40. Più fondo del fondo, degli occhi, della notte e del pianto
Il secchio gli disse, gli disse: "Signore, il pozzo è profondo
Più fondo del fondo, degli occhi, della notte e del pianto"
Lui disse: "Mi basta, mi basta che sia più profondo di me"
(F. De Andrè, Andrea, 1978)
--
Nico non riuscì a stare in piedi. Fece un passo e si appoggiò a una colonnina del porticato.
La vista si annebbiò.
«Ben! Un di mancul!» disse il nonno.
La crudeltà sadica della frase (Uno in meno!) ridiede energia a Nico. «Brutto stronzo pezzo di merda!» gridò.
Il nonno si voltò verso di lui con gli occhi colmi di rabbia. Sembrava quasi sotto shock.
Nico non volle elaborare. L'insulto era sufficiente a chiudere quella questione. Si rivolse a Goran, che stava piangendo. «Cosa... cosa vuol dire? Ha provato? È ancora vivo? È grave?»
«È sveglio, il peggio è passato. Ma sta tanto male, Nico. Ti prego...» La sua voce si incrinò. «Sta tanto male, non lasciarlo da solo!»
Nico sedette sul primo gradino.
È colpa mia...
Quell'idea gli perforò il cuore, gli asfissiò i polmoni e fece risalire bile acida nel suo esofago.
Goran proseguì. «L'hanno pestato in caserma e... e mi pare che è successo qualcosa con te, no?»
«Lu han pestât? I' ân fat ben!» disse il nonno. «Magari capìss alc!»
«Ma vuoi stare zitto!?» sbottò di nuovo Nico. Poi si alzò, barcollando andò da Goran. «Andiamo in strada a parlare, o questo stronzo continua a rompere le balle.»
Mentre attraversavano il cortile, il nonno li sommerse di insulti, dileggi e cattiverie, che Nico a malapena udì, angosciato com'era.
«Cosa vuol dire che l'hanno pestato? Perché?»
Goran pianse ancora un po', si asciugò le lacrime. «Non so, Nico, non so, ho capito poco, non ho ancora parlato con lui, mi hanno detto i dottori dell'ospedale, è ancora a Barletta. Io vado giù domani con l'aereo, vieni con me, ti pago io il volo. So che era successo qualcosa con te perché l'ho sentito prima che succedeva... e... mi ha detto qualcosa, quasi niente, ho capito che avete tipo litigato, che tu hai fatto qualcosa di brutto... ma io ti conosco e so che non sei un ragazzo cattivo, forse ha capito male lui.»
Nico chiuse gli occhi e scosse la testa. «No. Non ha capito male. Ho fatto davvero una cosa brutta nei suoi confronti, sono molto meno buono di quel che pensi.»
«No, Nico, tu sei un bravo ragazzo... Magari hai fatto uno sbaglio, non so, ma io lo so che sei buono... Aiutalo... Per favore...» Le sue parole erano inframmezzate da singhiozzi. «Io gli voglio tanto bene, ho fatto tanti danni coi miei figli, ma ho un nipote che è come un nuovo figlio, per me. Lo sai che in caserma avevano il mio numero per le emergenze? Il mio!... Il mio, non dei suoi genitori veri... Per favore...»
Nico venne travolto dalle lacrime che stava trattenendo da due giorni. Non riuscì a fermarle. E non volle nemmeno farlo, si illuse di averne bisogno e pianse.
Il pianto di Goran si fermò, davanti a quello di Nico, gli mise una mano sulla spalla. «Tu sei un ragazzo buono, sveglio, con la testa sulle spalle, e mi sembrava che riuscivi a tenere la testa sulle spalle anche a lui. Aiutalo per favore. Secondo me se lo aiuti lui sta meglio.»
Nico prese dei grossi respiri per calmarsi, asciugò le lacrime con la manica della felpa. Era uscito solo con quello addosso e iniziava ad avvertire il freddo pungente di quel gennaio friulano. Il cielo era coperto da un grigio uniforme e le previsioni dicevano che avrebbe nevicato.
Nico ripensò a tutte le volte che Leonardo aveva fatto discorsi strani, vaghi, che preludevano a tragedia. Nico aveva sempre pensato che esagerasse solo per spaventarlo. Ma si era tragicamente sbagliato.
È colpa mia. Colpa mia. Tutta colpa mia...
«Ma... come è successo?» sussurrò. «Non sai proprio niente? Come sta? Cosa sai?»
«Con un fucile» disse il nonno.
Un improvviso nodo alla gola gli impedì di respirare, dovette forzare il diaframma per far entrare aria nei polmoni e deglutire divenne impossibile. I fucili. Gli stramaledetti fucili! Come alla battuta di caccia! Erano strumenti malvagi, portavano solo morte e dolore, e per un attimo Nico ebbe il desiderio utopico di farli sparire tutti, in un istante, dall'intera faccia della terra.
«E come... come è possibile che è vivo?» riuscì a dire con un filo di voce. «Hai detto che lo hanno pestato, non è che in realtà qualcuno gli ha sparato?»
«No, no. È stato lui, non so com'è che è vivo, si è solo ferito alla spalla, forse non è stato in grado di... non so...» Goran ebbe un altro singhiozzo. «E il dottore dell'ospedale mi ha detto che è arrivato che aveva lividi dappertutto e un occhio nero, e io però non so niente di più, perché se chiamo in caserma mi dicono le stesse robe che mi dicono i dottori dell'ospedale, e a lui lo tengono sotto tranquillante e non gli fanno parlare al telefono.»
«Che cosa tremenda.»
Nico si chiese perché lo avessero pestato. Forse avevano capito qualcosa e giudicato che non era abbastanza "maschio" per essere degno di stare lì? Era l'unica possibilità che gli veniva in mente.
«Nico, ti prego, vieni con me domani, ti pago...»
«No» disse Nico, cercando di riprendere controllo delle proprie emozioni e con esse della propria voce. «Se vengo me lo faccio pagare dai miei. Per una cosa così terribile devono pagarmelo. Il problema è che Leonardo... non so se vuole vedermi e neanche se gli faccia bene vedermi.»
«Ma sì che vuole... Nico, tu sei il migliore amico che ha nel mondo.»
«Non lo sono» disse Nico cupo. «Gli ho fatto davvero un torto imperdonabile, e credo che sia tutta colpa mia se è successo quello che è successo.»
«Non è colpa tua, non dire questa roba brutta» disse Goran. «Vieni, intanto. E poi magari quando siamo lì vediamo. Ma io sono sicuro che ti vuole vedere.»
***
11 gennaio 1983
Nel tardo pomeriggio del 10 gennaio Nico, in presenza di Goran, che aveva spiegato cosa fosse successo a Leo, aveva litigato con padre, madre e nonno, ma la circostanza era talmente tragica che i primi due avevano ceduto e il secondo era stato costretto a soccombere alla decisione.
Era stato in buona parte merito della madre, che nonostante fosse contraria alla relazione con Leonardo, era anche una donna piena di carità cristiana, e non appena aveva capito cos'era successo si era dispiaciuta immensamente per «quella povera anima persa.» La sua intercessione era riuscita a convincere il padre.
Nico si era poi recato in serata, poco prima della chiusura, in un'agenzia di viaggi di Gradisca per acquistare il biglietto aereo per Bari, lo stesso volo di Goran. Era solo la seconda volta che Nico prendeva un'aereo, la prima era stata per una vacanza a Parigi fatta da tutta la famiglia quattro anni prima. A Nico fu assegnato un posto distante da Goran, purtroppo, ma riuscirono ugualmente a parlare un po' in aereoporto, prima dell'imbarco e dopo l'atterraggio. Goran ancora non aveva detto due parole a suo nipote, perché i medici non lo facevano alzare dal letto, per il momento. I genitori di Leonardo non c'erano, ma Nico sapeva che sarebbero scesi a Barletta l'indomani. Goran si sarebbe fermato un po' ad assistere il nipote, Nico, invece, il giorno successivo sarebbe tornato in Friuli: i suoi gli avevano concesso solo ventiquattro ore.
Con i genitori di Leo, gli ufficiali della caserma erano stati un po' meno avidi di parole, e la situazione era stata descritta in maniera più chiara. A loro dire, Leonardo era riuscito a sottrarre un fucile dal deposito armi, eludendo la sorveglianza, e raccontando le circostanze erano stati piuttosto minacciosi con la famiglia: Leonardo avrebbe potuto essere denunciato per furto d'arma da fuoco, ma non l'avrebbero fatto perché: «Conviene a tutti che questa faccenda si chiuda più rapidamente possibile, senza strascichi sgradevoli.» Queste furono le parole di seconda mano riportate da Goran a Nico.
Goran espresse a Nico il sospetto che anche Leonardo avrebbe potuto denunciare la caserma per negligenza, e che la situazione fosse molto più ingarbugliata di come la mettevano giù i militari; inoltre c'era anche la faccenda del pestaggio, che non era stata descritta da nessuno in modo chiaro: possibile che i ragazzi coinvolti nella rissa non fossero considerati penalmente responsabili, in qualche modo? Ma quando Nico incoraggiò Goran a fare qualcosa per avere un risarcimento di qualche tipo, il vecchio rispose con pessimismo: «Cosa possiamo fare noi pesci piccoli contro l'esercito? Gli facciamo causa? E i soldi per gli avvocati dove li prendiamo?»
Quanto avrebbe voluto aiutarli, Nico, se avesse potuto, se i suoi genitori fossero stati meno stronzi e privi di cuore... Invece era molto probabile che anche il padre pensasse che Leo se lo fosse meritato. Non l'aveva espresso ad alta voce, a differenza di nonno Giovanni, ma Nico era certo che lo pensasse.
«No, Nico. Ci va già bene che non lo denunciano» disse Goran scuotendo la testa. «Ringraziamo il cielo che è vivo.»
***
L'orario di visite all'ospedale iniziava alle tre, un'ora dopo l'atterraggio del loro aereo. Avevano servito un pasto durante il volo, ma lo stomaco di Nico era talmente chiuso che non lo aveva mangiato.
Il primo a entrare fu Goran, e Nico non sapeva se sarebbe potuto entrare anche lui, se Leonardo avesse voluto vederlo. Non sapeva nemmeno se fosse opportuno entrare, a prescindere da ciò che avrebbe detto Leonardo. Nico si era raccomandato a Goran di dire a Leo che lui era lì, solo se lo giudicava in grado di sopportare la notizia e in grado di parlare.
Ma a prescindere da tutte le cautele razionali avrebbe voluto vederlo. Coi suoi occhi. Stava seduto fuori, in una squallida saletta d'attesa, facendo saltellare la gamba sul pavimento dal nervosisimo, pregando di poter entrare.
Goran tornò dopo circa mezz'ora. Era molto serio, ma non sembrava aver pianto. Accennò un sorriso a Nico. «Vai. Gli ho detto che sei qua. Vuole vederti.»
***
Leonardo, per fortuna, era stato messo in una stanzetta singola.
Stava guardando l'ingresso, quando Nico entrò, e si fissarono per parecchi secondi negli occhi prima che Nico riuscisse a dire qualcosa.
Aveva una spalla avvolta da una spessa fasciatura, un occhio pesto, chiuso da un livido gonfio, e l'altro arrossato, segnato da una profonda occhiaia. La barba incolta lo faceva sembrare più adulto.
«Come stai?» chiese Nico.
Che domanda stupida.
«Mi danno antidolorifici fortissimi. Non mi fa male.»
«No. Come stai tu.»
«Non dovrei. Ma son contento di vederti.»
Nico si avvicinò al letto. Rimasero entrambi in silenzio a lungo, a guardarsi. Poi Nico indicò la sua spalla fasciata. «Perché?» disse in un soffio.
«Perché mi pare che vivere non ha senso.»
Nico chiuse gli occhi, e una lacrima gli rigò la guancia.
«Piangi per me?» sussurrò lui.
«No, mona, ho appena visto una telenovela.»
Quando riaprì gli occhi Leonardo stava accennando un sorriso.
«Cosa ti hanno fatto in caserma? Perché ti hanno pestato?» gli chiese Nico.
«Cosa vuoi che hanno fatto? Han saputo che son finocchio.» Distolse lo sguardo, voltò la testa verso la finestra. «Secondo me ho un angelo custode, che mi ha salvato.»
Nico rimase zitto. Attese che l'altro aggiungesse qualcosa.
Lo fece. «Non è che mi hanno pestato gratis, eh. Mi hanno pestato perché ho iniziato io a pestarli.»
«Stupido...» sussurrò Nico.
«Ferrante, il segretario, mi ha sentito quando ti ho detto che ti amo» disse continuando a guardare fuori dalla finestra. «Glielo ha detto al Colonnello Congiu, il colonnello mi ha chiamato, mi ha detto che i finocchi in caserma non li tengono...» Prese un respiro. «Scusa, faccio un po' fatica.»
«Se fai fatica, non parlare.»
«Mi accendi una sigaretta?»
«Puoi fumare qui?»
«No, ma va in mona l'infermiera, è un giorno che non fumo, ho voglia. Per piacere. C'è la mia roba in armadio.»
Nico avrebbe voluto obiettare che gli faceva male, nelle condizioni in cui era, poi però si rese conto che... poteva davvero stare più male di così?
Gliela accese. E dovette fare uno sforzo per trattenere nuove lacrime, quando quel sapore sin troppo familiare gli invase la bocca. Gliela porse. «Ti devo aiutare anche a fumarla?»
Leo scosse la testa. «Mettimi quel piattino sulle gambe, per piacere.» Poi allungò molto lentamente il braccio destro, quello libero dalla fasciatura, per prendere la sigaretta, e diede un lungo tiro a occhi chiusi. Nico gli porse il piattino, poi andò ad aprire la finestra, per far uscire un po' l'odore.
«Che cocal che sono. Potevo dirti di sì che mi aiutavi a fumare e ti baciavo la mano» disse mentre Nico era ancora di spalle alla finestra.
«Non mi odi?» gli chiese, stupito da quell'affermazione.
«Sì, un casino, ti odio. Però sai... anch'io mi son sognato cose... con qualche compagno di branda.»
Nico si voltò verso di lui.
«È per quello che volevo ammazzarmi, sai?» proseguì Leo. «Non è per quello che hai fatto tu, ma perché ho pensato che io ero uguale, e ho pensato che forse ha ragione tuo papà. Quel discorso che mi hai fatto me lo son sentito tutto qui dentro.» Portò la mano con la sigaretta al cuore, poi diede un altro tiro. «Noi uomini siamo squallidi e schifosi, hai detto. E ho pensato che era vero, perché anch'io, se Lunardi mi veniva nel letto e incominciava a palparmi, mica gli dicevo di no.»
Nico si avvicinò. «Quel discorso era stupido, Leo. Io l'altro giorno ero amareggiato con me stesso, per quello ho detto quelle cose. Può capitare a tutti di avere qualche... qualche tentazione.»
Leonardo lo ignorò, proseguì il suo discorso. «Mi son visto la mia vita davanti, mi son visto a farmi le seghe pensando ad altri uomini, perché un altro per scopare non lo trovo più, come faccio a trovarlo? Son stupido e brutto, chi mi vuole a me, Nico? Mi tocca solo farmi le seghe.»
«Non è vero...»
«Ma poi anche se trovo qualcuno che... che scopiamo, secondo te mi innamoro un'altra volta?» Scosse la testa. «Non è possibile, Nico. Non c'è nessun altro al mondo come te.»
Nico avvertì l'ennesimo bruciore agli occhi. «Esagerato...»
Leonardo diede un altro tiro alla sigaretta, l'aveva già quasi finita. «Ero smonato e incazzato che pensavo queste robe, alla mia vita squallida, quando mi ha chiamato il colonnello e mi ha detto che mi mandava in licenza prima della fine perché son finocchio.» Ebbe un accenno di risatina. «Ma sai che era quasi gentile? Non pensavo.»
«In che senso?»
«Mi ha detto, tipo... il tuo orientamento, senti che parola strana, orientamento... Il tuo orientamento non è compatibile con la vita da caserma, è meglio anche per te se ti do la licenza subito, soldato. Vai via domani mattina, mi ha detto.»
Leo diede un ultimo tiro alla sigaretta e la spense sul piattino. «Allora son tornato in camera, e lo sapevano tutti. Hanno cominciato a prendermi per il culo pesante, io mi sono incazzato, ci siamo pestati io e un altro, è arrivata altra gente e le ho prese da tre diversi, per quello non son riuscito a difendermi.»
«Che pezzi di merda» mormorò Nico.
«E allora ho pensato... cosa vivo a fare? Mi mandano in licenza e sulla licenza scrivono sicuro che son finocchio. Tutti vengono a sapere che son finocchio. Passerò la vita a farmi seghe da solo. Nessuno mi amerà mai. Ho un lavoro di merda.» Leonardo iniziò a inframmezzare le parole di singhiozzi. «La mia vita è una merda, che cosa vivo a fare? Ho preso la sclopa e ho provato a spararmi, ma son talmente stupido che non son stato buono neanche di ammazzarmi e mi son fatto solo un buco nella spalla.»
Leonardo lasciò libero sfogo al pianto, Nico si avvicinò e si azzardò a prendergli la mano. Lui gliela strinse, forte: «È come dice quella canzone, son troppo stupido per vivere. Mi hanno anche fregato il tuo walkman, non ho più neanche quello.»
«Leo, tu non sei stupido.»
«Tu me lo dici sempre.»
«Ma non lo penso. Penso che sei ignorante. E stronzo. Ed egoista. Però...»
«Però?»
Però ti amo! Diglielo! Diglielo, cazzo!
Nico aprì la bocca, annaspò. Perse il momento. «Se muori io...» Annaspò ancora, a occhi chiusi. «Io non voglio che muori.» Deglutì. «Dio, che cose stupide che ti sto dicendo, sono io lo stupido.»
Leonardo strinse la sua mano più forte. «Non son stupide per niente, Nico.»
Nico riaprì gli occhi, ma le lacrime gli appannavano la vista.
«Nico, se tu... io... io vorrei ancora stare con te...»
Nico aprì la bocca per parlare, ma le parole rimasero incastrate nella sua gola. Perché una parte di lui avrebbe voluto dirgli sì, ma la realtà era che non era possibile. Non era più possibile stare insieme, e l'impulso a dire sì, in quel momento, era dettato soprattutto dalla paura. Paura che un no potesse spingerlo a fare di nuovo una follia.
«Ma tu no, vero?» aggiunse Leo.
«Io... io non...»
«Forse neanche io, Nico. Non so cosa voglio veramente. Ma una cosa sono sicuro che non voglio: che stai con me per pietà.»
Nico si stupì di quanto Leo avesse letto bene le sue emozioni. «Ho rovinato tutto, Leo...» disse.
«No, sono io che ho rovinato tutto» disse lui. «Stronzo, egoista... sì... hai ragione. Davo per scontato che c'eri sempre. E quando ho capito che non ci stavi sempre, lì ad aspettarmi, mi son cagato sotto e ho cominciato a romperti i maroni. Sono veramente un cagasotto.»
«Non lo dire.»
«Se non ero un cagasotto non facevo quello che ho fatto.»
«E allora smetti di essere un cagasotto, no?» disse Nico, con una punta di rabbia nella voce. Poi scosse la testa. «Tu sei tante cose, Leo. Puoi essere tante cose!»
«Tipo?»
«Dillo tu.»
Gli occhioni scuri di Leo luccicarono. «Un musicista?»
Nico sorrise. «Vedi che lo sai anche tu? Hai già cominciato a metterti via i soldi per la fisarmonica, no?»
«Sì, ma adesso li dovrò consumare tutti per curarmi.»
Nico serrò le mascelle, fissò gli occhi nei suoi. «E se li consumi ricominci da capo. Prima o poi li metti via. Ti compri la fisarmonica e ricominci a suonare. Metti su un complesso e diventi il più grande musicista di liscio della storia, meglio di Casadei!»
Leo fece schioccare la lingua.
«Sono serio, Leo. Io voglio che tu sia felice.» Nico allungò la mano libera e gli accarezzò la fronte con la punta delle dita, ripensando al discorso che aveva fatto a Raffaele, sul cercare uno scopo fuori dall'amore. «Io penso che per essere felici, Leo, dobbiamo tutti e due trovare uno scopo. Io ho il tennis. Tu hai la musica. E sei bravissimo. Quella canzone che mi hai cantato era la canzone più bella che ho mai sentito e che mai sentirò. Devi scrivere altre canzoni come quella e farle sentire a tutto il mondo. Puoi regalare tanta felicità, con la tua musica, come l'hai regalata a me quel giorno. Tutto il mondo deve sapere quanto sei bravo!»
Leo fece una risatina. «Adesso stai dicendo una monata solo per farmi piacere.»
Nico rimase serio. «No, lo penso veramente.»
Leo alzò un angolo della bocca e lo guardò con quegli occhi che sapevano essere strafottenti, beffardi, arroganti, ma che in quel momento erano solo sperduti. «Io ci provo, Nico. Ti prometto che ci provo.»
Nico annuì e finalmente gli sorrise.
«Sai cosa dicono? Che col tempo passa tutto. Pensi che è vero?» gli chiese Leonardo.
«Penso di sì.»
Leo abbassò la testa, guardò la sua mano stretta a quella di Nico. Passò il pollice sulle nocche. «Prima ho detto che voglio stare ancora con te. Vorrei. Sì, lo penso un pochetto. Un pochetto tanto. Cioè... penso... come faccio senza di te? Però...» Chiuse gli occhi scrollò la testa. «Poi so già che farei il mona, il geloso, starei male, penserei che stai pensando a quello là... E poi penserei di nuovo alle robe che ho pensato io in caserma, sui miei compagni, e penserei che è tutto troppo triste... No. In questo momento qua non è possibile.»
Nico annuì ancora.
Leo alzò di nuovo la testa, guardò Nico, e nel suo sguardo c'era un'idea di speranza. «Però col tempo passa tutto. E magari tra dieci anni, venti, chissà, ci rivediamo, e io mi son dimenticato di queste cose, mi son dimenticato anche che mi son fatto le seghe con Lunardi, e tu ti sei dimenticato che io sono stupido, magari, chissà, mi rivedi e dici... guarda lì quel Devetak, non mi ricordo bene di lui, mi pare che era un tipo intelligente.»
Nico ridacchiò, mentre delle lacrime lottavano per uscire dai suoi occhi.
«Insomma, ci siamo dimenticati tutte queste cose, e tu sei un campione di tennis, e io un cantante famoso, e...» chiuse gli occhi, «ci baciamo di nuovo, e facciamo l'amore e...»
«...e giriamo insieme il mondo» completò Nico. «Divento un professionista e ti porto in giro per il mondo. Te l'ho fatta questa promessa, a me piace mantenerle, le promesse!»
Leo rise, anche lui con gli occhi che sembravano voler traboccare. «Tra quanto, allora? Dieci anni? Venti? Guarda che ti aspetto, eh!»
Nico dovette fare uno sforzo sovrumano per non lasciarsi andare e abbracciarlo, baciarlo, dirgli che avrebbe voluto mantenerla anche subito, in realtà, quella sciocca promessa.
Era un amore imperfetto, quello di Leo, ma era un amore, lo era, lo vedeva chiaramente, ora, lo era, e Nico lo stava lasciando andare. E se non l'avesse mai più trovato, l'amore? Se stesse lasciando andare l'unica possibilità di avere degli attimi di bellezza nella sua vita? Era un'idea che lo riempiva di paura e gli diceva: stai con lui adesso, non tra dieci anni, adesso, abbraccialo, bacialo, convincilo, non lasciarlo mai più.
I progetti che stavano facendo, lui e Leo, erano progetti da bambini, speranze che si sarebbero infrante in futuri divergenti, impossibili da immaginare, trasformate in altre speranze, forse, in altre forme di felicità. Nico sperò che fosse così. Forse non si sarebbero più incontrati, ma sperò che la felicità fosse possibile, per entrambi.
«Ok, allora ci rivediamo quando saremo più vecchi.» Nico fece una risatina. «È quel saluto di merda che dicono sempre i vecchi, ora che ci penso. Ci rivediamo più vecchi.»
«Grazie che sei venuto, Nico» disse Leo con un sorriso malinconico.
«Fatti forza. Hai tuo nonno. Hai la musica. Lo so che non ce l'hai subito, la musica, ma l'avrai. Ci riuscirai a ricomprarla, quella fisarmonica. Lo so che ci riuscirai.»
Leo annuì, e sembrava davvero convinto quando disse: «Ci riuscirò.» Era una convinzione che riempì il cuore di Nico di speranza.
Ma un po' di paura c'era ancora. «E non... non...» tentennò.
Leo sembrò quasi leggergli il pensiero. O forse lesse la paura nei suoi occhi. «Sì. Non preoccuparti, Nico. Lo so anch'io che l'angelo custode ti salva una volta sola e che una seconda possibilità non ce l'ho.» Gli sorrise.
Nico gli strinse la mano un ultimo istante, la lasciò, si voltò, uscì dalla stanza.
No, non uscì. Si fermò sulla porta perché Leonardo lo chiamò. «Nico, aspetta. Solo una cosa.»
«Dimmi» disse Nico, senza avere il coraggio di guardarlo.
«Me lo puoi dare un bacio?»
Nico cercò di respirare, ma il respiro gli si bloccò in gola.
«So benissimo che non ha senso. Però... però non mi frega niente che non ha senso.»
Nico si era già voltato. Si chinò su di lui, prese il suo viso tra le mani e lo baciò.
A occhi chiusi Nico sentì la mano di Leo su una delle sue, si aggrappò a lui.
Nico e Leo indugiarono in quel bacio a lungo, troppo a lungo, Nico per disperazione, Leonardo, forse, per lo stesso motivo.
Poi Nico trovò il coraggio di interromperlo, lo abbracciò, inspirò un'ultima volta il suo odore sul collo, posando il viso nell'incavo della sua spalla sana.
«Non so se ci rivediamo, Nico. Ma non ti dimenticherò mai» sussurrò Leonardo.
«Neanch'io.»
Non ebbe più la forza di restare. Gli diede un'ultima stretta, un ultimo bacio sulla guancia ruvida, lo lasciò, uscì dalla porta senza salutarlo.
Trattenne delle lacrime che stavano facendo di tutto per uscire.
Non ti dimenticherò, aveva detto.
Era un verbo al futuro.
E futuro significava speranza.
--
Note 🎶
E con questo capitolo si conclude la prima parte della storia (prima di tre). Il libro non è ancora ufficialmente diviso solo perché ancora non ho deciso che titolo dare alle tre parti, ma prima o poi lo farò e vedrete apparire dei capitoli segnaposto di divisione (alla maniera de L'Ultimo Evocatore, per chi l'ha letto).
Sono stata crudele a dedicare un intero capitolo a un addio. Ma c'è speranza, alla fine, non trovate?
Secondo voi cosa succederà adesso a Nico e Leo? E si incontreranno davvero di nuovo, come si sono promessi?
Mini-nota sulla canzone del capitolo: Andrea. Racconta una tragica storia d'amore tra due ragazzi. È un brano del 1978 e uno dei primi esempi di canzone italiana che racconta di un amore gay. E lo fa con le abilità poetiche e narrative di Fabrizio De Andrè, perciò è un ascolto che consiglio veramente a tutti.
https://youtu.be/3Xqilt87frc
Ci rileggiamo giovedì, e lasciatemi una stellina per ogni bellissima parola triste cantata da Fabrizio De Andrè.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro