37. Un'emozione da poco
Per me, per me, più che normale
Che un'emozione da poco mi faccia stare male
Una parola detta piano basta già
Ed io non vedo più la realtà
Non vedo più a che punto sta
La netta differenza
Tra il più cieco amore e la più stupida pazienza
(I. Fossati, Un'emozione da poco, 1978)
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Nico tornò negli spogliatoi e tra una cosa e l'altra si erano fatte le cinque e mezza. Raffaele era ormai in hotel e aveva detto a Nico di chiamarlo quando avesse finito, per fargli sapere com'era andata.
Nico non lo fece subito, però, perché prima voleva essere sicuro di avere abbastanza gettoni per parlare con Leo.
La cacciata del padre dal torneo era capitata a fagiolo: Nico aveva ora tutto il tempo per potersi confrontare con Leonardo al telefono, anziché essere costretto a partire subito per Capriva.
E poi, però, dopo la chiamata, cosa avrebbe fatto? Suo padre gli aveva detto che l'avrebbe aspettato all'hotel. Nico non voleva andare da lui, ma dove altro sarebbe potuto andare?
Nonostante la loro folle assurdità e nonostante Nico sapesse benissimo che, se avesse accettato, Leo sarebbe morto di gelosia, non poté evitare di ripensare alle parole di Raf.
Vieni a stare da me, ci alleniamo insieme...
La prospettiva lo tentava, non poteva negarlo. Soprattutto dopo la proposta di Ravaioli. Chi meglio di un ragazzo talentuoso come Raffaele avrebbe potuto aiutarlo a migliorare e fargli guadagnare quel punto ATP? E con un allenatore di altissimo livello che li seguiva, per giunta. Se fosse tornato a Capriva, invece, lo aspettavano solo odio, ostilità e l'impossibilità di allenarsi: Nico non aveva soldi per continuare a pagarsi le lezioni.
Leo, per giunta, aveva ancora sei mesi e mezzo di naja davanti a sé, quindi anche scappare a casa di Goran era una possibilità non praticabile, nonostante Goran si fosse detto più volte disponibile a ospitarlo. Nico non lavorava e avrebbe dovuto dipendere da lui, e già gli era pesato dover dipendere per dieci giorni dalle povere tasche di Leonardo, figuriamoci da quelle di un vecchio con la pensione minima.
Raffaele, invece... Lui era ricco, ricco davvero, molto più ricco di Nico. Non gli sarebbe pesato affatto mantenere un'altra persona.
Nico chiuse gli occhi e scosse la testa per scacciare quelle tentazioni. Non voleva fare il mantenuto. E per giunta non conosceva Raffaele. Si vergognò di aver preso quell'idea in considerazione, anche se solo per pochi minuti.
Attese mezz'ora che arrivassero le sei, rimuginando e rimasticando ossessivamente quei pensieri, e quando arrivò il momento Leonardo non si fece trovare.
Il militare che rispose al telefono - sempre lo stesso - questa volta disse a Nico che avrebbe chiamato Leonardo, ma dopo cinque minuti di attesa tornò a dire che Leonardo non voleva parlare al telefono.
Nico salutò. Chiuse la chiamata. Aveva sprecato otto scatti per l'attesa.
Fece qualche respiro per calmare la rabbia che gli stava montando dentro. Leonardo stava facendo il bambino. Era una ripicca, una stupida ripicca. Un voler tenere Nico sulle spine che però stava sortendo l'effetto opposto: l'ansia di sapere come avrebbe reagito aveva lasciato il posto all'irritazione. Perché doveva essere sempre così stupido, egoista e stronzo?
Avrebbe potuto riprovarci, ma non lo fece. Non voleva parlargli? Benissimo. L'avrebbe risentito l'indomani e lo avrebbe salutato con tanti vaffanculo.
Decise quindi di chiamare Raffaele.
«Ehi Nic! Stasera ti va di andare in disco con gli altri?» fu la frase con cui lo salutò.
«Ma domani giochi la finale, idiota!»
«Ma mica contro di te!»
Nico non aveva voglia di scherzare, lo aggiornò sulla situazione: gli raccontò della proposta di Ravaioli, di suo padre che lo aspettava in hotel dopo essere stato cacciato, e infine di Leonardo che non rispondeva.
«Vieni in hotel da me in autobus. Usa gli spicci che ti ho lasciato per il biglietto.»
«Ma mio padre...»
«Dai, ci mangiamo uno spuntino, a stomaco pieno si ragiona meglio. E tuo padre s'attacca al cazzo.»
Raf riuscì a convincerlo. L'idea di tornare dal padre era troppo angosciante. Nico non voleva affrontarlo. Non voleva tornare a Capriva.
Recuperò le sue cose nell'armadietto e andò da Raffaele. Il viaggio in autobus fu semplice e rapido – sorrise a ripensare quanto era stato terrorizzato dalla grande città, il primo giorno lì.
Raffaele lo accolse con una gran pacca sulla spalla.
«Non so cosa sono venuto a fare» disse Nico. «Mio padre mi aspetta in hotel e stasera dovremmo tornare a casa, non ha senso che...»
«Dai, oggi tanto non sareste partiti. È tardi, ormai. Stanotte dorme anche lui in hotel e poi domani pensiamo cosa fare. Resta a dormire qua, stanotte, mi fa piacere se mi tieni compagnia» insisté Raf.
Nico si allertò: cosa significava "tenere compagnia"? Pensò a Leo che sarebbe stato gelosissimo di una proposta simile e una vocina nella testa gli disse: ben gli sta! Nico decise di assecondarla. «E va bene. Per stanotte resto qui. Grazie dell'ospitalità.»
«E smettila di ringraziarmi per ogni scemenza! Ordiniamo qualcosa da mangiare, è quasi ora di cena. Mia madre stasera è fuori e non ci romperà.»
«Ho fame in effetti.»
Ordinarono subito e Nico ne approfittò per rivelargli di essere davvero vegetariano, come già l'altro aveva intuito. Si aspettò qualche presa in giro, invece Raf si mostrò molto ammirato da quella scelta «profondamente etica.» Nico omise di confessare che non lo faceva per profonde ragioni etiche, ma perché gli veniva da vomitare all'idea di mettere in bocca un animale morto.
Durante la cena chiacchierarono, e ogni minuto che passava Nico si sentiva un po' più in vena di fare qualche confidenza, raccontare piccole cose di sé. Cominciò da quelle più distanti, come la sua infanzia, i suoi sogni e le sue paure. Raf lo riempiva di domande, e le domande lo incoraggiavano a proseguire. Nico provò diverse volte a chiedere anche all'altro qualcosa, sulle sue idee e sulle sue passioni, ma le risposte che otteneva erano sempre vaghe e seguite da una domanda a Nico, e Nico era talmente stressato dalla situazione con Leo, che il suo bisogno di parlare e sfogarsi ebbe la meglio e fu proprio di Leo che finirono a parlare.
Nico, che era sempre molto riservato, si stupì di quanto si sentisse a suo agio con Raf, un ragazzo affettuoso, profondo, intelligente, colto, tutto ciò che si poteva sognare in un amico. Altro che Leo, quello stupido, ignorante, egoista che lo lasciava appeso a tormentarsi di preoccupazione.
E fu proprio di quella preoccupazione che parlò Nico, si lamentò con Raf per i comportamenti di gelosia infantile di Leo. Non gli raccontò nello specifico che l'oggetto di quella gelosia era lo stesso Raf, sarebbe stato imbarazzante, ma ugualmente sentì il bisogno di sfogarsi. Il suo sfogo fu talmente amareggiato che Raf finì persino per chiedergli perché non lo mollasse.
«Tante volte me lo chiedo anch'io, però...»
«Però?» lo incalzò Raf dopo parecchi secondi di silenzio.
In quei secondi i pensieri di Nico erano stati caotici, guidati dalle emozioni. Perché il solo pensiero di lasciare Leo gli aveva stretto il cuore, facendogli venire in mente episodi in cui Leo aveva espresso i suoi sentimenti e Nic si era illuso che fossero sinceri. Due in particolare: la canzone che gli aveva cantato sotto la quercia, e quella stupida dedica sul libro. Il libro che quel bastardo di suo padre aveva bruciato. Ancora faceva male ogni volta che ci ripensava.
«C'è qualcosa che ti opprime...» osservò Raf.
«Sì, ma non mi va di parlarne» decise Nico.
«Se hai dei problemi e dei dubbi col tuo ragazzo, forse parlarne ad alta voce ti farebbe bene. Ti aiuterebbe a chiarire i tuoi sentimenti, e anche a prendere una decisione su di lui. Non credi?»
Le parole di Raf erano sensate. «Ok, ci provo.» Nico fece mente locale, per cercare di spiegarsi in maniera ordinata. Pensò se dire a Raffaele della canzone, Rewind, ma non se la sentì di parlare di quella. Era stato un momento così privato, così bello, così personale, voleva che restasse tale. Decise invece di dirgli della dedica sul libro di Tolkien.
«Leonardo è stupido e ignorante» esordì.
Raffaele non commentò, si limitò ad aggrottare le sopracciglia.
«Per Natale, quando è venuto in licenza, mi ha regalato un libro. Il Signore degli Anelli.»
«Ha buon gusto!» esclamò Raf.
Nico sminuì l'apprezzamento con un gesto della mano. «Macché. Gliel'aveva consigliato la commessa. Ma non è il libro la cosa importante, è il contorno. Sulla prima pagina mi aveva scritto una dedica. E... dovevi vedere che parole stupide che ha scritto! Erano due frasi fatte e sotto aveva aggiunto un pezzo di una bruttissima canzone di Tozzi, e non poteva tirare fuori una roba più banale! Però sai qual è la cosa che mi fa stare più male? È che io capisco che quella dedica era stupida e quella canzone anche peggio però... nonostante io capisca queste cose ecco... non riesco! Non riesco proprio a fare a meno di... di... cioè...» Nico nascose il volto tra le mani. «Scusa, ma che cazzo ti sto raccontando? Che ore sono? Che ne dici se andiamo a dormire?»
Erano ancora seduti al tavolo, davanti ai piatti vuoti, a novanta gradi uno rispetto all'altro, sull'angolo del tavolino, e d'improvviso Nico sentì le mani di Raffaele sulle sue.
Sussultò.
Raf tolse le mani di Nico dal suo viso. Lo guardò negli occhi. «Dimmelo, Nic. E forse anch'io troverò il coraggio di confessarti le mie debolezze.»
Raffaele era stato chiuso e silenzioso tutta la sera: quella proposta di apertura incoraggiò Nico a proseguire.
Prese un respiro e annuì. «Ok. Io... io ripenso a quella dedica, che ho letto una volta sola e neanche me la ricordo bene, mi ricordo solo che era stupida, ci ripenso e non riesco a fare a meno di emozionarmi. E ascolto quella canzone di merda di Umberto Tozzi e mi rendo conto che è una canzone di merda, ma uguale! Uguale, cazzo! Mi emoziono come un coglione! Per due paroline banali, una musichetta smielosa... come... come una signorina che legge gli Harmony, diobòn!»
«Ma che canzone era? Ti amo?»
«No, un'altra. Quella che dice...» Nico abbassò gli occhi, vergognandosi di ciò che Raf avrebbe pensato: che era stupido anche Nic, se era stato per tanto tempo insieme a uno che usava una canzone così stupida come dedica. «Al mondo siamo io e te.»
Raf lo guardò per qualche secondo con un'espressione seria, che si aprì in un sorriso. «Ma guarda che è una bella canzone. E quella frase è bellissima.»
«Ma se è una roba sdolcinatissima!»
Raf scosse la testa e la sua espressione era sempre più sognante. «Non è vero. Mi dà proprio l'idea... l'idea di due ragazzi soli che si trovano. Al mondo siamo io e te... cioè, come ti ho detto, anche a me piacerebbe avere qualcuno a cui dire una cosa simile. Io e te, un universo tra di noi, e tutto il mondo fuori... che ora che ci penso sembra il testo di Albachiara, ahah!»
Nic non si stava divertendo.
«Scusa... la prendi davvero in modo pesante, questa cosa.»
«Sì! Perché al mondo siamo io e te la biga! Al mondo siamo io e te, e poi uno dei due sparisce nel nulla lascia l'altro da solo! Al mondo sono io e c'è un coglione egoista che si fa i cazzi suoi facendo preoccupare l'altro. Alla faccia di al mondo siamo io e te!»
Raf si rabbuiò.
«Cioè, il punto è proprio questo! Io che mi emoziono come un coglione per questa canzonetta da quattro soldi, e per queste... queste due righe da bambino scemo che mi ha scritto, e lui che se ne strafrega di me, se ne frega sempre, egocentrico, bastardo, manipolatore del cazzo, sempre a pensare a se stesso, poi mi dice una parolina dolce, una robetta da niente, e io ci casco come un coglione.»
Raf mise una mano sull'avambraccio di Nic. «Mi dispiace che ti senti così...»
«Anche a me.»
«A proposito di canzoni... sai cosa mi ha fatto venire in mente, questa cosa che mi hai appena detto?»
«Una canzone?»
Raf sorrise. «Sì. Un'emozione da poco.»
«È il titolo?»
«Non la conosci? Possibile? È famosissima! Ha tipo vinto Sanremo, mi pare. O è arrivata seconda, non mi ricordo. Un paio d'anni fa.»
«È una canzone sdolcinata, immagino.»
«No, secondo me no. Cioè, parla d'amore, ma ha un testo molto bello. Aspetta!» Nic schioccò le dita. «Te la faccio sentire, dovrei avercela. Mi pare che mi sono portato dietro la cassetta di Sanremo '78, che c'erano un sacco di belle canzoni, quell'anno.»
Raf la cercò tra le sue cose e la trovò. Prese il walkman, scandagliò le canzoni con il fast forward e il rewind, finché non trovò quello che cercava. «Eccola! Ascoltala e dimmi se non esprime esattamente le cose che mi stavi dicendo poco fa.»
Nico premette play e ascoltò.
Ascoltò con attenzione, concentrandosi sul testo, più che sulla musica.
Questa canzone parla di me!
Il testo era talmente vero da far male.
Per me è più che normale che un'emozione da poco mi faccia stare male, una parola detta piano basta già, e io non vedo più la realtà.
«Wow» fu il commento di Nico alla fine della canzone.
«Ti piace?»
«È stupenda! Cioè...» Si pentì di aver ceduto a quel giudizio così esagerato. «Cioè, è una canzone che contiene molta verità, ecco. Avevi proprio ragione. Sono emozioni da poco e mi fanno stare male. Odio questa situazione. La odio. Vorrei esser meglio di queste robette.»
«Ma forse siete in torto sia tu che lei.»
«Lei chi?»
«Anna Oxa, quella che canta la canzone.»
«In che senso siamo in torto?»
«Che nessuna emozione è da poco, per chi la vive.»
«Non hai capito il senso della canzone. Le emozioni da poco sono le parolette da quattro soldi che scrive lui, non quelle che sento io. Cioè... sì, lo sono anche le mie, ma perché nascono da quella robetta.»
«Ma forse per lui non lo erano, da poco.»
«Lo difendi, adesso?»
«Non lo so... non lo conosco abbastanza, magari in questo momento non ti sta parlando perché ha paura.»
«Be', di fatto però sta facendo il bambino egoista, perché non si preoccupa di come sto io.»
Raf alzo le mani. «Sto solo cercando di capire la situazione.»
«La situazione è esattamente quella che descrive la canzone: uno stronzo che pensa solo a se stesso e ogni tanto elargisce emozioni da poco, e un coglione che si fa abbindolare da quelle emozioni da poco.»
E mentre lo diceva Nic guardò Raf, e si ritrovò a pensare che quel ragazzo intelligente, colto e profondo non gli avrebbe mai regalato emozioni da poco.
Raf scrollò la testa. «Non sei un coglione, Nic, abbiamo tutti bisogno di emozioni.»
«Almeno che non siano da poco.»
«Senti... ti vedo molto teso, secondo me hai bisogno di sfogarti. Perché non usciamo? Gli altri stasera si incontrano tutti in un bel locale dove c'è musica e una pista per ballare.»
Quelle parole misero Nico in allarme, perché gli fece venire in mente l'ammonimento di Ravaioli: quel ragazzo sarebbe capace di corrompere Francesco d'Assisi.
«No» disse secco Nico. Che a dire il vero non era affatto tentato dalla proposta.
«Ma ti fa bene distrarti un po'!»
Nico rifletté qualche secondo. Qual era l'alternativa? Passare tutto il resto della notte in camera con lui? Svegli? Con un letto? Con Raf che non faceva altro che fare strane allusioni e poco prima aveva persino invitato Nico a lasciare Leonardo (anche se poi alla fine l'aveva difeso)? Nico si rese conto di non essere sicuro di se stesso. Era arrabbiato con Leonardo e con le emozioni da poco che gli suscitava, e la rabbia lo spingeva a fare pensieri strani.
A immaginare inopportuni tradimenti con Raf.
Forse andare in quel locale era la cosa migliore. Si sarebbero stancati e al ritorno si sarebbero addormentati subito.
Raf prestò a Nico dei vestiti borghesi, tra i più larghi che aveva. Presero un taxi e attraversarono le strade illuminate e trafficate di Milano. Nico non fece altro che guardare fuori dal finestrino, ripensando di tanto in tanto alla canzone che gli aveva fatto sentire Raffaele: la città di notte sembrava magica. La campagna dopo le sei diventava deserta, silenziosa, buia. Ma lì a Milano alle dieci e mezza ancora si vedevano in giro passanti, auto, bar aperti. Com'era possibile? Era sabato, certo, forse durante la settimana la situazione era più tranquilla. Ma quel posto era vivo. Nico sognò di trasferirsi per sempre in città. Raffaele viveva a Roma, la città più grande d'Italia, la capitale... chissà com'era? Forse ancora più movimentata di Milano!
Sto di nuovo prendendo in considerazione la sua folle proposta?
Arrivati al locale, Nico scoprì che era una piccola discoteca. Incontrarono Fernando insieme a un gruppetto di ragazzi che Raffaele sembrava conoscere, Nico aveva visto qualche faccia al torneo. Entrarono insieme, Nico sentendosi di troppo in mezzo a gente sconosciuta che non gli rivolse mezza parola, neanche per salutarlo.
Era presto, quindi all'interno c'erano soprattutto sbozzetti, di quattordici, quindici anni. Forse anche qualche suo coetaneo, ma la sua impressione era che tutti fossero più piccoli di lui. Si sentì come un adulto a una festa di bambini.
Anche Raffaele era più piccolo di lui, aveva quindici anni (quasi sedici), ma Nico lo percepiva in modo diverso. Non gli sembrava un bambino.
Gli tornò in mente una delle tante frasi gelose di Leo: quando ci ho provato con te anche tu avevi quindici anni, uguale uguale. Perché ci ripensava?
Presero da bere, Raf e gli altri andarono in pista a ballare, Nic rimase ai bordi, solo, sperduto, ridicolo con indosso quei vestiti troppo stretti che gli aveva prestato Raf, che era più basso e magro di lui. Si estraniò dal presente, pentito di aver accettato quell'invito.
Ma cosa ci faccio qua, con mio padre che mi aspetta per tornare a casa?
Chissà, forse si stava persino preoccupando per lui. Si sentì in colpa, d'improvviso. Aveva accusato Leonardo di aver fatto il bambino, ma Nico stava facendo un torto molto simile a suo padre.
«Nic! Non prendi qualcos'altro da bere? Non farti problemi! Offro io!» gli gridò nell'orecchio Raffaele dopo un tempo imprecisato che a Nico erano sembrate ore ma che potevano essere stati anche pochi minuti.
«Non ho neanche finito il mio gin lemon. Tu quanto hai già bevuto? Cos'è quello?»
Raf prese un sorso dal suo bicchierone, da una cannuccia. «Piña colada! Vuoi?»
«Fammi assaggiare!» Nico ne prese un po'. «Non mi piace, troppo dolce!» Era una vera rottura, parlare gridando.
Anche Raf sembrò essere d'accordo perché per proseguire la conversazione si avvicinò all'orecchio di Nic. «Tu come fai a divertirti?»
Nico fece una smorfia, decise di essere sincero. «Non mi diverto» gli rispose nell'orecchio.
Raf lo prese per un braccio, gli fece un cenno con la testa e lo trascinò. Lo portò a un corridoio di collegamento tra le due sale di quella piccola discoteca. C'era chiasso anche lì, ma si riusciva a udire una conversazione anche parlando a voce alta, senza dover gridare. L'unico problema era il buio: c'era un buio pesto.«Non ti piace la discoteca?» gli chiese Raf.
«So di passare per lo sfigato di turno se lo dico, ma...»
«Fa schifo anche a me» lo interruppe Raf.
Nico restò zitto per qualche secondo. Avrebbe voluto vedere l'espressione sul viso di Raf, ma davanti a lui c'era solo una sagoma scura. «E allora perché mi ci hai portato?» gli chiese.
«Perché mi illudo che il casino riempia il mio vuoto.»
Quella confessione personale fu improvvisa e inaspettata, dopo che per tutta la sera era stato solo Nico a parlare.
Raf girò la testa, Nico vide il suo profilo, il suo naso piccolo e regolare, così diverso dal nasone storto di Leonardo.
«Una volta mi sono innamorato di una ragazza, in discoteca. A prima vista» proseguì. «Ballava da sola come se non ci fosse nessuno intorno a lei, e non era molto bella, sai? Fernando, tipo, avrebbe detto che era un quattro. Era anche tutta sudata e quando mi sono avvicinato a lei ho sentito che puzzava di sudore. Ma era bellissima lo stesso, perché era il ritratto della felicità, era in estasi e mentre ballava sembrava quasi volesse gridare a tutto il mondo: non me ne frega un cazzo di quello che pensate di me! Io ballo e basta e ballo come mi pare!»
La gridò davvero, l'ultima frase. Nico ascoltava allibito, forse qualche bicchiere di troppo gli stava sciogliendo la lingua.
«Allora mi sono avvicinato a lei e le ho detto: sei bellissima» proseguì Raffaele. «E lei all'inizio sembrava che non mi avesse neanche sentito, gliel'ho ripetuto e le ha dato fastidio, non prendermi in giro, mi ha detto, forse siccome era bruttina non era abituata che glielo dicessero. Ma no, ti giuro, sei bellissima, posso ballare con te? Le ho chiesto. E lei allora ha accettato, e ho cercato di ballare insieme a lei, ma lei era troppo persa nel suo mondo. E allora le ho chiesto qual è il tuo segreto? Come fai a essere così felice?»
«E lei cosa ti ha detto?»
Raf non rispose. Abbassò la testa. «Tu come fai a essere felice Nic? Cos'è che ti rende felice?»
Nico non capiva bene dove Raf volesse andare a parare con quelle confessioni e con quelle domande, dovette pensare a lungo a quella risposta. «Dipendi cosa intendi per felice» rispose.
«Sei mai felice?» insisté Raf.
Nico sbuffò. «Ma ti sembrano discorsi da fare dentro una discoteca? Sto cominciando a diventare rauco, con tutto questo fumo e a parlare così forte.»
«Hai ragione. Usciamo.»
Raf apostrofò una ragazza di passaggio, le regalò il suo bicchierone di Piña Colada che era ancora quasi pieno, e i due ragazzi si fecero strada verso l'uscita. Presero i giubbotti in guardaroba. Fuori, finalmente.
Raffaele prese un grande respiro. «Mi sembra già di sentirmi meglio. Là dentro si soffocava.»
«Dove andiamo? Conosci questa zona?» Il quartiere dove li aveva portati il taxi era un posto un po' opprimente, pieno di condomini altissimi dalle orrende forme squadrate, grigi di inquinamento, tristi come un cielo nuvoloso. Ma era anche una zona ricca di locali, e le luci colorate formavano uno strano contrasto con quei palazzi cupi.
«No. Camminiamo un po'. Altrimenti poi abbiamo freddo.»
Lo fecero. Presero una strada a caso, il marciapiede era largo a sufficienza per entrambi, illuminato da lampioni e luci di insegne. Da solo Nico avrebbe avuto paura, in quel quartiere sconosciuto di una metropoli, ma Raf era un ragazzo di città, viveva a Roma. Lui era abituato a quelle dimensioni. E Nico si sentiva tranquillo, a camminare con lui.
«E gli altri cosa diranno che sei andato via?» chiese.
«Secondo te gliene frega qualcosa se io ci sono o no?»
«Non sono tuoi amici?»
«Solo tu sei mio amico» rispose lui, cupo.
Non sono tuo amico, ci conosciamo da pochi giorni, avrebbe voluto ribattere. Ma non lo fece, perché assurdamente quell'affermazione gli era sembrata vera.
«Parlare di emozioni, prima, mi ha fatto pensare tanto. Tu come fai a essere felice?» chiese di nuovo Raf, camminando a testa bassa.
«Ma tu, scusa, non sei mai felice? Mi sembri sempre contento! Sempre con quella Polaroid a scattare foto e ridere.»
«Felice come quella ragazza in discoteca... io... quella felicità assoluta, talmente assoluta da essere vuota, io la sto cercando da quel giorno.»
«Quale giorno?» chiese Nico, senza aver capito il senso di una singola parola di quella frase.
«Il giorno in cui quella ragazza mi ha dato la risposta più spaventosa che potesse darmi.»
«Perché parli per enigmi? Di cosa stai parlando? Cosa ti ha detto quella ragazza?»
Raffaele non rispose. Si morse un labbro. Lasciò un solco sulla pelle un po' screpolata. Stavano passando accanto a un condominio, niente insegne, solo lampioni a illuminarli, e la luce giallognola lo faceva sembrare quasi malaticcio.
«E poi...» continuò Nico, cercando di capire. «Cosa vuol dire felicità vuota? Se è vuota non è vera felicità.»
«Da un lato hai ragione. Dall'altro... io ho paura, Nic. Perché ho vissuto la perfezione. Il contrario di un'emozione da poco. Un'emozione infinita, assoluta, totale. Infinita. Solo che poi è finita. Ed è da quel giorno che desidero riviverla. E sto cercando qualcosa di vero che mi dia quella felicità, solo che non lo trovo. Faccio festa, mi ubriaco. Ubriacarmi è simile, sì, ma non è abbastanza.»
«No, non ubriacarti, Raf. Fidati, ne ho viste di persone rovinate dall'alcol, non è un bello spettacolo» disse Nico, pensando al padre di Leonardo. Pensando allo stesso Leonardo, che ogni tanto aveva ceduto alla stessa tentazione.
«Se solo riuscissi a trovare questa cazzo di felicità! Qualcosa che mi salvi dalla merda che ho nel cervello!» Raf sospirò. «Vorrei farti leggere una delle mie poesie. Posso?»
«Te la ricordi a memoria?»
«No, ce l'ho qui, nella mia Moleskine» disse battendo una mano sul petto. «Me la porto sempre dietro.» Accennò un sorriso. «Non sai mai quando può colpire l'ispirazione» aggiunse in tono scherzoso.
Nico si sentì arrossire, si strofinò una mano sul collo per dissimulare. Quel ragazzo che a malapena conosceva voleva fargli leggere una sua poesia. «Non so... una poesia mi sembra una cosa così personale... Non ho mai letto una poesia di nessuno! Sei sicuro di volermela far leggere?»
Erano fermi accanto a un semaforo, adesso, Raffaele era contornato da un bagliore rosso e in sottofondo il brontolio delle poche auto in attesa creava una vibrazione quasi piacevole. «Sì» rispose, mentre estraeva dalla tasca interna del suo giubbotto un piccolo quaderno dalla copertina nera. Lo aprì. Dentro era tutto scritto, fitto fitto, molta della roba era cancellata con segni neri caotici, violenti. C'erano anche dei disegni, realizzati sempre con la penna, scarabocchi, per lo più. L'inchiostro era sempre nero, ma c'era qualche raro inserto a pennarello colorato.
«Eccola» disse Raf, ora illuminato di verde, mentre i motori si alzavano di tono, partendo dietro a loro. Gli porse il piccolo quaderno.«Secondo me non sono mai riuscito a esprimere così bene quello che sento. Voglio fartela leggere perché vorrei che almeno tu mi capissi, Nic. Secondo me tu potresti diventare l'unica persona al mondo che mi capisce.»
Quelle parole così assolute, così drammatiche colpirono Nic. Gli sembrarono esagerate, ma ugualmente gli fecero effetto. Per un attimo pensò anche lui lo stesso.
Il suo pensiero, dopo pochi istanti corse a Leo, e si sentì come sempre un po' in colpa. Non riuscì a evitare il confronto tra i due: chissà che tipo di emozioni avrebbe espresso quella poesia, se gli sarebbero sembrate anche quelle da poco. Aveva il sospetto di no.
Nico prese il quaderno e si spostò sotto un lampione a pochi passi, per leggere meglio. Chiuse gli occhi, prese un respiro per superare il disagio, perché un po' di imbarazzo lo stava provando ancora.
E quindi lesse. Non c'era un titolo, solo parole.
Nella mia testa c'è un verme
Che si mangia i miei pensieri
E caga fuori la merda.
Si mangia le emozioni
Le idee
I numeri
Le ossessioni
Lascia solo un vuoto pieno di merda
Ho bisogno di qualcuno
Perché non voglio stare solo con la merda
Nico pensò alle poesie che conosceva e quella non gli sembrò affatto una poesia. Gli sembrarono parole volgari buttate a caso su un foglio con qualche a capo in mezzo.
Però leggerla lo mise a disagio, lo scosse. Quelle non erano affatto emozioni da poco, erano sentimenti ingombranti, disperati. Davvero quel ragazzo pensava questo di se stesso? Di avere solo merda nella testa? La rilesse di nuovo, col rombo sommesso del traffico che faceva da colonna sonora, e rendeva quelle parole più vive, tristi e angoscianti.
«Io...» disse Nico. «Tu... cioè... è... molto bella. Cioè, non so se bella è l'aggettivo giusto. È molto triste.»
Raffaele annuì.
«Perché pensi di avere merda in testa?» gli chiese, cercando di aiutarlo.
«Perché ce l'ho.»
«A me non sembra affatto che hai merda in testa. Sei intelligente, leggi tanto, sai persino scrivere belle poesie.»
«Che ne sai? Ne hai letta solo una.»
Nico sbuffò.
«Come fai a essere felice, tu?» gli chiese Raf.
«La felicità che mi hai descritto tu secondo me non esiste. Un'emozione totale, infinita. Cosa significa? Non esiste. E se esiste a me non piace.»
Raffaele non commentò. Avevano ricominciato a camminare, e teneva la testa bassa, un po' incassata nelle spalle, guardava il marciapiede.
Nico cercò di ampliare. Rifletté ad alta voce. «Ma tu davvero pensi che sia possibile essere felici tutto il tempo? Secondo me no. Anzi, secondo me la maggior parte del tempo la gente si rompe le palle.»
Raffaele ebbe un accenno di risatina. «Probabilmente hai ragione.»
«Poi... sì... io... se penso ai momenti in cui sono stato più felice...» Leonardo. Era quella l'immagine che gli veniva in mente. «Una felicità assoluta e totale, dici. Sì. Sì, forse mi viene in mente una volta in cui l'ho provata, una volta in cui mi sembrava che oltre non si potesse andare, che non esistesse niente di più bello.»
«E cosa avevi fatto? Come c'eri riuscito?»
Nico rimase in silenzio, con la testa piena di quel ricordo, che avrebbe potuto essere il ricordo più bello della sua vita ma aveva finito per essere uno dei più orribili. «Mi vergogno a parlarne.»
«Riguarda Leonardo?»
Nico annuì. «Be', non ci voleva un genio, a capirlo. Il centro di tutte... di tutte le mie emozioni da poco, cazzo.»
«Perché ti vergogni di queste emozioni?»
«Non è tanto quello. È che dovrei raccontarti un episodio privato.»
«Non voglio che mi racconti i dettagli, se non vuoi. Ma non puoi parlarmene neanche in generale? In modo vago? Per farmi capire?»
Nico rifletté. «Dovrei usare delle parole che... che mi dà fastidio usare.»
«Tipo?»
«Se ti dico che mi dà fastidio usarle?» sbottò Nico.
Raffaele alzò le mani. «Ok, ok, scusa.» Poi sospirò, triste come non mai. «È destino che non capisca, quindi.»
Nico provò una pena immensa per lui. E fu quella pena che gli diede il coraggio di parlare. «È amore, ok? È amore quella parola. Che odio usare.»
Raffaele sorrise. «La felicità è l'amore. È una risposta così semplice e così vera.»
«Sì. Ecco. Io la felicità più grande della mia vita l'ho provata un giorno in cui pensavo... che lui... cioè... hai capito.»
«Che lui ti amasse?»
Nico annuì, a occhi chiusi perché si vergognava. «E io... anche.»
«Che belle parole, Nic.»
Nico riaprì gli occhi, perché si era accorto che la voce di Raf era spezzata. Aveva gli occhi lucidi. Lo vide deglutire. «Amare e essere ricambiati. Trovare la felicità in questo. Era anche una bellissima massima di George Sand.»
«Ma è una felicità stupida.»
«Perché lo dici?» chiese Raf, sorpreso.
«Perché è una felicità che dipende da un'altra persona. E se non la trovi una persona che ti ama? E se non la trovi una persona da amare? E se la perdi? Sei destinato all'infelicità? No!»
Nico ripensò a quel giorno. Il giorno in cui aveva detto a Leo quelle parole che non riusciva più a pronunciare. E non riuscire a pronunciarle gli faceva sembrare di non riuscire più neanche a provarle.
Chiuse gli occhi. Parlò ancora. Si sentiva stranamente in vena di parlare.
«Io quel giorno, quella felicità, la più grande felicità della mia vita, l'ho anche persa. Me la son vista sparire da sotto gli occhi, distrutta, in un secondo. E la distruzione è stata centomila miliardi di volte peggio della felicità in sé, cioè, il dolore che ho provato. E se c'è il rischio di provare questo dolore, no, no, no, allora non la voglio una felicità così.»
«Nic, vuoi...»
«No, non voglio essere più specifico.»
Raffaele rimase in silenzio.
«A me basta una felicità meno intensa, più solida» proseguì Nico. «Come realizzare il mio sogno col tennis, ad esempio. Quello dipende solo da me ed è difficile che qualcuno riesca a distruggermelo, dopo che l'ho ottenuto. Ecco. Forse la risposta che cercavi è questa. Trovati un sogno e fai di tutto per realizzarlo.»
«E se non riesci a realizzarlo?»
«Ci provi ancora. E se non ci riesci proprio, almeno ci hai provato e non hai niente da rimproverare a te stesso. E secondo me anche quella è una cosa che ti può dare soddisfazione. Che ti può dare felicità.»
«Come sei saggio, Nic.»
«Quando dici questa cosa, mi sembra sempre che mi stai prendendo per il culo.»
«Ti giuro di no.»
Nico abbassò la testa, imbarazzato. Non avrebbe saputo cos'altro aggiungere, e fu risvegliato, dopo qualche secondo di imbarazzo, da un acuto «Uh!» di Raffaele.
Nico alzò la testa, e Raf stava indicando qualcosa alle sue spalle. «Guarda! In quel bar hanno un sacco di flipper! Andiamo a fare una partita?»
Nico roteò gli occhi. «Eddai, per favore, avrò avuto dodici anni quando ho giocato l'ultima volta a flipper.»
«C'è anche il biliardino! Dai, andiamo!»
Le proteste non valsero a nulla. Entrarono nel bar, ordinarono due Coche ghiacciate e si misero al flipper. C'era una bella luce ambientale azzurra e soffusa, nel locale, e i flipper erano tanti accenti dai colori caldi in mezzo a quel mare uniforme.
«Sai che ne ho uno a casa? Ti distruggo!» annunciò Raf.
«Un flipper vero? Grande tipo questo?»
«Sì! Me l'ha regalato mio papà quando ho compiuto dieci anni.»
«Ha i danè, il signorino» commentò un avventore del bar.
«E va be', ma allora cosa ci giochiamo a fare?»
«Ma questo è diverso, dai! Quant'è una partita? Cento?» Raf infilò cento lire nella fessura e il flipper si accese, mille lucine rosse e gialle iniziarono a rincorrersi evidenziando i bersagli, e la pallina cadde sulla molla.
Raf la fece schizzare in gioco e iniziò a flippare le alette come un indemoniato. Era bravo davvero, si vedeva che aveva dimestichezza col gioco. Tanto che intorno a lui si formò un piccolo pubblico di adulti e ragazzi. Il rumore della pallina e degli effetti sonori si mescolava alla musica del locale, rock americano suonato a volume non troppo alto. Si poteva parlare senza urlare. C'era davvero una bella atmosfera.
«Qual è il record di questa macchina?» chiese un tizio al barista.
«C'è scritto lì sopra!»
«Lo batto! Lo batto!» Raf era esaltato dalla sfida, fuori di sé dal divertimento. Ma poco dopo averlo annunciato la pallina cadde nel buco centrale, tra le due alette. Il punteggio segnava 15.236.
«Nah, lontanissimo. Il Carlo è arrivato a 28.340» commentò un ragazzo.
«Nic, tocca a te!»
«Ma io...»
«Eddai!» Raf lo spinse. Nico si ritrovò suo malgrado con le mani su quell'arnese.
La sua partita durò pochissimo. «Merda, proprio adesso che stavo prendendo mano!» Da piccolo, in realtà, era stato bravo con quel gioco, aveva detenuto, per un periodo, il record del bar di Capriva.
«E allora fanne una seconda!» Raf inserì altre cento lire.
«Ma tocca a te!»
«No, dai, tu avevi diritto a una partita di riscaldamento, visto che non ci giocavi da quattro anni.»
E cominciò la seconda. Nico era concentratissimo: mani sui pulsanti, pronto a scattare non appena la pallina arrivava a portata di aletta, i numeri salivano, salivano e salivano sullo schermo luminoso.
«Grande! Questo valeva mille!»
«Dai! Dai! Dai!»
«Occhio che cade di nuovo!»
Facevano tutti il tifo e Nico si stava divertendo un mondo. E quando alla fine superò davvero il record l'applauso lo frastornò al punto da farlo perdere pochi punti dopo.
«Ma come è possibile che dopo quattro anni che non giochi batti il record di giocatori di flipper rodatissimi?» chiese Raf.
«E chi ti dice che sono rodatissimi?»
«Lo siamo!» disse uno di loro.
«Però questo è un flipper nuovo, è arrivato meno di un mese fa, per quello il record è ancora così basso» disse un altro.
«Ecco, lo sapevo che non potevo essere davvero un fenomeno...»
Trascorsero in quel bar un'altra ora buona, forse due, e quando uscirono era passata da un pezzo la mezzanotte. Avevano riso, scherzato, bevuto Coca Cola, messo canzoni nel juke-box, giocato a flipper e biliardino (che Nic, a dire il vero, aveva sempre chiamato calcetto), sia uno contro uno che due contro due, con Nic e Raf ovviamente in squadra insieme, e in coppia avevano vinto quasi tutte le partite.
Si fecero dare le indicazioni per raggiungere una fermata dell'autobus che li potesse portare alla zona dell'hotel, quindi uscirono. Erano entrambi ubriachi di giochi e zucchero, si rimbalzarono l'un l'altro le imprese appena compiute e arrivarono in hotel ancora euforici.
Nemmeno la vista del padre di Nico riuscì a togliere loro l'allegria.
Bugia.
A Nico la tolse eccome.
Lo scioccò.
Non si aspettava di trovarlo lì, nella hall dell'hotel di Raf. Si era dimenticato di lui. Si era dimenticato anche di Leo. Per quelle due ore trascorse al bar Nico non aveva pensato più a niente, nemmeno al tennis, c'erano stati solo lui, Raffaele, i flipper e il divertimento.
«Lo sapevo che eri qua» disse il padre. Ma stranamente non sembrava arrabbiato. Sembrava un monaco nell'atto del sacrificio, votato a una causa ascetica. Aveva le occhiaie e sembrava spossato.
«Cosa vuoi?» chiese Nico.
«Che andiamo a casa.»
«Io a casa non ci voglio tornare» disse Nico. Ed era vero.
«E dove vuoi andare, cocâl?»
«Mi ospita Raffaele a Roma, per un periodo.» Nico non lo pensava davvero, lo aveva detto solo per temporeggiare. Non voleva davvero andare a casa di Raf. Sarebbe stata una follia. Raf in quel momento era alla reception, se avesse sentito quelle parole si sarebbe messo in testa chissà quali speranze.
«Non ti lascio qua, sei mio figlio, non ti abbandonerò mai» disse con la faccia dura, stanca.
Resterà mica tutta la notte qua nella hall? Pensò.
«Nic, non ti far intristire da quello stronzo, ti sta solo facendo pressioni psicologiche per farti sentire in colpa» disse Raf tornando dalla reception con la sua chiave.
Nico cercò di scacciare il pensiero. «Hai ragione.»
«Oggi è una giornata di felicità! Dobbiamo restare felici!» lo incoraggiò con un gran sorriso. «Andiamo in camera!»
«Non ti abbandonerò mai» disse di nuovo il padre alle loro spalle, mentre andavano verso gli ascensori.
«Sai che sono stato più contento di vincere a biliardino con te stasera che di vincere il torneo domani?» disse Raf, chiamando l'ascensore.
«Esagerato» disse Nico: tra le altre cose che aveva dimenticato c'era la finale che l'indomani Raf avrebbe dovuto giocare. «Dai per scontato che vinci, domani?»
«Ovvio che vinco» disse lui con una finta espressione saccente. Poi sorrise, sorrise a Nico. Che sorriso splendido, che aveva. «Sono felice. Ed è tutto merito tuo: mi hai fatto felice, Nic! Tu sei felice?»
Nic sorrise anche lui, infine, ammaliato da quelle parole. «Sì, mi sono divertito un sacco!»
Entrarono in ascensore. «E allora eccola la soluzione al mio problema! Vieni a vivere da me e giochiamo a flipper da mattina a sera! E saremo felici per sempre!»
Nic rise, ma la sua risata si spense quando si rese conto che Raf lo diceva sul serio. «Raf, non si può passare la vita a giocare.»
«Perché no?»
«Perché è una cosa senza scopo, fine a se stessa, non ti lascia niente. È una cosa che va bene da fare una volta ogni tanto, ma se la fai ogni giorno poi finisce che ti annoi e non ti rende più felice.»
«Anche giocare a tennis, allora.»
Nic rifletté su quelle parole, per tutto il resto della salita. «In un certo senso sì» disse quando le porte si aprirono. «Allenarsi è noioso, dopo un po'. E faticoso, non ti diverti mentre lo fai. Ma ha uno scopo, no? Ha lo scopo di migliorare per poi vincere. Ed è lì che nasce la felicità.»
«Anche a flipper si vince.»
«Sì, ma non puoi mica farlo diventare un lavoro...»
«Tommy lo faceva.»
«E chi è Tommy?»
Raf aprì la porta della camera. «The pinball wizard! Il protagonista di un album degli Who. Diventa un campione mondiale di flipper, tipo.»
Nic fece una smorfia. «Un album? È una storia inventata, immagino. Dai, non puoi passare la vita a giocare a flipper. Mi sembra assurdo che mi stai facendo discutere seriamente questa cazzata.»
«Non è una cazzata, è un'idea geniale. Perché possiamo evitare di romperci le palle trovando ogni giorno un gioco diverso!»
Nic scosse la testa. «E passiamo così tutta la vita?»
Raf si tuffò sul letto di schiena, a braccia e gambe aperte. «Sì! Finché morte non ci separi!»
Nic cercò di sorvolare sull'allusione matrimoniale e forse anche sessuale. «No, Raf. No.»
Raf si tirò su coi gomiti. «Ma perché no, se è una cosa che ci rende felici? Che ci fa stare bene?»
«Anche farsi le seghe è bello, passi forse tutte le giornate a farti le seghe?»
Raf ridacchiò. Si mise seduto. «Be', me ne faccio parecchie...» Si fece serio. «Però... Sì, dopo che me le faccio mi ammoscio sempre. Non solo in quel senso, ahah! No, intendo, mi ammoscio perché mi pare di aver fatto una roba senza senso che non mi ha cambiato la vita.»
Nic sedette sul bordo del letto, cercando di tenersi lontano da Raf. «Esatto. Vedi che capisci? Io ho avuto un periodo che ero diventato ossessionato» confessò. Quella sera si sentiva proprio in vena di confessioni. Che avesse davvero trovato un amico in Raf? Era questo che significava la parola "amico"? Qualcuno con cui ci si sentiva a proprio agio a parlare di cose personali? Nemmeno Leo sapeva così tante cose private di lui. «Era diventata una specie di droga, ero dipendente in un certo senso. E mentre lo facevo ero contento, stavo benissimo, mi sembrava di non volere altro dalla vita. Capisci?»
Tutto a un tratto l'espressione di Raf si fece quasi ansiosa. Annuì con vigore.
«Poi però dopo mi sentivo sempre vuoto e squallido, mi sono reso conto che era una dipendenza e ci ho dato un taglio, una regolata. E dopo che l'ho regolato sono stato molto meglio.»
Raf si avvicinò a lui gattonando sul letto, gli sedette accanto. «Nic, tu sei proprio la persona giusta per me. Sei il ragazzo perfetto.»
Nic si voltò per non guardarlo. «Eddai, non sparare cazzate, adesso.» Cosa intendeva dire Raf? Il ragazzo perfetto? Quelle parole lo turbarono. Lo accaldarono.
Raf prese Nic per un braccio e lo tirò un po', come per farlo girare. Quando Nic lo fece, l'altro lo prese per le spalle, strinse forte la presa. Aveva gli occhi spalancati, brillavano alla luce calda dell'abat-jour, e sulla sua bocca era disegnata la curva di un sorriso. «Nic! Io e te siamo uguali!»
«In... in che senso?» chiese Nic, un po' frastornato.
«Nel nostro cuore battono le stesse emozioni!» disse Raf in tono sempre più enfatico, con gli occhi sempre più sgranati. Scosse un po' Nic per le spalle. «È per quello che sono felice con te! È per quello che stiamo così bene insieme!»
«Ma cosa dici?» mormorò Nic, confuso, spaventato da quelle parole, il cuore che batteva sempre più veloce.
«Perché siamo uguali, dentro. Sotto la nostra pelle ci sono le stesse passioni, gli stessi sentimenti!»
Cosa sta cercando di dirmi? Nic ripensò a tutte le allusioni delle giornate precedenti, e si fece di nuovo strada quell'idea: mi sta dicendo che è gay anche lui?
Le stesse passioni: è questo che significa?
«Puoi parlare più chiaramente? Perché dici sempre queste frasi ambigue?» gli chiese.
«Non sono ambigue!» protestò lui, continuando a tenerlo stretto. «O forse sì. Ma io ho paura Nic, ho paura e mi vergogno di me stesso.»
Nic si sentì vicino a lui come mai si era sentito, perché anche lui aveva provato quella stessa vergogna, la sensazione di essere sbagliato. «Non devi vergognarti!» lo incoraggiò.
«Vuoi restare con me, Nic? Ti prego! Resta con me per sempre!»
Nic era perso negli occhi verdi di quel ragazzo quasi sconosciuto, ma che per qualche ragione gli sembrava di conoscere da sempre. Due occhi che lo imploravano, lo bramavano.
«Io...»
Raf si avvicinò un po' a lui. «Vieni a Roma con me. E non giochiamo, no, hai ragione. Alleniamoci. Troviamo la felicità nel tennis insieme.»
«Mi piacerebbe...» cedette Nic. «Ma...»
«Ti prego Nic, ho bisogno di te.»
Nic si rendeva conto, o meglio, una piccola parte di lui si rendeva conto che quelle parole erano esagerate, fuori luogo per un ragazzo che lo conosceva da così poco. Ma erano così sinceri, i suoi occhi, così veri e profondi, così sofferenti.
E per un attimo dimenticò Leo, dimenticò se stesso e tutte le sue paure. Dimenticò Leo, soprattutto. Per un attimo Nic decise di lasciare da parte la ragione e la morale e abbandonarsi al suo istinto. «Va bene» sussurrò.
Raf sorrise, e quel sorriso fu un premio, una scossa al cuore di Nic. «Davvero?» gli chiese Raf.
«Sì!» Lasciati andare, Nic!
Raf strinse ancor più la presa. «Oh, Nic! Che bello! Questo è il giorno più bello della mia vita!»
E Nic, sentendo nel cuore di nuovo quella felicità che già una volta aveva provato, decise di seguire il suo istinto, quell'istinto che non stava mai ad ascoltare.
Prese il viso di quel ragazzo, che invece l'istinto sembrava seguirlo anche troppo, e lo avvicinò al suo per baciarlo.
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Note 🎶
Ho un solo commento per questo capitolo: 😱😱😱
Ci rileggiamo lunedì, per sapere come va a finire questa scena. E lasciatemi una stellina per tutte le volte in cui Nico si è chiesto se Raf è gay.
E lasciatemela anche perché... ma non siete contenti di vedere finalmente qual è l'origine di questa canzone che ha avuto un ruolo tanto importante in Play? Ed è solo l'inizio...
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