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52. Occhi spenti nel buio del mondo

Pugni chiusi
Non ho più speranze
In me c'è la notte più nera

Occhi spenti
Nel buio del mondo
Per chi è di pietra come me

(R. Gianco, L. Beretta, G. Dall'Aglio, Pugni chiusi, 1967)

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8 agosto 1986 

Nic sentì il bisogno di sedersi. 

Non lo fece. Non voleva mostrare debolezza.

Non avrebbe saputo descrivere come si sentiva in quel momento. Ferito, deluso, tradito. No, non erano aggettivi sufficienti. Incredulo. Ecco, forse. Non riusciva a crederci. Non riusciva a credere che fosse vero. Raf stava bene. 

«Tipico di Raffaele» stava intanto commentando Elisa.

No, ma forse era un problema di traduzione. Quella ragazza parlava male l'italiano. Forse quella frase stramba, ventri litri di vodka in bocca, forse significava qualcos'altro.

«Scusa... eravate ubriachi? Eh... come si dice ubriaco in inglese?» chiese a Elisa.

«Drunk! Be', sì, da quello che ha detto penso fossero parecchio drunk! No?» L'ultima parola la rivolse a Vika.

«Sì sì sì» disse lei ridendo. «Molto drunk! Io e lui!»

«Ma come hai fatto a giocare oggi?» le chiese Elisa, che sembrava divertita da quella tragedia che stava trascinando Nic in una specie di buco da dove faticava persino a udire.

«Russi molto bravi di avere vodka in bocca!» disse lei. «Ehi! Nic! Nic non sta bene!»

Nic cadde all'indietro. 

Aveva perso la forza nelle gambe e si sentiva in affanno.

Raf. Raf! Perché! Cosa hai fatto? Come stai?

Non dovevo lasciarlo! Non dovevo lasciarlo, dovevo andare a Roma con lui!

«Come dici?» sussurrò Elisa davanti al suo viso, sventolandogli una mano in faccia. «Cazzo, oggi fa un caldo... mi sa che ha avuto un calo di pressione. Vika, aiutami, per favore.»

Nic era talmente sconvolto che si lasciò stendere su un gradone dalle due ragazze, Elisa gli prese le gambe e le alzò. Stava già riprendendo coscienza, dopo il piccolo mancamento, ma era ancora affannato.

«Sei stato troppo tempo sotto il sole. Ti eri messo la protezione solare?» gli chiese Elisa.

«Sei fissata con queste protezioni solari» borbottò Nic. Fu la prima cosa che disse conscio di dirla. Volontariamente. Ma si era sforzato, aveva fatto uno sforzo sovrumano per rispondere a tono a Elisa, perché tutta la sua mente era inondata di panico e recriminazione.

«Troppo sole fa male!» ribatté lei. «Fa venire le rughe e se lo prendi in testa ti vengono le insolazioni. Tu non usi mai cappellini! Dovresti iniziare a usarli! Scusa Vika... capisci quello che dico?» Poi aggiunse qualcosa in inglese in cui Nic afferrò solo la parola "because".

Doveva alzarsi. Doveva andare a cercare Raf.

«Devo andare da lui» disse rimettendosi a sedere.

«Piano! Sei appena svenuto. Devi bere un po', aspetta che ho ancora... Ehi! Fermo!» Elisa trattenne Nic per un braccio impedendogli di alzarsi in piedi, gli mise in mano una borraccia. «Bevi subito!»

Nic bevve un po' d'acqua solo per farla star zitta. «Adesso posso andare?» le disse, in tono brusco.

L'espressione di lei si indurì. «Guarda che lo sto facendo per te! Non trattarmi come se fossi una mammina.»

«Devo andare da Raf! Lo capisci o no?!» sbottò.

Lei ritrasse un po' il busto all'indietro. «Mammamia, ma cosa ti prende? Starà in doposbornia, cosa credi che abbia?» Poi sorrise rivolta a Vika. «Non tutti reggono bene l'alcol come i russi!»

Vika rise in risposta, disse qualcosa ma Nic smise di ascoltarle, riuscì finalmente ad alzarsi.

Corse verso gli spogliatoi, ma trovò solo l'avversario che stava riprendendo le sue cose dall'armadietto.

«Scusa, hai visto Novelli?»

«No» rispose quello, che per fortuna era italiano. «Non si è proprio presentato, il coglione. Non sanno dove sta. Non l'hanno trovato nemmeno in hotel.»

Cristo santo! Il cretino è capace che si è fatto arrestare dalla Stasi!

Nic uscì dallo spogliatoio senza nemmeno salutare il collega.

Il primo posto in cui lo cercò fu l'albergo. Chiese alla reception di chiamare al suo telefono in camera, ma non era lì. Allora lo cercò al ristorante e al bar. Non era nemmeno lì.

Uscì a piedi e iniziò a vagare per le strade di Francoforte, chiedendo ai passanti se potessero indicargli locali, bar, keller nelle vicinanze. Entrò in qualcuno di quei posti, luoghi molto meno puliti e ricchi dell'hotel, frequentati per lo più da locali dall'aria ostile, e non trovò nessuno.

Le strade erano desolate, il sole di agosto cocente. Nic stava morendo di caldo, dovette sedersi a riprendere fiato. Dove poteva essere, il cretino? Cosa aveva preso? Aveva bevuto di nuovo?

Seduto a riflettere, riconsiderò sotto luce diversa alcuni fatti: nell'ultimo anno la frequenza delle telefonate di Raf era diminuita, ed era stato sempre più spesso Nic a chiamarlo. Aveva attribuito quel cambiamento ai suoi primi guadagni e al fatto che quindi Raf si facesse meno problemi. Ma se in realtà il motivo fosse stato che si stava allontanando da lui e riavvicinando alle sue dipendenze? Ma com'era possibile? Quando ci parlava gli sembrava affettuoso e sereno come sempre!

Poi c'erano stati piccoli episodi di amnesia. Ogni tanto dimenticava o sembrava dimenticare cose che Nic gli raccontava. Anche quello era legato ai suoi problemi? Si sentì uno stupido per non aver mai dato peso a quei dettagli.

Era stato cieco.

No, molto peggio che cieco. L'aveva lasciato solo per andare a Bologna. 

Avrei dovuto andare a Roma! A Roma con lui! Non avrei mai dovuto lasciarlo! Mai!

Se Nic fosse rimasto accanto a Raf, se l'avesse controllato, se gli fosse stato vicino, Raf non ci sarebbe mai ricascato.

E se invece...

Nic trovò una piccola speranza in un pensiero. E se invece quella fosse stata la prima volta? La ragazza russa, stronza ubriacona del cazzo come tutti i russi, lo aveva tentato e lo aveva fatto ricadere nella dipendenza.

«Brutta troia! Tutta colpa sua!» si ritrovò a mormorare.

Scosse la testa, rendendosi conto che stava cercando un capro espiatorio che forse non c'era.

Anzi.

Che stava cercando un capro espiatorio per sentirsi meno in colpa in prima persona. Perché l'unico colpevole, in quella situazione, era lui stesso.

Tornò in hotel, perché non avrebbe saputo dove altro andare, sententosi impotente e stupido. In hotel anziché chiedere di nuovo alla reception di chiamare Raf in camera decise di andarci lui, in camera sua, in prima persona. Forse Raf era talmente ubriaco o... o peggio, che non aveva risposto al telefono perché non l'aveva sentito.

Bussò alla stanza. Nessuna risposta.

Allora bussò più forte. «Raf sei qui?» gridò. «Raf! Sono Nic!»

Se ne andò, senza ricevere risposta.

Solo per fermarsi a metà del corridoio, richiamato da un debole suono, un gemito che suonava come: «Nic...»

Nic si voltò di scatto, a passi pesanti andò verso di lui, che lo aspettava appeso alla porta della sua stanza. «Che cosa cazzo hai preso?» gli disse, duro, arrabbiato, amareggiato.

Raf, che aveva la cera di qualcuno che era stato ripetutamente preso a pugni, assunse un'espressione preoccupata. «Niente... ti stavo giusto per dire... che... mi è venuta un'indigestione e sto... malissimo.» Parlava molto lentamente, e a Nic sembrò una parlata strana. La parlata di una persona non padrona al cento per cento di se stessa.

«Lo so che ieri ti sei ubriacato insieme a Viktoria Balakina» gli disse in tono calmo, senza alzare la voce, fissandolo negli occhi. «Ce l'ha detto lei stessa.»

Raf sembrò per un attimo stupito, poi assunse quella sua tipica, insopportabile aria da cane bastonato piagnucoloso. «Oh Nic, sì... è per quello che adesso sto così male! Era la prima volta che mi ubriacavo dopo tre anni!»

Nic, per un attimo, tornò a maledire Viktoria, solo per poi ricordare quanto Raf fosse capace di essere bugiardo su quelle cose. «Mi fai entrare, per favore?» gli chiese, cercando sempre di mantenere il massimo contegno possibile.

Raf sgranò gli occhi, si ingobbì ancora di più. «No, dai... è un po' in disordine.»

Nic avrebbe voluto trattarlo male, prenderlo a schiaffi, urlargli addosso qualcosa. Invece posò una mano sulla sua spalla e lo spinse dentro, con delicatezza. Lui si lasciò spingere, con l'espressione più spaventata del mondo.

Nic trovò la stanza in condizioni pietose.

La prima cosa che notò furono delle bottiglie di superalcolico a terra. La seconda, una chiazza di vomito sul pavimento. Vestiti sparsi. Resti di cibo. Una scarpa sul letto.

Non riuscì più a trattenere dentro quello che stava provando. Sedette a terra e si mise a piangere.

«Nic... piangi per me?»

La voce di Nic eruppe spezzata dalla sua gola: «Sì, stronzo! Stronzo pezzo di merda! Idiota! Coglione idiota! Ti odio, cazzo! Ti odio! Mi appoggio a te perché sei una roccia, Nic, ma vaffanculo! Vaffanculo a me che ti ho fatto appoggiare!» Nic pianse ancora, singhiozzi secchi.  «Da quanto? Da quanto sei in queste condizioni?»

«Nic, te l'ho detto... è stato ieri sera e ci sono ricascato ma...»

«Finiscila di raccontarmi palle!» Poi gli venne un'orribile illuminazione. «Scusa... fammi un po' vedere bene le braccia?»

Raf assunse quasi un'aria di sfida. «Cosa dovrebbero avere le mie braccia?» Rivolse gli interni delle braccia verso di lui. 

La vista delle braccia pulite lo tranquillizzò per un attimo, prima di riflettere sul fatto che Raf, come tutti i tennisti, giocava tutto l'anno in maniche corte. «Quella roba si può iniettare solo sulle braccia?»

Raf ebbe una piccola esitazione, prima di rispondere. «E io che cazzo ne so?»

«So che l'hai già usata, anni fa. Me l'hai detto tu, cazzo! Ti sei dimenticato persino di avermelo detto? Ti dimentichi un sacco di cose, ultimamente.»

«È perché sono stanco, Nic. Ti prego, non...»

«Basta balle, Raf. Ti prego. Basta balle.» Nic lasciò cadere la testa in avanti. Stanco. «Io ti voglio aiutare, Raf. Ti voglio solo aiutare.»

«Forse non voglio essere aiutato.»

Nic alzò la testa. Raf aveva pronunciato quelle parole in un sussurro. Poi si avvicinò e sedette a gambe incrociate davanti a lui. «Io credo di aver trovato un equilibrio, Nic.»

Nic non ebbe più nemmeno la forza di incazzarsi. Indicò con un gesto della mano la stanza. «Ti sembra un equilibrio, questo?»

Raf scosse la testa. «Ogni tanto tutti perdiamo un po' il controllo. Anche tu, poco fa hai urlato. L'importante poi è ritrovarlo.»

Nic scosse la testa. «Non esiste un equilibrio, con queste cose» disse.

Raf fece un sorriso. «Sì che esiste, Nic. Ed è l'unico modo in cui io posso sopravvivere.»

Nic scosse la testa con maggior vigore.

«Tu non sai cosa significa essere me. Essere me è un peso insostenibile» disse Raf.

«Cos'è? Un'altra delle tue poesie di merda?»

«No, ti sto spiegando. Essere me è un peso insostenibile, e avere un aiuto esterno è l'unico modo in cui riesco a sostenerlo. Ci sono persone che prendono psicofarmaci tutta la vita, sai? E vivono benissimo. È uguale.»

«Non è uguale per niente. E ci sono persone che anche con gli psicofarmaci fanno una brutta fine.»

Raf scosse la testa. «Io non la farò, Nic. È tutto sotto controllo.» Raf allungò la mano e asciugò una lacrima che Nic non si era nemmeno accorto di avere sulla guancia.

«Vengo a Roma da te. È ancora valida l'offerta?» gli disse Nic.

«No.»

La risposta lo ferì. «Ci alleniamo insieme, come a Bovec.»

«Non fa per me, Nic. Io non sono te.»

«Non eri felice? Mi avevi detto...» Nic ebbe un piccolo singhiozzo. «Mi avevi detto che...»

«Per quel periodo sì, forse. Ma non è un tipo di vita che posso sopportare per sempre. Non è adatta a me, alla mia indole.»

«All'indole di un tossico?» sputò fuori Nic con rabbia, pendendosene subito. «E dove è finito tutto... tutti quei discorsi che mi facevi, che volevi imparare da me la disciplina e...»

«L'ho imparata, infatti.» Raf gli sorrise di nuovo. «Mi è servito tantissimo starti vicino. Ho imparato a come fare per gestire... tutto questo con disciplina.»

Nic chiuse gli occhi. Sentì di nuovo la mano di Raf sul suo viso. «La smetti di toccarmi, stronzo?»

Il contatto cessò. «Raf. Io così non ci posso stare.» Nic aprì gli occhi e lo guardò. «Mi dispiace. Mi dicevi che sono una roccia, ma non lo sono. Non lo sono per niente. Io così, vicino a te, non ci posso stare. Mi ammazzo, se devo starti vicino così, e non sto scherzando, giuro, non sono mai stato tanto serio in vita mia.» Si batté il petto. «Non credo di aver mai provato un dolore tanto grande come in questo momento. Neanche quando mio padre mi ha menato dopo che...» Nic annaspò ricordando quel giorno con Leo. 

Oh Leo, quanto ti ho disprezzato. Quanto ero più felice con te, con tutti i tuoi difetti...

«Dopo che?» lo incalzò Raf con aria preoccupata.

«Dopo che niente. Non ho provato tanto dolore quando mio padre mi menava, non l'ho provato quando mia madre mi disprezzava, non l'ho provato quando Leo ha tentato il suicidio, e non l'ho provato neanche il giorno in cui l'ho lasciato. Questo dolore, quello che sto provando in questo momento è qualcosa di diverso, orribile, mostruoso, infinito. Mi corrode da dentro, è un pensiero fisso che mi si avvinghia al cuore e non lo molla, e lo so, io so che se starò vicino a te, se continuerò a pensare a te in questa situazione, me lo corroderà, il cuore, fino a consumarlo, perché non è qualcosa che si risolve, capisci? È una promessa continua, costante di dolore, di preoccupazione, di tragedia imminente. L'attesa di vederti precipitare sempre più in basso. È una cosa che non riesco a sopportare. Non ce la faccio, Raf, perdonami, non posso essere tuo amico in questa situazione, altrimenti mi ammazzo.»

Nic lo pensava davvero, non stava facendo il melodrammatico: pur di non sopportare il dolore che stava provando, avrebbe davvero preferito ammazzarsi. E non voleva farlo.

«Nic, ti prego... non dire così...» disse Raf, già iniziando a piagnucolare.

«Ti do due possibili soluzioni. Una è che mollo tutto, mollo Ravaioli e mollo l'accademia, e vengo a Roma da te. E ti aiuto standoti vicino e controllandoti. La seconda soluzione è che non ci sentiamo più e io cerco di dimenticarmi di te.»

Raf scoppiò a piangere. «Nic... no, Nic, ti prego! Non dire così io... ti prometto che smetto del tutto, ok? Ma non lasciarmi solo!»

«Vengo a Roma, allora.»

«No!»

«Perché non vuoi?»

«Perché...» Raf pianse ancora. «Perché non posso... non posso stare che mi controlli ogni tre secondi! Starei male!»

«Perché vuoi bere e vuoi farti» disse Nic, con quel dolore che lo pugnalava al petto. Pianse anche lui, per cercare sfogare quel dolore, senza riuscirci.

«No, Nic, ti giuro che...»

«Oh, vaffanculo!» gridò Nic. Si alzò in piedi. «Vorrei non averti mai conosciuto!»

«Non dire così, Nic.»

«Non ce la faccio. Non ce la posso fare. Addio.»

Nic scappò dalla stanza, sbattendosi dietro la porta. 

Ricordava ancora quel giorno a Milano, quando aveva sbattuto allo stesso modo la porta della camera di Raf, scappando via. Quel giorno poi quella porta si era aperta dopo pochi secondi, con Raf che lo aveva inseguito piagnucolante.

Nic fece la cosa più stupida che avrebbe potuto fare. Si fermò, si voltò e si aspettò che la porta si aprisse di nuovo.

Rimase chiusa.

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Note🎶

Che capitolo orribile, con la straziante voce di Demetrio Stratos che fa da colonna sonora. Ma forse Nic aveva bisogno di farlo, perché si trattava di una scelta tra la sua salute mentale e l'amicizia con Raf.

E adesso però cosa succederà a Raf? Come si evolverà la situazione?

E Nic manterrà la sua promessa di non vedere e sentire più il suo amico?

Ci rileggiamo lunedì, e lasciatemi una stellina per ogni lacrima in più che Nic dovrebbe versare quando sta male e si trattiene.

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