lui, e si ritrovò a parlare con la voce incrinata. «Sì, che sarebbe potuta andare diversamente! Se non fossi scappato come un codardo, se fossi rimasto, io ti avrei aiutato!»

«Per quante volte mi avresti aiutato? Per quante volte mi avresti tirato fuori dal buco in cui sarei sicuramente ricaduto?»

«Un milione di volte! Se fosse servito ti avrei rimesso in piedi un milione di volte!» Nic riuscì a ingoiare le lacrime. Non voleva piangere, le lacrime erano sempre una sconfitta.

Raf le sue lacrime le asciugò. «E ti saresti distrutto la vita! Avresti sofferto un milione di volte! Io l'ho capito quel giorno che hai sniffato. Ho visto la disperazione di quel gesto e ho pensato: cosa altro lo spingerò a fare dopo questo? In quali altri modi gli rovinerò la vita? E ho capito che non c'era posto per me dove c'eri tu.»

Nic fece una risata amara. «A cinquant'anni ancora non hai imparato a prenderti le tue responsabilità?» sputò fuori. «Stai ancora a: ho bevuto per non dare fastidio a te, Nic! Mi sono drogato sennò ti vomitavo in macchina e ti rovinavo la tappezzeria, Nic. E adesso ti racconti che sei scappato perché non volevi farmi soffrire? Tu sei scappato perché volevo drogarti in pace senza che nessuno ti dicesse niente!»

«No, Nic. Non hai capito. Io avrei continuato a bere. Anche con te che me lo impedivi. E avrei continuato ad aggrapparmi a te per non sprofondare e a farmi ritirare su per poi ricadere. Nel mio mondo ideale io avrei avuto entrambe le cose: la mia droga e te. Ho capito che entrambe non potevo averle, che dovevo rinunciare a una delle due. E ho rinunciato a te.»

Nic annuì. «Ecco, questa mi sembra già un'analisi più corretta. Non l'hai fatto per me, l'hai fatto per te. L'hai fatto per non dover rinunciare alla droga.»

Raf annuì con gli occhi fissi sul pavimento.

«Raf, posso dirti una cosa che forse ti suonerà assurda, detta da me?» disse Nic, stanco.

Raf alzò lo sguardo.

«Che cazzo ti disintossichi a fare?»

Raf aggrottò le sopracciglia.

«Se davvero ti resta un anno di vita, ma che cazzo di senso ha che ti disintossichi? Passa quest'anno stonato e senza pensieri, e muori felice.»

«No. Proprio perché sto morendo, voglio vivere tutto quello che vivrò senza sordine. Voglio dedicare a Vanja il cento per cento della testa.» Fece una risatina. «O meglio, il cento per cento di quello che resta... di neuroni credo di averne bruciati parecchi.»

Nic ingoiò un nuovo grumo di lacrime. «E allora, se vuoi farlo davvero, io ti aiuterò.»

«Non voglio che soffri per colpa mia.»

«Soffrirei di più all'idea di averti lasciato solo. E all'idea che...» Nic cercò di misurare bene le proprie parole. «Hai un anno da vivere? Se non lo passassi standoti vicino, l'idea di essermi perso l'ultimo anno delle tue cazzate mi farebbe morire di dolore.»

Raf rise. «Cercherò di farne meno possibile.»

Nic si sforzò di produrre un sorriso. 

«Vorrei abbracciarti. Ma so che puzzo di alcol, non voglio farti schifo.»

«Hai puzzato molto peggio di così. Ma non è per quello che in questo momento non voglio abbracciarti.» Nic scosse la testa, le braccia rigide e adese al corpo. «Faccio ancora fatica ad accettare come ti sei ridotto. Mi fa molto male, non te lo nascondo.»

Raf abbassò la testa. «Ogni tanto faccio fatica anch'io.»

«Per stasera salutiamoci. Sono stanco. È stata una giornata molto lunga.»

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Note

Che cosa hai fatto, Raf? Sarà davvero l'inizio di un terribile, lungo addio? 

E riuscirà Raf a uscirne? Nel prossimo capitolo viaggiamo insieme in Russia per scoprirlo.

Nota sulla canzone/non canzone che ho usato oggi. Il lungo addio è il titolo di un romanzo di Chandler in cui l'alcolismo è uno dei temi principali, ma è anche il titolo di uno dei più bei numeri di Dylan Dog, numero da cui ho tratto la citazione speciale di questo capitolo, una finta canzone scritta da Dylan per un suo amore adolescenziale. Il numero è una storia struggente fatta tutta di sogno, ricordi e nostalgia. Ho trovato una coincidenza davvero curiosa il fatto che quel numero sia uscito nel 1992, che è proprio l'anno in cui Raf è scappato.

Di questo numero voglio mostrarvi quattro vignette, che credo siano molto significative, dal punto di vista tematico, in relazione a questa storia (sceneggiatura di Tiziano Sclavi in persona, disegni del compianto Carlo Ambrosini)(la copertina che ho messo sopra al titolo, invece, è di Angelo Stano).

Ci rileggiamo giovedì, e lasciatemi una stellina per ogni improperio esclamato da chi ha letto le prime saghe di Dylan Dog ogni volta che vede in edicola uno dei nuovi numeri in uscita.

Note 2 - Leggere Play in parallelo ▶️

Questo triste capitolo corrisponde (e completa) il capitolo 42 di Play. Per leggere le storie in parallelo senza spoiler è l'unico che dovreste leggere.

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