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61. There's nothing I can do

Here am I, floating round my tin can
Far above the world
Planet Earth is blue
And there's nothing I can do

(D. Bowie, Space Oddity, 1977)

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10 maggio 1989

Erano appena le undici di mattina, e se fossero partiti subito sarebbero arrivati a destinazione in serata, secondo le stime di Nic.

Forse sarebbero stati costretti a trascorrere una notte a Capriva. Doveva chiedere le chiavi dell'appartamento a sua madre, ci avrebbe dovuto discutere un po', lei gli avrebbe quasi sicuramente chiesto di fermarsi a cena. Suo padre sarebbe stato un problema, forse anche suo nonno. Ma c'era la Fulvia a casa e forse lei gli avrebbe dato una mano, anche se erano almeno due anni che non ci parlava. E la Grazia? Non aveva più sentito la sorella minore da quando se n'era andato. Ormai stava per compiere vent'anni e faceva l'università a Trieste, ogni tanto sua madre gli raccontava qualcosa: ha preso ventotto, ha un nuovo ragazzo...

Ma non aveva senso fasciarsi la testa in anticipo, una soluzione l'avrebbe trovata.

«Una doccia veloce direi che te la fai.»

«Faccio tanto schifo?» chiese Raf in tono pietoso.

«Non credo di aver mai sentito un essere umano puzzare così tanto.»

«E mi abbracci pure!» Raf si mise di nuovo a piangere.

Finita la crisi di pianto, Nic porto Raf in accademia. Tazio si mostrò disgustato dalle condizioni in cui Raf versava, ma come Nic si aspettava, non fu crudele è consentì loro di usare le docce degli spogliatoi. Incontrarono anche Elisa, che chiese a Raf come stava ma fu molto fredda. A Nic non disse quasi niente. Ci avrebbe riparlato quando sarebbero tornati a Bologna, con Raf pulito.

Prima della doccia, Nic volle fare una cosa: documentare le condizioni di Raf. Voleva documentare il suo miglioramento, sperando che un miglioramento ci sarebbe stato, perché voleva mostrare all'amico che cos'era diventato sotto l'effetto della droga e che persona stupenda poteva essere quando invece era pulito. Perciò, per prima cosa, dal deposito dove Tazio aveva fatto lasciare tutte le cose di Nic, recuperò la telecamera. Per fortuna una delle due batterie aveva ancora un po' di carica e c'era anche qualche cassetta vergine. Nic ne caricò una e puntò l'obiettivo su Raf. «Cosa fai?» biascicò lui. Nic inizialmente non rispose. Lo inquadrò dalla testa ai piedi, inquadrò i suoi vestiti sudici, i suoi piedi scalzi e le sue condizioni pietose. Poi fece uno zoom sul viso, sui brufoli, sulla barba incolta e sporca e incrostata. Raf lo fissava con lo sguardo spento e ripeté la domanda: «Cosa fai?»

«Quando starai meglio, voglio che riguardi queste immagini perché voglio farti provare il desiderio di non essere mai più così.»

«Credi che non lo so come sto messo? Credi che me ne freghi qualcosa?» disse lui a rallentatore.

«Adesso non te ne frega niente. Spero te ne fregherà qualcosa, quando ti rimetto in sesto.»

Raf alzò le spalle, e fu su quell'immagine che Nic fermò la registrazione.

Nic attaccò alla corrente la batteria scarica. Aiutò Raf a spogliarsi. Nella tasca dei jeans lerci trovò il suo portafogli vuoto, in cui per fortuna c'erano la sua patente e soprattutto la carta d'identità, necessaria per l'espatrio.

Buttò i vestiti vecchi e pretese di essere presente durante la doccia, si voltò dall'altra parte mentre Raf si lavava per non metterlo troppo in imbarazzo.

Riuscì comunque a vedere le condizioni fisiche dell'amico: a parte le ferite dei buchi sulle braccia, la cosa più impressionante era quanto fosse secco. Le ossa gli sporgevano in diversi punti, la sua schiena era cosparsa di brufoli come la sua faccia, e aveva perso buona parte tono muscolare. Nonostante la magrezza, i muscoli addominali sin troppo rilassati lasciavano spazio a una pancetta floscia che gli dava un'aria ancora più malata.

Raf si lavò con poca energia e poco entusiasmo, ma trascorse parecchio tempo sotto l'acqua scrosciante, e quando ne emerse aveva un aspetto decisamente migliore.

Nic lo aiuto ad asciugarsi e rivestirsi perché sembrava davvero non avesse la forza di farlo da solo. «Portami in stazione, Nic» disse Raf. Nic non rispose. Lo costrinse anche a lavarsi denti, cosa che probabilmente non faceva da un mese, e lo aiutò a farsi la barba con un rasoio usa e getta, non senza grandi lamentele di Raf che ne avrebbe preferito uno elettrico.

Alla fine di tutto, senza mai perderlo d'occhio, trascinandoselo sempre dietro, tornò nel deposito e prese un paio di cambi d'abito per sé e per Raf, e il borsone sportivo con scarpe e racchetta da tennis. C'era anche la sua vecchia racchetta di legno, dentro. Aveva in mente di ricominciare un po' ad allenarsi con Raf, quando lui sarebbe stato meglio.

Partirono intorno all'una, Raf più cupo che mai. Dopo mezz'ora di viaggio, Raf gli disse di avere fame. Si fermarono a un autogrill, e lui cercò senza vergogna di ordinare da bere. Al rifiuto di Nic, lo minacciò: «Non lo sai che se mi viene una crisi d'astinenza troppo forte posso anche morire? Mi devi far bere qualcosa per tamponare.»

Nic sapeva, o meglio, era quasi certo che Raf gli stesse raccontando una panzana. Era quel quasi che lo fregava. Si rese conto di saperne troppo poco. Certo, quando Raf era stato ricoverato in comunità e in clinica, Nic si era informato, non era un completo sprovveduto sul tema. Aveva una vaga idea di quali fossero i sintomi della crisi d'astinenza, e sapeva da quali segni riconoscere se qualcuno era alterato da un narcotico. E sulle crisi d'astinenza, sapeva che erano molto intense e dure da sopportare, e che infatti in molti centri di disintossicazione davano ai tossicodipendenti il metadone per attenuarle. Per attenuare, non per sopravvivere. E non dappertutto lo usavano. Quindi Nic era quasi certo che quelle crisi non fossero letali. 

Ma se avesse capito male? Se ricordasse male? In fondo non aveva mai letto niente, non aveva mai studiato l'argomento, non era un dottore, non era un assistente sociale, non era niente. Cosa stava facendo?

Una cazzata. Dovrei portarlo in comunità. È la cosa migliore, per lui.

Solo che no. Non era la cosa migliore. Perché già c'era già entrato e uscito tre volte. E poi era stato anche in clinica, nessuna di queste cose era servita a niente. E quello allora, forse, era l'ultimo tentativo disperato di Nic di salvare il suo amico, la persona a cui tenesse di più sulla faccia della terra.

Nic, per debolezza e ignoranza, cedette. Non sapeva quale fosse la quantità giusta. Lo chiese a lui.

«Comprami una bottiglia piccola di vodka, quelle costano poco. Così poi ne posso bere un po' anche durante il viaggio, se sto male.»

«No. Mi stai dicendo una cazzata. Stai cercando per l'ennesima volta di manipolarmi. Ti farò bere un bicchiere di vino. Fattelo bastare. Insieme al panino.»

Raf quasi non tocco il panino, trangugiò il vino come qualcuno che avesse appena trovato dell'acqua dopo tre giorni a secco nel deserto. Si lamentò che era troppo poco, non gli aveva fatto niente. Minacciò di nuovo Nic, e Nic cominciò a capire l'inganno, si sentì stupido. Si sentì manipolato. Sì odiò per aver ceduto a quella richiesta e temette di aver fatto un danno. Ma non aveva senso recriminare, avrebbe semplicemente ricominciato da zero. Portarono il panino non finito di Raf in macchina e ripartirono.

Impiegarono altre due ore e mezza per arrivare a Capriva, e furono due ore e mezza di crescente irritazione di Raf, di crescente malessere, di crescenti minacce. Sulla via di casa Raf diede il peggio di sé. Minacciò Nic di fare una scenata coi suoi genitori se Nic non gli avesse comprato subito qualcosa da bere. «Ti faccio pentire di avermi portato qui! Tu non hai nessun diritto di tenermi qui! Dammi subito da bere o faccio qualcosa di orribile davanti ai tuoi!»

«Non mi faccio più intimorire dalle tue minacce del cazzo. Ho ceduto prima, sono stato stupido. È un errore che non ripeterò.»

Eccoci.

Il Luc di Zuan.

Quanto tempo era trascorso dall'ultima volta in cui aveva varcato quel cancello sempre aperto? Aveva perso il conto degli anni. Non aveva più visto sua madre, suo padre, la Grazia e suo nonno. La Fulvia l'aveva vista a Bologna, l'ultima volta due anni prima. Li avrebbe trovati cambiati?

La ghiaia che si smuoveva in cortile portò fuori dal portico suo nonno, che era sempre identico, identicamente vecchio e ostile. Guardò la Lancia corrucciato, a braccia conserte, ma si lasciò sfuggire un'espressione di stupore quando si avvide che c'era Nic al volante.

«Ciao nonno. Ancora deciso a non parlarmi?» disse Nic appena sceso dalla macchina.

La porta di casa in quel momento si aprì. Apparve sua madre, e com'era invecchiata! Quante rughe in più sul suo viso, come cascavano le sue guance. Sembrava aver preso almeno quindici anni, ma ne erano trascorsi la metà. I suoi occhi si inumidirono, un sospiro acuto le uscì dalle labbra. «Nico!» esclamò, la voce frenata dalle mani che aveva appena portato alla bocca. Perché doveva essere sempre così melodrammatica? Ma la scenata gli fece effetto e Nic avvertì un nodo fare su e giù in gola.

Lei gli corse incontro, lui rimase immobile, un po' sopraffatto dalla reazione e dalle emozioni. «Perché non mi hai detto niente, tesoro?» Lo abbracciò. «Che bella macchina che hai comprato. Come sei diventato grande.»

«Sono alto uguale, mamma» rispose lui.

«Mi sembri più grande, tesoro.» Stava piangendo. Nico la abbracciò, le accarezzò la schiena. «Perché non mi hai detto che tornavi?» ripeté lei.

«Ho deciso tutto all'ultimo» rispose lui, guardando la ricrescita grigia sotto la tintura castana dei suoi capelli.

«Ma guarda chi si fa vivo!» esclamò una voce femminile che di primo acchito Nico non riconobbe. Non la sentiva da troppo tempo, l'aveva dimenticata. Era la sorella Grazia. Era cresciuta di parecchi centimetri, diventando più alta della Fulvia, portava i capelli lunghi e mossi, un trucco marcato con l'eyliner, un maglioncino corto alla moda e dei jeans che le fasciavano le gambe lunghe e magre. Era davvero una bellissima ragazza. La madre si era lamentata, a volte, al telefono con Nico, del fatto che la Grazia cambiava ragazzo troppo spesso, ora capiva la ragione: doveva avere un bel po' di ammiratori.

«Il papà e la Fulvia dove sono?» chiese Nico non vedendoli apparire.

«La Fulvia è sempre in cantina che fa qualcosa per l'azienda, è tanto brava lei... Il papà è fuori, dovrebbe tornare a casa tra una mezz'oretta. Ma vieni, vieni. Venite, chi è il tuo amico? Venite dentro! Sono tanto contenta che sei venuto finalmente a casa. Quanto ti fermi?»

Raffaele era rimasto seduto in macchina con le scarpe tirate sul sedile, si abbracciava le ginocchia e teneva la testa bassa. Sembrava completamente estraniato da tutto. Non stava guardando fuori dal finestrino, non stava dando segno di percepire niente fuori dalla sua testa. Aveva un'espressione addolorata.

«Lui è Raffaele. Ti ricordi di lui? Raffaele Novelli. Il ragazzo che ho portato a Plezzo tanti anni fa. Ti ricordi?»

«Sta poco bene?» chiese la madre avvicinandosi al finestrino. Raffaele rimase immobile.

«Uno o due anni fa avevo letto delle cose su di lui, su un giornale...» disse la Grazia.

Nic annuì. Non aveva intenzione di nascondere niente, quindi rese esplicite le cose che la sorella stava sicuramente pensando: «Che aveva avuto problemi di droga ed è stato in comunità?»

La sorella sembrò spiazzata dalla sincerità di Nic. «Oh! Eh... sì, più o meno...»

«Çeee?!» esclamò la madre scandalizzata. Guardò di nuovo Raffaele attraverso il finestrino. «Ma è drogato adesso? È per quello che è tutto così giù?» Portò le mani al cuore e scosse la testa. «Diobòn, Nico, ma che gente mi porti a casa! Oh Signûr, Signûr...»

«È per quello che sono tornato a casa, mamma. Raffaele ha bisogno di aiuto.»

«Oh, Nico, Nico, ma prendi la droga anche tu? Io sapevo che incontravi delle brutte amicizie, con la vita che fai!»

La Grazia ridacchiò. «E che vita fa, scusa? Il tennista? Non sapevo che si incontrava brutta gente a giocare a tennis.» Stava guardando Raffaele con un'espressione di stupore  che sembrava quasi ammirato.

«Tu torna dentro, par l'amûr di Diu! Non va bene che senti certe cose!»

La Grazia roteò gli occhi. «Mmm... Madonna, mamma! Ma cosa pensi che non ho mai sentito parlare di queste cose? Guarda che al liceo, in quarta, è venuto anche un ragazzo di una comunità a parlarci di tossicodipendenza.»

«Mamma, Raffaele ha bisogno di aiuto. Ti volevo chiedere se mi potevi dare le chiavi dell'appartamento di Plezzo» disse Nic, infastidito da tutte quelle osservazioni fuori luogo.

«No no no no no! E cosa devi fare, lì? Andate a drogarvi? Non voglio che vedi certa gente!»

Nic, cercando di mantenere un'espressione composta e impassibile, indicò se stesso con entrambe le mani. «Ti sembro un drogato? Ho smesso perfino di bere vino. Non ho mai neanche fumato sigarette, neanche quando ero ragazzino. Non ti devi preoccupare di questa cosa.»

«Ma cosa c'entra! Io lo so che tu sei un bravo ragazzo! Ma è pericoloso stare con certa gente!»

«Lo conosco da dieci anni, ed è da dieci anni che lui ha questi problemi. Non ti devi preoccupare per me. Lo voglio solo aiutare.»

«Vergogniti!» A sputare fuori quella frase, con odio e cattiveria, era stato nonno, cupo e silenzioso fino a quel momento, talmente silenzioso che Nic quasi si era dimenticato di lui. «Fenôi e drogâs! 'O speri che murîs ducj di AIDS!»

La madre emise un grido melodrammatico e portò le mani alle orecchie. «O Diu Diu Diu! Çe che mi tocje sintì! Non ti sei mica preso quel brutto male?»

Nic aveva dimenticato quanto sua madre fosse suggestionabile e incline al dramma. La preoccupazione gli sembrò eccessiva: aveva sentito parlare in tv di quella nuova malattia mortale, che veniva sempre associata a finocchi e drogati, come aveva detto il nonno. Ma gli sembrava una cosa distante, da film o documentario. Per averla presa Raf avrebbe dovuto scambiarsi la siringa con qualcuno. Possibile che fosse stato tanto stupido da fare una cosa simile, con tutte le malattie pericolose che esistevano, non solo AIDS, anche epatite, infezioni varie... possibile? 

Si rese conto di non averci mai pensato, e di essersi appena fatto contagiare dalla preoccupazione della madre.

La portiera della macchina in quel momento si aprì. Raffaele mise le gambe fuori, poggiò i piedi sulla ghiaia. Rimase fermo così per qualche secondo, sembrava affaticato. Poi si alzò. Tutti lo fissavano in silenzio, Nic preoccupato che potesse fare la scenata che aveva minacciato di fare, il nonno disgustato, la madre col busto reclinato all'indietro, come se volesse mettere la massima distanza tra sé e lui, e la Grazia con l'espressione affascinata di prima.

Raf fece un passo verso la madre, lei fece un passo indietro. «Buonasera signora Marisa. Non ci siamo mai conosciuti di persona.» Fece un altro passo e le tese la mano, ma la madre fece due passi indietro, portando le mani strette a pugno sul petto. Lui sembrò perplesso di fronte a quella fuga. «Sono Raffaele» disse facendo il terzo passo verso di lei. «Non abbia paura, voglio solo presentarmi.»

Fu a questo punto che il nonno andò deciso verso di lui e lo colpì su una spalla col bastone che usava per aiutarsi a camminare. «Sta' indaûr, brutto drogato!»

Quella percossa scatenò la furia di Nic, che caricò il nonno al grido di: «Non ti permettere mai più, stronzo!» Lo prese per la camicia, il nonno cercò di difendersi col bastone, ma Nic ebbe la meglio e lo sbatté contro una delle colonne del portico.

«Nico! Gli rompi un osso così!» gridò la madre.

«Ma siete tutti diventati matti?» disse la Grazia.

«Lui vuole che finocchi e drogati muoiano di AIDS, io spero solo che si rompa qualche osso, mi pare equa come punizione!» ribatté Nico tra i denti.

«Ma mi voleva solo difendere!» esclamò la madre.

Il nonno intanto si stava debolmente lamentando con gli occhi chiusi e un'espressione spaventata che Nic non gli aveva mai visto in diciotto anni vissuti a casa con lui. Nic lo mollò. «Tornatene dentro, vecchio di merda!» gli disse Nic.

Lui lo fissò con rabbia, a occhi sgranati. Strinse le labbra, sbuffò dalle narici.

Ma capitolò. Prese il suo bastone ed entrò borbottando frasi incomprensibili su drogati e finocchi.

In tutto questo Raf sembrava sotto shock. Era rimasto a spalle contratte, fermo nel punto in cui era stato percosso. Aveva il respiro accelerato e gli occhi sperduti.

«Ti ha fatto male lo stronzo?» gli chiese Nic.

Raffaele scosse appena appena la testa. «Io...» tentennò. «Io volevo solo... ringraziare... la signora...»

La madre non rispose a Raf, parlò a Nic. «Ma cosa ti è saltato in mente! Siamo la tua famiglia! E lui è solamente...»

Nic mise le mani ai fianchi e fece un cenno della testa alla madre, per invitarla a continuare. «Lui è solamente? Dai, finisci la frase.»

«Grazia, va' là dêntri» disse la madre.

La Grazia sbuffò. «Ho vent'anni, mamma. Smettila di trattarmi come una bambina. Posso sopportare la vista di un ragazzo con problemi di tossicodipendenza.»

«Il nonno mi voleva solo difendere» ripeté la madre.

«Ma da cosa? Ma lo vedi?» Nic indicò Raf. «Non vedi che a malapena riesce a tenersi in piedi? Cosa avevi paura che facesse?»

«Non voglio prendermi una malattia.»

Le parole della madre sembrarono mettere di nuovo Raf sotto shock.

«Diobòn, mamma! Ma pensi veramente che si possa prendere l'AIDS stringendo la mano a qualcuno?» disse la Grazia. E dicendolo fece qualche passo deciso verso Raf, col braccio teso in avanti. «Piacere, Grazia.»

Raf guardò Nic, come se volesse il permesso per fare qualcosa. Poi guardò la mano della Grazia, quasi commosso. Ma non la strinse, si rivolse di nuovo a Nic: «Faccio questo effetto alle persone? Sto messo veramente così male?»

Nic annuì. «Sei in condizioni abbastanza pietose.»

Raf guardò di nuovo la Grazia, che aveva ancora la mano tesa verso di lui e gli stava sorridendo. La madre osservava la scena con un'aria terrorizzata, ma non disse niente. «Ti giuro che non ho l'AIDS. Non mi sono mai scambiato la siringa con nessuno.» E infine strinse la mano della sorella, mentre la madre esclamava il suo ennesimo: «Diu, çe che mi tocje sintì!»

Raf scoppiò a piangere. Sembrava fosse l'unico modo in cui riusciva a gestire qualsiasi emozione. 

«Povero Raffaele...» disse la Grazia, continuando a stringergli la mano. «Devi averne passate veramente tante.»

Raf liberò la sua mano dalla stretta e si asciugò le lacrime che erano scese sulle sue guance. «Non mi sento tanto bene.» Poi si rivolse alla madre. «Signora, mi scusi. Non volevo causarle una preoccupazione. Lei fa bene a essere preoccupata, io non sono una brava persona.»

La madre sembrò impietosita da quelle parole. «Pùar ninìn. A me dispiace per te, non credere che non mi dispiace.»

La madre di Nic poteva essere accusata di tante cose: era bigotta, era rigida, ignorante, si faceva spesso guidare dalla sua ignoranza e da luoghi comuni nei suoi giudizi e nelle sue azioni. Ma aveva una qualità che Nic aveva trovato raramente negli esseri umani, troppo raramente per non ritenerla una cosa preziosa. Sua madre era una donna compassionevole. Era una donna che riconosceva la sofferenza, quando la vedeva e che ne veniva mossa a compassione, sincera. E quella compassione, spesso, la portava a superare le proprie paure, le proprie ignoranze e la propria bigotteria, e la faceva comportare come una persona bella. Era il motivo per cui Nic, nonostante vedesse tutti i suoi giganteschi difetti, non sarebbe mai riuscito ad odiarla.

«Non puoi portarlo in una comunità, Nico? Ho sentito dire che fanno tanto bene a questi ragazzi.»

«C'è andato tre volte in comunità, e quando è uscito era al punto di partenza. Poi è andato in una clinica, è durato un po' di più ma c'è ricaduto di nuovo. Ha provato tutte le terapie tutti i farmaci, ha provato col metadone, senza metadone, e c'è sempre cascato di nuovo. Vorrei provare ad aiutarlo io.»

La madre giunse le mani davanti al petto e le agitò avanti indietro guardando il cielo. «Ma cosa puoi fare, tu, da solo? Lo vuoi portare di nuovo a Plezzo? E cosa fate lì?»

«Intanto lo faccio disintossicare, e poi...»

«Ditemi la verità. Quando sei stato a Plezzo la prima volta, dieci anni fa, lo avevi portato lì per questo motivo qua?»

Nic annuì riluttante. 

«E allora anche questa cosa avevi già provato a farla. Perché pensi che questa volta è diverso?»

D'improvviso Nic ebbe voglia di piangere. Ma si trattenne. Abbassò la testa. «Non lo so, mamma. Non so più cosa fare con lui. Ma non posso abbandonarlo a se stesso, qualcosa devo provare.»

«Oh Nic... Non mi merito un amico come te»  disse Raf mettendosi a piangere per l'ennesima volta.

«E quanto tempo ti vuoi fermare lì?» chiese la madre.

«Non lo so» rispose Nic. «Uno, due mesi. Forse anche tutta l'estate. Un paio di mesi ci si può stare in Jugo per turismo, no? Ci sto tutto il tempo che serve per rimetterlo a posto. E ovviamente pago tutto io. Tutte le bollette, le spese, e vi do anche qualcosa per il disturbo di stare lì insieme a lui.»

«Diobòn, quanto tempo... Ma immagino che sono cose tanto lunghe da mettere a posto...»

«Sì, non si risolve in una settimana» confermò Nic.

La madre fece un profondissimo sospiro. «Mi piacerebbe se vi fermate a cena qua, ma se torna il papà ho paura che prende le chiavi di Plezzo e le butta nell'Isonzo. Aspettate qua un attimo.»

La madre rientrò di fretta in casa e la Grazia spalancò occhi e bocca. «Wow, questa dalla mamma proprio non me l'aspettavo!»

Rimasero in silenzio per quasi un minuto, l'imbarazzo si fece palpabile nell'aria, e Nic per cercare di alleviarlo fece alla Grazia qualche domanda. Le chiese come stava, come andava all'università. Chiacchiere del più e del meno, come se non fosse successo niente, come se fossero due vecchi amici che si incontravano dopo qualche mese di lontananza. Persino Raf s'intromise con qualche parola di commento, qualche frase di circostanza da cui quasi non si riusciva a vedere che in realtà stava iniziando a stare male. Fisicamente male. Forse anche lui aveva bisogno di un po' di normalità, dopo il casino in cui si era ficcato.

La madre uscì dopo una decina di minuti con uno zainetto e le chiavi. Consegnò entrambe le cose a Nic. «Quando arrivate i negozi saranno tutti chiusi, e da mangiare lì in casa non c'è niente. Ti ho messo qualcosa qua dentro, un due pacchi di pasta, due scatole di fagioli, due di tonno, e anche qualcosa di frutta. Mangia la frutta, che ti fa bene.»

«Mamma... grazie» disse Nic stringendo lo zainetto al petto. Apri la portiera della macchina e lo appoggiò sul sedile dietro. Poi si rivolse alla madre e allargò le braccia. Lei andò da lui, lo strinse forte, dicendo come al solito qualche frase un po' melodrammatica sul fatto che Nico fosse un bravo ragazzo, su quanto fosse diventato grande. Gli fece le raccomandazioni che avrebbe potuto fare a un ragazzino, di coprirsi perché di sera in montagna faceva freddo, di mangiare frutta e verdura, di stare attenti, di non guidare troppo veloce.

Quando lo liberò finalmente dall'abbraccio si rivolse Raf. Con aria timorosa e titubante, andò verso di lui e gli tese la mano.

«Signora, se lei non vuole stringermi la mano, se non se la sente, non importa. La capisco, non voglio forzarla.»

La madre stava facendo fondo a tutto il suo coraggio, era evidente dalla sua espressione e dal modo in cui il suo braccio era rattrappito addosso al suo corpo come se tutto il suo essere non volesse stringere la mano Raf. Ma ancora una volta la sua  compassione ebbe la meglio su tutti i suoi istinti peggiori e sulle sue paure. Fece un gran sorriso a Raf, e il sorriso sembrava sincero e caloroso. «Ma dai, cosa vuoi che sia una stretta di mano. Spero tanto che riesci a risolvere i tuoi problemi, ninìn.»

Raf si decise quindi a ricambiare la stretta. «lo spero tanto anch'io, signora. Io non l'ho mai ringraziata per la prima volta che mi ha lasciato stare a Plezzo. Un giorno farò qualcosa per sdebitarmi. Glielo prometto.»

La madre diede una stretta impacciata alla mano di Raf e la ritrasse dopo pochi secondi. «Ma dai, dai. Non ti preoccupare, per così poco. Dai, andate, che sennò torna il papà e fa un casotto.»

«Grazie mamma» ripeté Nic, che davvero non aveva altre parole.

Salutò anche la sorella con due baci sulle guance e lei fece a entrambi un in bocca al lupo. Salirono infine in macchina, Nic abbassò il suo finestrino per salutarle un'ultima volta mentre partivano.

«Nico» gli disse la madre, «io questa volta mi tocca dirglielo al papà perché il nonno ha sentito tutto. Cerco di non farlo venire su a Plezzo, ma non ti posso promettere niente.»

«Ci pensiamo io e la Fulvia a darti una mano» disse la Grazia, ma Nic sapeva bene che se il padre avesse deciso di salire a Plezzo per rompere loro le scatole, non ci sarebbe stato discorso che l'avrebbe potuto trattenere.

Partirono, infine. La madre gli strappò un'ultima promessa, di fermarsi qualche giorno al ritorno, per trascorrere un po' di tempo insieme. Nic non era sicuro che il padre sarebbe stato contento, ma le disse di sì.

Raf si mise di nuovo seduto nella posizione di prima, con le scarpe sul sedile e le ginocchia rannicchiate sotto il mento. Dopo qualche minuto di viaggio parlò: «Non sono convinto di voler fare questa cosa, Nic. Forse è meglio se mi porti in un SerT. Almeno lì mi danno il metadone.»

«Ce la puoi fare anche senza.»

«Comincio già a stare male. Non voglio stare male. E non mi piace essere sobrio.»

Nic non rispose.

«Tu come fai a sopportare di essere sempre sobrio?»

«Come fanno tutti: affrontando la realtà. Non ci vuole tanto.»

«Ma la realtà è una merda.»

«Dio santo, quanto ti riempirei di botte quando vieni fuori con queste frasi. Hai i soldi che ti escono dal culo, milioni di ragazze che ti corrono dietro perché sei figo, sei il tennista Italiano più talentuoso della storia, e la realtà è una merda? Che cosa dovrei dire, io, dalla realtà, che mio padre ha smesso di mantenermi quando avevo diciotto anni e mi menava perché non riusciva a sopportare l'idea che ero finocchio? E io mi considero una persona fortunata. Perché fino a diciott'anni i miei mi hanno mantenuto anche bene, e adesso sto facendo il lavoro dei miei sogni.»

«Mi fai sentire uno stronzo, se mi dici così.»

«Benissimo. Era esattamente il mio scopo» disse secco Nic.

«Adesso però stai facendo lo stronzo tu.»

«Ti sto solo mettendo davanti alla realtà. È la realtà a essere stronza, non io. Preferisci continuare a chiudere gli occhi?»

Raf restò in silenzio per parecchi secondi. «Ma proprio non lo capisci che sto male?»

«Certo che lo capisco, ma non riesco a capire perché.»

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Note 🎶

Vorrei approfittare di queste note, in questo capitolo di relativa "quiete", per organizzare un delurking day! Sapete cosa significa? È un incoraggiamento a tutti i lettori che mi seguono in silenzio (detti Lurker) a de-Lurkarsi, ossia a lasciarmi un commento: mi farebbe piacere conoscervi e sapere cosa ne pensate della storia, anche con un semplice: "Ciao, eccomi!" Non siate timidi 🥰

Venendo al capitolo: si può sempre contare sulla mamma di Nico, che fa fronte ai propri limiti per tirar fuori la sua bontà. E quindi, destinazione Bovec, parte seconda, dove giornate molto intense, sotto tutti i punti di vista, aspettano i nostri eroi.

E con l'incognita del padre di Nic... secondo voi si farà vivo in qualche modo? 

Intanto Sinner ha perso in finale alle Finals. Scusate ma dovevo dirlo, ho appena finito di guardare 🫠 Va be', ottimo torneo, comunque, e ottime speranze per l'anno prossimo.

Ci rileggiamo giovedì, e lasciatemi una stellina per ogni dritto sbagliato da Sinner stasera.

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