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41. C'è chi mangia troppa minestra, chi è costretto a saltar la finestra

C'è chi un giorno invece ha sofferto
e allora ha detto: "Io parto.
Ma dove vado se parto?
Sempre ammesso che parto."

(E. Jannacci, R. Pozzetto, E la vita, la vita, 1974)

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Gennaio 1984

Era l'inizio di gennaio, e a metà marzo Nicolò avrebbe compiuto diciannove anni.

Aveva ancora due mesi e mezzo per realizzare la promessa fatta a Ravaioli.

Diciannove anni e sarebbe stato fuori dal circuito junior. Non aveva neanche fatto il foglio rosa per la patente, occupato com'era ad allenarsi e barcamenarsi tra lavoretti impossibili.

Non aveva mai smesso col tennis. Aveva mantenuto la promessa fatta a Leo e a se stesso: quel meraviglioso sport sarebbe stato il suo futuro.

Ma siccome suo padre non voleva più pagargli le lezioni, Nico aveva praticamente abbandonato le superiori per potersi dedicare completamente a lavoro e allenamenti. 

Durante i primi sei mesi dell'anno precedente, Nico aveva cercato di destreggiarsi tra lavori part-time e scuola. I suoi genitori erano stati inizialmente contrari, ma i guadagni personali lo avevano reso gradualmente più indipendente, proprio come aveva previsto la Fulvia.

A inizio febbraio, aveva ottenuto un posto da garzone presso i Turus. Al suo rientro dal primo giorno di lavoro, suo padre gli aveva confiscato la bicicletta per impedirgli di tornarci. «Tu non esci più di casa, schifoso! Lo so cosa vai a fare, con quello slavo di merda che è tornato a casa!»

Il giorno seguente, Nico aveva deciso di andare al lavoro a piedi: era solo mezz'ora di cammino. Poi, invece di chiedere la sua paga giornaliera, aveva chiesto al signor Turus una vecchia bicicletta che aveva notato abbandonata in un angolo del deposito degli attrezzi agricoli, e il vecchio si era rivelato sorprendentemente generoso: «Con quel trabiccolo non ci faccio niente, te lo regalo e vedi se riesci a metterlo a posto.» Nico aveva portato la bici a casa. Suo padre aveva protestato, ma Nico gli aveva fatto notare che l'aveva guadagnata con il suo lavoro, e questo era bastato per farlo tacere. Era amico dei Turus, doveva averli sentiti al telefono, per assicurarsi che il suo prezioso figlio stesse davvero lavorando da loro, e questo aveva probabilmente giocato a suo favore: non gli aveva più fatto storie, si limitava a lanciargli degli sguardi ostili ogni volta che usciva di casa.

Conciliare lavoro, scuola e allenamenti era stata un'impresa quasi titanica. Quattro pomeriggi alla settimana li aveva passati dai Turus. Aveva usato i soldi guadagnati per pagare i restanti tre pomeriggi di tennis, andando al club in autobus con l'abbonamento che usava anche per la scuola. Ma tre giorni a settimana di allenamento non erano sufficienti per diventare un professionista, quindi aveva cercato di allenarsi anche da solo, alla vecchia maniera, nel campo di fronte a casa, consapevole che poteva essere solo una soluzione temporanea. Il lavoro dai Turus era manuale e piuttosto stancante, e aveva dovuto anche studiare per evitare di farsi bocciare. La promozione l'aveva ottenuta per il rotto della cuffia con una risicata media del sei, e si era quindi reso conto che se voleva giocare qualche torneo con la speranza di vincerlo, doveva lasciare la scuola.

Ma c'era un ostacolo: a maggio aveva fatto la famigerata visita dei tre giorni, e se avesse lasciato la scuola sarebbe stato chiamato a prestare servizio militare. Fare obiezione di coscienza e dedicarsi al servizio civile non era un'opzione percorribile: in primo luogo, perché gli avrebbe comunque impedito di lavorare e muoversi liberamente; in secondo luogo, a causa dell'opposizione di suo padre: i rapporti con lui erano già tesi al limite della sopportabilità, era meglio non provocarlo ulteriormente, e Nico lo aveva sempre udito definire il servizio civile come: «una via di fuga per cagasotto e finocchi.» Per ottenere il rinvio, a settembre si era quindi iscritto in quinta superiore, ma aveva progressivamente aumentato le assenze fino a non frequentare più.

Durante l'estate aveva lavorato come commesso in una panetteria, il lavoro migliore, con una paga decente e occupazione solo al mattino. Ma a settembre si era dovuto licenziare per tentare una parvenza di frequenza scolastica. Aveva poi provato come facchino in un grande magazzino, ma aveva mollato dopo una settimana perché era ancora più faticoso del lavoro agricolo e altrettanto inconciliabile con gli allenamenti. Aveva cercato posti part-time nei negozi di Gorizia, scoprendo però che come commesso era richiesta la conoscenza dello sloveno. In altri paesi non aveva trovato nulla.

Infine aveva trovato un posto come signora delle pulizie. L'annuncio diceva proprio così: cercasi signora delle pulizie per casa 150 metri quadri con donna anziana indipendente. Nico aveva chiamato e chiesto se andasse bene anche un ragazzo delle pulizie, e la battuta aveva fatto ridere la nonnina - in realtà, Nico pensava che la nonnina volesse una donna per ragioni di sicurezza personale.

Il lavoro era noioso ma non troppo faticoso, la nonnina era simpatica e gli consentiva di assentarsi per i tornei. Il problema era la paga bassissima, che copriva a malapena le spese tennistiche settimanali. I soldi per viaggi, pernottamenti e iscrizioni ai tornei erano ancora quelli che aveva messo da parte durante il periodo che aveva lavorato in panetteria.

Da giugno in poi aveva partecipato a due tornei al mese, qualche volta tre, per lo più ITF, ma anche un paio di juniores, nei periodi in cui non aveva trovato ITF a portata di treno, e ogni volta contando gli spiccioli per treno, hotel economici e iscrizione. Lo aveva fatto tutti i mesi, tranne a ottobre, quando uno stop per tendinite era stato in verità una manna che gli aveva consentito di riprendere fiato per due settimane, andare a scuola, risparmiare sulle lezioni di tennis e accumulare un po' di denaro.

In tutti i tornei era stato eliminato alle qualificazioni, tranne due: a Bologna, forse favorito dall'ospitalità della sorella Fulvia, e in Austria. In un anno e un mese aveva ottenuto solo due accessi al tabellone principale, ed entrambe le volte aveva perso al primo turno in due set. Ma per ottenere il famigerato punto ed entrare ufficialmente nel professionismo la qualifica non bastava: doveva vincere almeno un turno.

Nico stava perdendo le speranze. Il livello dei professionisti gli sembrava irraggiungibile, e i costi esagerati. E il tempo e i soldi stavano per finire.

Non aiutava il fatto che il suo unico allenatore, Maurizio, fosse un maestro di circolo senza un grande bagaglio tattico, nonostante si impegnasse a studiare dai manuali per tenersi aggiornato. Una volta a settimana faceva palleggio con giocatori amatoriali di alto livello: non erano professionisti, ma gli era utile come allenamento competitivo, e soprattutto era gratis.

Aveva pagato profumatamente una lezione con Caterina Badessa, ex pro che bazzicava i circoli di Gorizia e Trieste, che però gli aveva consigliato di snaturare il suo gioco. Gli aveva detto che la sua unica speranza di vincere era fare "il pallettaro", ossia giocare di rimessa, ruotare un po' l'impugnatura e imprimere più top spin ai suoi colpi. Ma se i miei colpi migliori sono il dritto e il servizio! aveva pensato Nico a fine lezione. Era sempre stato un giocatore di spinta, lui, a cui piaceva giocare piatto. La Badessa gli aveva persino consigliato di cambiare racchetta e comprarsi una di quelle nuove in grafite, che rendevano molto più facile toppare i colpi, ma Nico non l'avrebbe fatto. E non solo perché non aveva soldi: si trovava bene con la sua Prince di legno.

Buttati quei soldi (che non aveva mai smesso di rimpiangere) altro non poté fare se non continuare a lavorare, rubare trucchi ad altri tennisti ai tornei, studiare anche lui da manuali e provarci ancora.

Aveva ancora solo due occasioni, o meglio, una e mezza. Avrebbe puntato tutto su Genova la prima settimana di marzo, primo torneo outdoor della stagione. Ci sarebbe stato poi un secondo torneo a Lecce a ridosso del suo compleanno ma era troppo distante, troppo costoso. E per giunta gli ricordava la traumatica esperienza con Leo a Barletta.

Leonardo.

Non l'aveva più incontrato di persona, Nico cercava sempre di evitare Mossa, per non rischiare di incrociarlo e risvegliare in entrambi ricordi dolorosi. 

Ma ancora abitava i suoi pensieri, ancora era il protagonista dei suoi sogni e dei suoi timori, e delle telefonate che faceva, una volta a settimana, ogni lunedì mattina, a nonno Goran, per sapere come stava.

***

«Ieri sera dopo tantissimo tempo è uscito con la compagnia di Mossa. Presente? Alessio Donda, Loris Bevilacqua...»

«Mi fa piacere. Che, senza offesa, non è che poteva continuare all'infinito a giocare a briscola con te.»

«Ma quale offesa, Nico, sono io il primo che lo dico. Non è sano per un ragazzo della sua età stare tutto il tempo a casa. Io son vecchio, non può star mica dietro a me.»

Nico si stiracchiò: era steso sul letto della Fulvia, nella sua camera ormai mezza vuota. «Si è ubriacato?»

Goran fece una risatina. «Ha bevuto un po' sicuro, ma non era ciocco quando è tornato. L'ho aspettato su alzato apposta. Mi sembrava contento.»

«Bene. Ti giuro, non sai quanto mi rassicura questa cosa.»

«E quando è a casa è sempre attaccato a quel Walkman!»

Nico e Goran si scambiarono qualche altra battuta, poi si salutarono e Nico sorrise, ripensando a Leo e al suo Walkman. 

Gliel'aveva recuperato Nico, il Walkman, andando in caserma a Barletta di propria iniziativa, il pomeriggio appena uscito dall'ospedale dopo l'addio a Leo. 

Si era fatto annunciare presentando la propria carta di identità e dicendo al militare in guardiola che voleva denunciare il furto di un oggetto ai danni di Leonardo Devetak. Era stato poi salutato, dalle finestre di un edificio interno che svettava al di là del muro di cinta, da un coro di fischi e prese in giro che andavano da «Dov'è il reggicalze?» a «Quanto vuoi bocca e culo?» Evidentemente ricordavano il suo nome, dopo che aveva chiamato tutte quelle volte... Ma Nicolò Bressan era rimasto impassibile a guardarli, senza sorridere, senza quasi battere le ciglia.

Era stato poi accolto in un ufficio all'ingresso della caserma e ascoltato da un militare con dei gradi sulla spalla, Nico aveva spiegato brevemente che il soldato Leonardo Devetak possedeva un Walkman marca Sony, un apparecchio per la riproduzione portatile di musicassette. L'ufficiale aveva ascoltato e scritto la denuncia. Nico era poi stato fatto aspettare per circa un'ora, dopo la quale gli era stato portato il Walkman e anche un pacchetto con delle cassette. L'apparecchio aveva qualche graffio, ma era funzionante.

«Grazie» aveva detto Nico.

«Dovere, ragazzo. L'esercito non è un luogo dove siano tollerati i furti. Non vi saranno denunce penali, ma la camerata dove è stato trovato l'apparecchio è stata messa in punizione per tre giorni.»

Nico aveva annuito.

«Hai una bella postura, ragazzo. Peccato che sei finocchio, ti ci avrei visto bene, a fare il militare.» Detto ciò, l'ufficiale lo aveva salutato e fatto uscire. 

Nico aveva poi consegnato il Walkman a Goran, perché potesse darlo a Leo il giorno dopo, ma pregandolo di non dire al nipote che era stato lui a recuperarlo: non voleva dargli false speranze con quel gesto. Lo aveva poi pregato di chiamarlo ogni giorno per fargli sapere come stava.

Leo era stato dimesso dall'ospedale dopo due settimane e mezzo di ricovero ed era tornato a Mossa. E da quel giorno era stato Nico a chiamare Goran, una volta a settimana, quando Leo era a lavoro o dal medico, in modo da non turbarlo, per sapere come andava il suo recupero.

La notizia più bella l'aveva avuta due settimane prima: il barattolo con i soldi per la fisarmonica, che era stato svuotato per pagare visite, medicine e trattamenti alla spalla ferita, aveva cominciato a riempirsi di nuovo. Leonardo, «con una faccia tutta contenta», aveva annunciato al nonno che ci stava mettendo dentro diecimila lire, e che avrebbe provato a metterci dentro qualcosa ogni settimana, «a costo di fumare di meno.»

E adesso un'altra buona notizia: la sera prima Leo aveva rivisto i suoi amici, che aveva ignorato per mesi, forse per vergogna, perché la storia del tentato suicidio era ovviamente diventata di dominio pubblico e pettegolezzo preferito dei paesini del circondario. Non il motivo, per fortuna: nessuno sapeva della sua omosessualità, ed era un bene che fosse così.

Nico si sentiva sempre più ottimista.

***

Febbraio 1984

Un giorno di fine febbraio, la settimana prima del torneo a Genova, Nico rivide Raffaele.

Ma non dal vivo. Lo rivide su una rivista di tennis, al circolo di Gorizia. Fu Maurizio a portargliela: «Ti ricordi quando ci hai giocato contro?»

Nico lesse ammirato. Erano quattro pagine dedicate a lui, con commenti tecnici sul suo gioco, un riassunto dei traguardi raggiunti e infine un'intervista piena di parole banali e frasi fatte da cui Nico non riconobbe neanche un'unghia del ragazzo poetico e tormentato che aveva conosciuto. C'erano diverse foto, la maggior parte in gioco, ma quella che Nico rimase più a lungo ad ammirare era un primo piano a cui avevano dedicato una pagina intera, forse capendone la straordinaria bellezza. 

Si vedeva che era cresciuto. Non aveva più le guance tonde, la sua faccia da bambino con gli occhi da adulto aveva lasciato il posto al viso di un ragazzo, più quadrato e ancora più bello nella sua maturità. Quella bellezza che aveva fatto già vacillare Nico e aveva riempito diversi suoi sogni era esplosa nella sua massima perfezione. 

Nico aveva portato a casa la rivista ed era rimasto ad ammirare quella foto per ore, sentendosi stupido e superficiale, ma non smettendo per questo di farlo. Non si masturbò guardandola, lo fece più tardi, preso da fantasie confuse e rapaci. No, per quelle ore lo ammirò e basta, come si ammira un dipinto. Il disegno regolare della bocca che lasciava intravvedere i denti candidi in un accenno di sorriso, il viso proporzionato, il naso dritto e deciso, i capelli neri che ricadevano lunghi ai lati del viso e soprattutto gli occhi. Occhi verdi, che nella loro chiarezza rivelavano tutto, un immensità di emozioni e di paure, tutto il turbamento che non era presente nell'intervista era racchiuso lì, in quello sguardo malinconico e irrequieto.

Avrebbe conservato quella rivista per sempre.

***

A febbraio Nico era stato costretto a ridurre gli allenamenti con Maurizio a uno a settimana, per mettere da parte i soldi della trasferta a Genova, e aveva chiesto aiuto alla sorellina Grazia per allenarsi. 

La Grazia aveva tredici anni e mezzo e passava le giornate a leggere Cioè, ad ascoltare la sua unica cassetta dei Duran Duran e a parlare con le sue amichette (di ragazzi, per lo più) dal telefono in camera della Fulvia, che ormai passava a casa solo un weekend su due. Non era molto entusiasta di perdere un'ora e mezza del suo tempo con Nico, ma Nico ogni tanto le allungava mille lire e per adesso sembravano bastarle.

Era tornato al vecchio metodo di allenamento: corda tesa a segnare l'altezza della rete e colpi. Aveva comprato cinque tubi di palline pressurizzate, le più economiche che aveva trovato, le aveva messe in un secchio e la sorellina aveva il compito di lanciarle a Nico per fargli fare dritti e rovesci. Finite le venti palline, correvano insieme a riprenderle e ricominciavano. I lanci della Grazia non erano molto regolari, ma Nico trovava quell'irregolarità persino utile perché era costretto a spostarsi a destra e sinistra per colpire bene.

L'ultima settimana prima del torneo, si arrischiò a fare due sessioni di allenamento con Maurizio. Per la trasferta di Genova aveva i soldi contati. Gli bastavano esattamente, cento lire più cento lire meno, per iscrizione, hotel e biglietto di ritorno. Non poteva permettersi la minima spesa imprevista.

La sera prima della partenza ebbe una sgradevole sorpresa: aveva chiesto alla madre di comprargli al supermercato un chilo di limoni, che aveva intenzione di portarsi dietro, come era solito fare, per prepararsi la bevanda ristoratrice anti-crampi che gli aveva insegnato a fare Raffaele.

La madre se n'era dimenticata.

«Bon dai Nico, dovrei avere un due in frigo.»

C'erano: uno rinsecchito e l'altro ammuffito.

«Ma porco cane! E adesso come faccio? La limonata mi serve per i crampi! Non posso fare senza!»

«Ti compri i limoni coi tuoi soldi» intervenne il padre, che si stava sedendo a tavola per la cena.

«Be', non ce li ho!» ammise Nico con amarezza.

«Potevi spenderli meglio. Sei fortunato che ti diamo un tetto sulla testa e da mangiare ogni giorno, ingrato! Vuoi stare qua ospite come in un albergo e farti i cavoli tuoi, e pretendi anche che ti compriamo i dolci? Ingrato! Ingrato menefreghista!»

Nico rimase zitto perché era d'accordo col padre. Era fortunato a non dover spendere nulla per vivere e stava davvero trattando la casa di famiglia come un albergo. Non portava nulla in casa. Spendeva tutto ciò che guadagnava. Prendeva e basta.

«Diobòn Nico, ma quanto vuoi che costi un chilo di limoni di quelli piccoli? Con cinquecento lire li prendi, eh!» disse la madre.

«Non ho neanche cinquecento lire. Mi serve tutto per hotel e treno» rispose cupo.

«E vai fino a Genova senza soldi?» chiese la madre con aria scandalizzata.

«Una volta che arrivo ho tutto spesato. Non mi servono.»

«Ma diobòn Nico, potevi dirmi! Ti do io qualcosa!»

«Non glieli dare!»
«Non li voglio!»

Il padre e Nico si parlarono uno sull'altro.

«Ha ragione il papà, sono già fortunato che mi fai da mangiare. Non voglio niente. Volevo dimostrarvi che posso farcela da solo e ve lo dimostrerò. Anzi, scusa se mi sono lamentato dei limoni. Non avrei dovuto.»

«Bravo. E adesso siediti, mangia e stai zitto» concluse il padre.

La discussione fu osservata nel silenzio più completo dal nonno. Da quando Nico l'aveva mandato a fanculo, quel giorno di gennaio dell'anno prima, non lo aveva più sentito proferire parola. Teneva un muso costante durante tutti i pasti. Ma era un muso che non sortiva effetto: dopo i primi giorni in cui i suoi genitori avevano tentato di chiedergli cosa ci fosse che non andava (ottenendo in risposta solo un muso ancora più duro), avevano iniziato a ignorarlo. Così tutte le cene si svolgevano con quella strana presenza ostile, come uno spirito maligno che vegliava sul loro malessere.

***

2 marzo 1984

Nico inforcò la bici alle sei. Era sempre quella dei Turus e l'aveva sistemata proprio bene: catena oliata, pedali sistemati, ruggine scartavetrata e una bella mano di vernice per conservarla. Il treno per Venezia, poi Milano e infine Genova, partiva alle sette meno dieci da Cervignano, doveva mettersi subito a pedalare.

«Nico, fin a Cervignàn in bici?» lo fermò la madre.

«In venti minuti sono lì, non preoccuparti.»

«E non ti pesa quel borsone?»

«Un po' sì, ma non è  la prima volta che lo faccio. Dai, fammi andare sennò ho paura di perdere il treno.»

La madre corse da lui. «Sei abbastanza coperto, tesoro? Hai messo la canottiera?»

«Sì, mamma, non preoccuparti.»

Nico avvertì la mano della madre nella tasca del giubbotto. «Non dire al papà che te li ho dati» sussurrò.

Nico rimase immobile e in silenzio per qualche secondo. Mise la mano in tasca per restituire subito a sua madre i soldi che doveva avergli dato. «Non li voglio, mamma.»

La madre gli bloccò la mano. «Prendili, per favore. Non spenderli in monate. Mettili via. Compra un pacchetto di gettoni e chiamami ogni sera.»

Nico deglutì, senza sapere cosa dire. «Io... io veramente voglio farcela da solo.»

«Lo so, e sei stato bravissimo fino adesso. Fai conto che sono un regalo di compleanno in anticipo.»

Nico ebbe un moto di tenerezza per quella donna quasi estranea, che aveva sempre visto, e continuava a vedere, come una persona priva di spina dorsale capace solo di lamentarsi. Scese dalla bici e la abbracciò.

Lei lo strinse, cominciando già a piagnucolare. «Oh Nico, Nico, come ti sei fatto grande...»

«Ma cosa dici, mamma, ti prego.»

«Sarai sempre il mio bambino.»

Nico le diede un'ultima stretta e si liberò dall'abbraccio. «Parli come se devo partire per il fronte. Vado a giocare un torneo di tennis, mamma. Ci vediamo tra qualche giorno.»

«Stai attento! Se avessi la patente ti accompagnerei io, tesoro.»

Nico le sorrise. «Lo so che lo faresti. Grazie. Grazie dei...» Si indicò la tasca. «Dai, devo scappare adesso. Ciao!»

***

La madre gli aveva lasciato cinquantamila lire.

Erano tantissime! Erano una settimana e mezza di lavoro e gli avrebbero consentito di tirare il fiato e forse iscriversi anche al torneo di Lecce. A parte il rotolo di gettoni per telefonare alla madre (glielo doveva) e una confezione di limoni, non aveva intenzione di toccarli, durante la permanenza a Genova. Per il viaggio si era portato due panini (pranzo e cena) e aveva la borraccia piena d'acqua.

Arrivato in stazione a Genova comprare i gettoni e chiamare la madre fu la prima cosa che fece. Poi autobus fino all'hotel, doccia veloce e letto. Era stanco morto.

Per passare il tempo, aveva con sé solo il Walkman, con due cassette pirata regalategli dalla sorella Fulvia. Niente Umberto Tozzi. Non era più riuscito ad ascoltare quella cassetta, che era rimasta chiusa in fondo all'armadio. Probabilmente non ci sarebbe mai più riuscito. Solo musica straniera. Ne fece partire una. Era bella. Ma non riusciva a toccarlo nel modo in cui lo toccavano quelle stupide canzoni italiane sentimentali. 

Continuava a odiarsi, per la sua debolezza.

Ascoltò un po' di musica per rilassarsi.

Aveva la sensazione, forse irrazionale, ma l'aveva, che ce l'avrebbe fatta.

***

3-4-5 marzo 1984

Il torneo si teneva nel più grande complesso tennistico dove avesse mai giocato, più grande dell'impianto di Milano. Prima dell'inizio dell'M15 maschile, si giocava persino un Challenger combined, maschile e femminile.

Il primo turno di qualifica Nico lo vinse brillantemente. Era un torneo a larga partecipazione giovanile ed ebbe la fortuna di giocare contro un sedicenne, un ragazzo talentuoso, ma Nico lo dominò di puro fisico.

Al secondo trovò un osso più duro, un suo coetaneo niente male, ottima mano a rete. Nico perse il primo set ma capì i suoi schemi d'attacco prevedibili e vinse in rimonta sommergendolo di passanti e pallonetti.

Il giorno dopo si sarebbe giocato l'accesso al tabellone. E se avesse vinto sarebbe stata solo la terza volta.

Steso sul letto della pensione a una stella, senza musica nelle orecchie, immaginava possibili scenari: aveva cercato di informarsi senza successo sul suo avversario, che era un nome senza volto e senza età. Nico era pronto. Era fresco, in forma. Motivato. Sereno.

Riuscì ad addormentarsi presto, si svegliò dieci minuti prima della sveglia.

Non si era mai sentito così tranquillo prima di un incontro.

Preparò la spremuta di limoni col sale e riempì una seconda borraccia d'acqua. Le sue spese si erano limitate a quello: cinquemila lire per i gettoni e quattrocentocinquanta per un chilo di limoni. Gli sarebbero avanzavate quarantaquattromilacinquecento lire. Con cui avrebbe  potuto pianificare l'eventuale trasferta a Lecce, a metà marzo. 

Qualche giorno prima del suo compleanno.

Qualche giorno prima della scadenza.

D'improvviso gli piovve addosso la tensione. Le mani gli tremarono mentre chiudeva la borraccia, e versò un po' d'acqua a terra.

No, calma Nico! Respira. 

Non fu facile. La strada dall'hotel al circolo (due minuti a piedi) la fece con le ginocchia che tremavano. 

La sua tecnica migliore per levarsi l'agitazione di dosso era concentrarsi su inezie e dettagli. Perciò arrivato al circolo iniziò a esaminare con attenzione ogni rete, siepe, grumo di terra, pallina, persona che vedeva. Li studiava nel dettaglio verbalizzando mentalmente ciò che vedeva.

Funzionò. Per il momento.

Quando scese in campo era di nuovo tranquillo.

Il suo avversario senza età doveva avere a occhio e croce vent'anni. Più basso ma più massiccio di Nico, che sperimentò sin dal riscaldamento la sua forza fisica.

I primi giochi furono un massacro. Era un picchiatore: colpiva piatto e profondo costringendo Nico a stare due metri fuori dal campo. Nico subì un break al secondo gioco e non vedeva via d'uscita.

E gli tornò in mente, in quel momento, il consiglio ricevuto alla fine della lezione con la pro, Caterina Badessa, quei soldi che credeva buttati: fai il pallettaro.

Decise di provarci. Iniziò a variare casualmente forza, lunghezza, velocità di rotazione della palla, per quanto gli riusciva. Sbagliò molti colpi ma quelli che andavano a segno mettevano in difficoltà l'avversario.

Perse il primo set, ma cominciò il secondo con fiducia, con costanza. Fai il pallettaro, le parole della Caterina gli risuonavano costantemente in testa. Riprendere, riprendere, riprendere e rimettere in gioco, fino allo sfinimento. Il secondo set, trascinatosi fino al 6-5 per Nico, vide lì la sua conclusione. Nico giocò l'arma psicologica dell'aggressività proprio alla fine, improvvisò delle risposte presuntuose, ravvicinate, l'avversario andò in crisi e perse il set con un doppio fallo.

Aveva vinto l'incontro precedente in rimonta. L'avrebbe rifatto. Bevve la limonata di Raffaele per dissetarsi. Si deterse il sudore con un piccolo asciugamano.

L'avversario era ancora nervoso per aver perso all'ultimo game, e rispose malissimo al servizio di Nico, facendo solo errori. Nico si caricò vocalmente. Non era solito farlo, stava giocando un po' sporco: voleva dimostrare all'altro che ci credeva. Fargli paura.

Funzionò. Break. Immediato. A zero. L'avversario era talmente nervoso che si tirò una racchettata sulla gamba.

I game passarono rapidi, entrambi tennero i propri servizi in quelli successivi, quando, trovandosi a ricevere sul quattro a uno, Nico sentì uno strano rumore provenire dalla racchetta colpendo il primo dritto. La pallina cadde dall'altra parte della rete più lenta.

No...

Nico lanciò una rapida occhiata alla racchetta.

Le corde.

Si erano rotte!

Disperato continuò a giocare, ma la pallina non rispondeva più ai suoi colpi e ogni scambio era un punto dell'avversario.

Il game di servizio dell'avversario finì a zero.

Toccava a Nico.

Merda! E adesso?

Non aveva una racchetta di riserva. Non era abbastanza ricco da permettersela. E le corde avrebbe potuto cambiarle solo a fine match.

Era una sconfitta assicurata. Tanto valeva che si ritirasse subito.

E fu proprio l'avversario a suggerirglielo. «Non cambi racchetta?» Se n'era accorto.

«Non ce l'ho!» Poi si ricordò di averlo visto cambiare racchetta tra il secondo e il terzo set. «Mi presti la tua?» gli chiese di slancio.

Quello alzò le mani. «Non posso, si è rovinata.»

Stronzo, pensò Nico. Sicuramente aveva le corde intere. Non voleva prestargliela.

«Vuoi ritirarti?» gli chiese.

«No!» rispose Nico, furibondo.

L'avversario rise. «E allora batti. Batti lei!»

Nico si innervosì per la battuta fantozziana, e si innervosì anche l'arbitro. «Finitela di discutere e ricominciate a giocare!»

No! Non cadere nella trappola! Stai calmo!

L'impresa era disperata ma ci avrebbe provato. Ce la mise tutta, ma si rese conto che giocare in quelle condizioni era impossibile. 

Maledizione! Tutta colpa del fatto che ho risparmiato sul cambio corde! Stupido! Avrei dovuto usare i soldi della mamma e cambiarle qui!

Come poteva fare? Ogni palla moriva sulla racchetta. Non c'era più tensione, i suoi colpi erano più deboli di quelli di un bambino, i servizi tanto valeva li facesse da sotto, per quanto erano mosci.

Il game finì nella tristezza, e Nico perse il suo break di vantaggio.

Avrebbe dovuto ritirarsi. Non aveva senso continuare. Non c'era soluzione. Non avrebbe più vinto un game in quelle condizioni.

Anziché andare verso la sua sedia si avvicinò alla rete per chiudere. Vide l'avversario accennare un sorriso malevolo, ma vennero fermati prima di arrivare a stringersi le mani da un grido da fuori campo. «Nic! Nic!»

Nico si voltò riconoscendo la voce di Raffaele. Quanto tempo! Era in piedi dietro alla transenna a bordocampo, e stava sventolando una racchetta. 

E non era una racchetta qualunque, era una splendida e nuovissima Dunlop in grafite.

Note 🎶 

Ma ciao Raf! Ci rivediamo, finalmente. E e in veste di Cavaliere in armatura scintillante, che salva il povero Nico da una sconfitta. Secondo voi sarà sufficiente a farlo vincere?

Vediamo anche Leo, da lontano, e vediamo che si sta lentamente riprendendo... Non sarà facile, ma sta andando nella direzione giusta.

E per concludere, oggi, una piccola nota tennistica, sulle racchette. Fino alla fine degli anni Ottanta, i tennisti usavano delle racchette di legno. Ne avete mai vista una? Avete mai provato a prenderne in mano una? Sono molto più pesanti rispetto a quelle moderne, io ci ho giocato e mi ha fatto male il polso per una settimana 😓

Le racchette che vedete qui sotto sono le ultime in legno, di fine anni '70. La Prince di Nico era simile a queste. Ho scelto questa marca come segno del tempo: era molto popolare in passato, ma oggi non viene più usata da nessun pro. Fa ancora racchette, ma ha smesso di sponsorizzare, l'ultimo tennista pro a usare Prince è stato John Isner che si è ritirato dal professionismo proprio una settimana fa (quando si dice il tempismo).

Quella sotto invece è la Dunlop Black Max che immagino Raffaele abbia prestato a Nico, la prima racchetta in grafite della Dunlop, la cui produzione è iniziata nei primissimi anni 80. Anche la Dunlop produce tutt'ora racchette ma ormai non sponsorizza più nessun pro, però ci sono ancora alcuni tornei che usano le palline di questa marca.

E quasi dimenticavo! La battuta "fantozziana" fatta dal tennista avversario a Nico («Batti lei!») fa riferimento a questa epica scena tratta dal primo film di Fantozzi (1975).

https://youtu.be/7C5NIIyjXAk

Ci rileggiamo lunedì, e lasciatemi una stellina per tutti gli sticazzi che mi avete lanciato per le utili informazioni sulle mode racchettistiche.

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