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34. Vorrei che mai nessuno al mondo potesse rubarti

Vorrei che mai mai mai mai
mai nessuno al mondo mai
potesse rubarti,
portarti via lontano

(E. Bennato, Una settimana, un giorno, 1973)

«Mi è venuta una fame pazzesca. Non è che possiamo mangiare qualcosa prima di andare?»

Quindici minuti a riflettere sotto la doccia e quella scemenza fu tutto ciò che riuscì a farsi venire in mente Nico per guadagnare un po' di tempo col padre.

E non funzionò.

«Ti prendi un camogli in Autogrill. Andiamo.»

Nico tentò una mossa disperata. «La contessa di Montefalco ci ha invitati a pranzo.»

«Non mi interessa ed è tardi per il pranzo.»

«È una specie di pranzo merenda. Cioè. Uno spuntino. Non puoi dirle di no. Ci mettiamo un'ora e ripartiamo.»

«È tardi.»

«Ti prego.»

«Vedo che hai cambiato veloce idea. Stai con quel contessino, adesso? Ti piacciono capelloni, eh?»

«No.»

«Pensi che ti credo?»

Nico non seppe cosa rispondere. Che senso aveva rispondere?

«Sono uomo anch'io, sai? Lo so come funzioniamo. Se abbiamo la possibilità tacconiamo. Il tuo slavo, là, uguale. Son sicuro che prima o poi lo trovi insieme a qualcun altro. Sicurissimo.» Un sorrisetto perfido distese le sue labbra. «Che schifo. Che schifo.»

«Stai parlando di te stesso? Ti fai schifo da solo?»

A Nico arrivò un colpo di mano sulla testa dal padre. Una specie di schiaffo, ma non fu forte e fu talmente rapido che nessuno dei clienti del bar diede segno di averlo notato. Il padre si stava trattenendo, Nico ne era certo: aveva ricevuto schiaffi molto più violenti di quello. Quindi lo sapeva anche lui che gli schiaffi erano sbagliati, si vergognava a mostrarsi violento in pubblico. Quel colpo incerto ne era la prova.

Nico quindi si arrischiò a insistere. «Io non sono un traditore» mormorò cupo. «Tu, forse. Io no.»

Il padre alzò di nuovo la mano, Nico incassò la testa tra le spalle, ma la sberla non arrivò. Il padre rimase con la mano ferma a mezz'aria. «Ti raddrizzo, prima o poi! Oh se raddrizzo! E adesso andiamo.»

Il padre si alzò, ma si bloccò interdetto da delle grida. Era Raffaele. «Ho visto tutto! Tutto, brutto stronzo di un Bressan!»

Stava salendo di corsa le scale, in tenuta sportiva, sudato. Lo spiazzo dove gli atleti facevano scatti e allungamenti era poco distante da lì, visibile dalla terrazza interna del bar, tutta circondata da vetrate, la terrazza dove Nico e suo padre erano seduti. Se Raffaele si era accorto di un gesto tanto rapido come quello schiaffetto, doveva averli tenuti d'occhio con grande attenzione, da là sotto. Andò verso il padre di Nico con il dito indice puntato in avanti. «Questo è maltrattamento di minore! Se io la denuncio...»

«Sempre a minacciare denunce, tu, viziato che non sei altro.» Si rivolse a Nico. «E tu mi hai rotto i coioni. Andiamo. Adesso.»

«Lei non va da nessuna parte! La segnaliamo immediatamente alla direzione del circolo!» sbraitò Raffaele. «Ci sono testimoni!» aggiunse indicando intorno a sé, ma gli altri clienti osservavano la scena con espressioni stranite.

«Un secondo di più in questo posto di damerini e ti sputtano davanti a tutti. Adesso.» disse gelido il padre, guardando il figlio negli occhi.

«E se lo fai io ti denuncio» rispose Nico.

Il padre rise. «E come? Con quali soldi? Ah, con gli avvocati del contessino viziato, qua? E per cosa? Perché dico la verità? Perché penso al futuro del mio unico figlio maschio?»

Nico decise di dire tutto: «Gli avvocati dello studio Novelli hanno già preparato una lettera di diffida per te. Stasera ti arriva. Se dici anche solo mezza parola ti porto in tribunale.»

«Dove aggiungiamo anche l'accusa di maltrattamento di minori» si intromise Raffaele.

Il padre rimase in silenzio per una manciata di secondi, con l'aria di chi non credeva alle proprie orecchie. «Ma cosa cavolo state dicendo? Siete due bambini e non sapete di cosa state parlando. Non farmi perdere la pazienza. Stai giocando col fuoco, Nico!» Le parole del padre erano aumentate di volume a ogni parola.

«Non stiamo scherzando. Ho parlato al telefono col padre di Raffaele. Uno dei suoi avvocati ha già scritto una lettera di diffida, te la farà avere via telefax entro il tardo pomeriggio. Se dici anche solo mezza parola ti porto in tribunale.»

«Questa roba è meglio di una telenovela» fu il commento di un avventore del bar, un giovane tennista che osservava la scena insieme a un gruppetto di coetanei. E non era il solo. Anche diversi adulti stavano curiosando. Nico se ne rese conto solo sentendo quella frase.

Il padre, all'improvviso, sembrò in imbarazzo. Guardò a destra e sinistra con aria incerta. «Tu sei diventato completamente matto. Fûr di cjaf, tu sês! Apri gli occhi, Nico! Non tu viodis che chist omp di miarde ti ûl partà vie da to famèe?» Aveva parlato in friulano, alla fine, probabilmente per non farsi capire. Non vedi che questo uomo di merda vuole portarti via dalla tua famiglia?

Anche Nico non amava essere ascoltato, osservato, e lì in quel bar c'erano sin troppi spettatori curiosi e invadenti.

«Andiamo fuori a parlare» disse Nico alzandosi. Infilò il giubbotto e il padre il cappotto. Sia il padre che Raffaele lo seguirono senza discutere, giù per le scale, lungo le vie del circolo, Nico identificò un'area semivuota accanto a un campo scoperto dove nessuno stava giocando.

Si rivolse per primo a Raffaele. «Non devi stare caldo, tu?»

«Mi sono già scaldato. Sto bene, non ho freddo. Tanto vinco uguale.»

Nico scrollò la testa. «Bon, fai come vuoi.» Poi si rivolse al padre. «Io non vorrei allontanarmi dalla mia famiglia. Sei tu che mi costringi.»

Il padre sembrava essersi calmato, ma aveva una luce cupa negli occhi. «E come ti costringo? Perché? Perché voglio farti smettere di perder tempo con questo sport per damerini? Maledetto il giorno che son stato a sentire le stupidaggini di tua madre che il calcio era troppo violento! È anche colpa sua se sei venuto su così!»

«Io voglio giocare a tennis e tu non puoi costringermi a mollare» ribatté Nico.

«E con che soldi hai giocato fino adesso? Quali soldi ti hanno pagato le lezioni? Il circolo, i viaggi ai tornei, gli hotel, le racchette, le scarpe, le corde... Pensi che sia una cosa dovuta? Vai a lavorare e pagatele da solo, queste cose, se vuoi tanto giocare a tennis!»

Nico rimase senza parole.

Non ci aveva mai pensato in termini di soldi. Ed era vero che l'aveva sempre vissuta come una cosa dovuta. Forse il padre su quello aveva ragione.

«Te le pago io» si intromise Raffaele.

Sia Nico che il padre si voltarono verso Raffaele. «Eh?» uscì di bocca a Nico. Il padre rimase zitto.

«Vieni a stare da me, a Roma, e ti pago tutto io. Con questo pezzo di merda non dovrai mai più averci a che fare.»

L'offerta mandò Nico nella confusione più completa. Cosa stava dicendo? Era impazzito?

Mentre Nico non sapeva cosa dire, il padre reagì. «Velu câ, bon di fà nîe! Bon dome di metiti tal cjâf ideis di miarde!»

Quelle parole ebbero il potere di risvegliare Nico dallo sbigottimento. «Parlagli in italiano, cafone!»

«Vuoi proprio che parlo italiano? Vuoi che sente proprio tutto tutto tutto quello che voglio dire?»

Nico abbassò un po' la voce. «Lo sa già che sono finocchio. Puoi dirgli quello che vuoi.»

Il padre ebbe per un attimo un'espressione oltraggiata, quasi scioccata. Poi aggrottò le sopracciglia e scosse la testa. «Va bene.» Si rivolse a Raffaele. «Va bene, allora. Parliamo chiaro. Cosa vuoi da mio figlio? Sai che tendenze ha e lo inviti a stare a casa tua?»

«Voglio essere suo amico.»

«Amico o troia?»

«Amico» ribadì Raffaele.

«Pensi che non ho capito che sei un finocchio?»

«Non lo sono.»

Il padre di Nico sbuffò. «E allora cosa vuoi da mio figlio?»

«Le ho già risposto. Voglio un amico.»

«Tu non lo conosci e lui non conosce te. Non sarò studiato come te e il tuo paparino avvocato, là, ma non sono un coione. Hai deciso che è tuo amico dopo un giorno che lo conosci? Ti dico io cosa hai deciso, tu: hai visto il merlo e hai deciso di approfittarti! Gli racconti chissà quali storie, gli metti in testa idee di merda per metterlo contro di me e sua madre, gli sventoli i soldi sotto il naso, vieni, vieni frocetto, vieni a stare da me, ti pago tutto io, ti mantengo, tu non devi darmi niente, tranne il culo, la vita, la dignità! Sei piccolo, tu, ma sei più furbo di lui!» 

Il padre si voltò verso Nico. «Apri gli occhi, cocâl! Niente è gratis nella vita! Soprattutto per questa gente qua, questi come lui! Per questi viziati che pensano che tutto è dovuto e che possono comprare tutto coi soldi, anche le persone.»

«Lei ha una visione del mondo davvero squallida» disse Raffaele in tono disgustato.

«Realista» lo corresse il padre.

Nico rimase in silenzio. Non era stupido e non era sprovveduto: non pensava le cose meschine che stava pensando il padre, credeva che Raffaele avesse semplicemente fatto una proposta folle, senza pensarci su davvero, spinto dall'emozione. Quando ci avrebbe riflettuto su si sarebbe reso conto anche lui che era un'idea senza senso, perché loro due, in realtà, non si conoscevano affatto, su quell'unico punto il padre aveva ragione.

Il padre, intanto, stava continuando a parlare. «Nico, io e tua madre siamo le uniche due persone in tutto il mondo che ti potrai sempre fidare. Siamo gli unici due che faremo sempre di tutto per te senza chiederti niente indietro.»

«Tranne gestire l'azienda di famiglia. Tranne lasciare Leonardo e smettere di essere finocchio. Tranne smettere di giocare a tennis.»

Il padre batté un piede a terra. «Io queste cose le voglio per te, per il tuo bene, lo capisci o no? L'azienda dovresti essere orgoglioso che te la voglio dare! Sei il mio figlio maschio, il nonno me l'ha data a me e io te la do a te, è il tesoro dei Sidìn! Il tennis è una perdita di tempo che ti mette in testa idee strane. E lo slavo di merda...» Il padre chiuse gli occhi, la sua bocca si distorse in una smorfia disgustata. «Ma che vita vuoi avere, Nico? Mi meraviglio di te... Senza donna, senza figli, a farti prendere per il culo da tutti... Non vedi che è una malattia? Devi guarire!»

«Lei è davvero una delle persone più disgustose che abbia mai conosciuto» disse Raffaele, prima che Nico potesse ribattere qualcosa. «Io credevo che i miei fossero due stronzi, ma me li sta facendo rivalutare. Adesso ho capito perché vuoi tanto scappare, Nic. Vorrei scappare anch'io al posto tuo. E anche se tuo padre pensa che ho secondi fini, ti giuro che non ce li ho. Vieni con me, ti ospito a casa mia, abbiamo stanze per gli ospiti, e mia madre è una che non si fa problemi. Ti ospito e ci alleniamo insieme, ti faccio diventare un professionista.»

Nico era sempre più allibito: quel ragazzo gli stava davvero facendo quella proposta assurda credendoci?

«Guardalo, come cerca di comprarti. E tu mi raccomando, bocòn di mona, vai, vai da lui e dimenticati in due secondi del tuo slavo scimunito.»

«Può venire anche Leonardo, se vuole, ospito anche lui.»

«Ma sei completamente matto?» gli chiese infine Nico. «Ma cos'hai nella testa? Ospitare me e uno che non conosci? E poi lui lavora, sai? Mica può permettersi di andare in giro quando e come gli pare! E anch'io ho da fare. A scuola come ci vado? E tua madre cosa dice? E mi conosci davvero, a me, poi? No! Ti prego, smetti di sparare cazzate senza senso.»

«Ah, per fortuna lo capisci anche tu che è un tolololo.»

«Non penso che sia stupido, solo ingenuo e un po' fuori di testa. Forse ancora immaturo.»

«Torniamo a casa, Nico. Non far patire quella povera donna di tua madre» disse il padre in tono più conciliante.

Anche Nico fu più conciliante. Ma non cedette. «No, papà. Non lo faccio per darvi contro ma perché voglio giocare. Io la lettera di diffida ce l'ho e non scherzo. Voglio giocare questo torneo e lo giocherò. E tu non dirai niente di me, in giro, altrimenti ti denuncio.»

Il padre fissò Nico a lungo, senza dire nulla. «Vuoi veramente giocare con le minacce legali? E gioca, allora. Però prima due cose voglio. Voglio parlare con sua madre o con suo padre. E voglio che tu chiami tua madre e lei dai tu il dispiacere e le dici cosa stai facendo. Che stai denunciando la tua famiglia. Vediamo se hai il coraggio.»

«Lo farò» acconsentì Nico.

«E io sto qua a Milano finché non perdi, e l'istante che perdi ti trascino via senza doccia e senza neanche cambiarti, torniamo a Capriva, ti brucio quella racchetta nel caminetto e non vedi più un campo da tennis finché sono vivo.»

Questo lo vedremo, pensò Nico.

Se solo qualcuno della Federtennis l'avesse contattato...

***

Il fax arrivò alla reception dell'hotel di Raffaele alle sei e venne portato nella camera della contessa, dove già erano presenti tutti: Nicolò, suo padre e Raffaele. E la contessa, che non era stata per nulla felice di dover parlare con il padre di Nico.

«Con permesso» aveva detto il padre entrando, circa un'ora prima.

«Mamma, c'è il padre di Nicolò Bressan, qua. Vuole parlare con te.»

Il padre si era guardato intorno, ostentando noia, ma a Nico era sembrata di notare una punta di soggezione per il lusso della stanza.

Poi il suo sguardo era caduto sulla Polaroid di Raf e Nico, che era ancora appoggiata al tavolinetto dove l'aveva lasciata Raf il giorno prima. «Hai dormito con lui qui?» aveva chiesto a Nico, disgustato, prendendola in mano.

«Come le ho già detto, io ho dormito con mia madre... vero mamma che ho dormito con te? E che Nicolò ha dormito da solo?»

La madre, appena arrivata da loro, aveva esibito la più grande impassibile faccia tosta rispondendo: «È vero. Perché se ne preoccupa? Mio figlio non è un omosessuale.»

«Lei non lo conosce per niente, a suo figlio» aveva ribattuto il padre.

Era seguito un litigio oltremodo imbarazzante per Nico, in cui il padre accusava la contessa di non essere capace di educare il figlio, in cui le chiedeva conto del marito, scopriva che erano divorziati, berciava contro la legge sul divorzio, berciava contro la morale deviata della gente di città. Poi aveva chiesto alla contessa di tenere il figlio sotto controllo, di impedirgli di mettere il naso negli affari di Nico e portarlo via dalla famiglia.

Nico aveva cercato più volte di intervenire per mettere fine al confronto, senza riuscirci.

La contessa si era mostrata seccata, annoiata, a tratti oltraggiata dall'ardire del padre, ma non lo aveva cacciato via. Ogni tanto si era rivolta al figlio accusandolo di trovarsi sempre «amicizie discutibili» e gli aveva detto: «finché le tue amicizie non rompono le scatole a me fai quello che vuoi, ma il prossimo genitore arrabbiato che ti porti a casa...»

La discussione fu, per fortuna, interrotta dall'arrivo del fax.

Gli avvocati dello studio Novelli avevano fatto le cose per bene: la lettera di diffida sarebbe arrivata a Capriva con una raccomandata qualche giorno dopo e il fax era stato inviato solo "per conoscenza".

Il padre la lesse con Nico che si teneva a distanza per timore di essere colpito.

Nico stava iniziando a rendersi conto che il suo timore era irrazionale. Era ormai diversi centimetri più alto del padre, era più giovane, più agile e la sua forza fisica era ormai paragonabile, forse persino superiore a quella del genitore: lo schiaffo che gli aveva tirato a Capriva, la notte dell'antivigilia, gli aveva fatto rendere conto di cosa era capace, e che si sarebbe potuto difendere, se l'avesse voluto.

Eppure ripensare a quello schiaffo lo faceva stare male. Lo vedeva come una cosa sbagliata e oltraggiosa e Nico non credeva che avrebbe mai avuto il coraggio di colpirlo di nuovo. Aveva solo paura di prenderle, come fosse ancora un bambino.

Il padre non diede in escandescenze. Anzi, sembrò quasi disinnescato da quella lettura. «Benissimo» disse. «E adesso alza il telefono, chiama tua madre e dille tutto. Tutto quello che hai detto a me e tutto quello che hai fatto.»

«Non qui» disse Nico. «Abbiamo approfittato anche troppo della pazienza della signora Farini. Torniamo in hotel.»

«Eddai! Perché non resti qui?» chiese Raf in tono capriccioso.

«Non ha più senso. Ho l'hotel spesato e mio padre mi ha detto che mi lascerà stare al torneo.»

Raffaele sbuffò. «Come preferisci. Mi dici il numero della tua camera così stasera ti chiamo?»

«Lei è proprio sicura che suo figlio non sia un finocchio?»

«Non si dice finocchio, si dice omosessuale» lo corresse gelida la madre. «O al massimo gay, come piace a loro definirsi. E non mi interessa cosa fa mio figlio nel suo privato.»

Il padre scosse la testa. «Madre degenere...»

Nico puntò l'uscita. «Andiamo, per favore. Ah...» Si voltò per un attimo verso Raffaele. «Camera numero quarantotto. Chiamami pure quando vuoi.»

Se ne andarono insieme, Nico e il padre, che aveva preso una stanza nello stesso hotel di Nico. Mentre uscivano ci tenne a precisare una sciocchezza. «Me lo potrei permettere anch'io, questo cinque stelle. Ma che senso ha? Il lusso è un vizio. Nel nostro hotel si sta benissimo.»

Nico non commentò, ma pensò che suo padre somigliasse molto alla volpe della favola con l'uva acerba.

In hotel il padre seguì Nico in camera sua, volle essere presente alla chiamata con la madre, che salutò Nico con un pianto, lamenti, rimproveri. Nico spiegò, o meglio, cercò di farlo, con lei che lo interrompeva ogni due parole.

Quando arrivò alla lettera di diffida, la madre scoppiò a piangere di nuovo. «Nico! Nico! Ma cosa ti ha messo in testa questa brutta gente! Metterti contro la famiglia! Non voglio che finisci su una cattiva strada, Nico. Non ti devi fidare di certa gente!» Blaterava frasi un po' sconnesse, singhiozzando.

«Ma non ti rendi conto di cosa stava facendo il papà?» le disse Nico. «Di cosa voleva raccontare a tutti? Di come mi voleva rovinare la vita?»

«Ma lo faceva per il tuo bene!» ribatté lei.

«No! Lo faceva perché è un prepotente, e io ho solo cercato di difendermi.»

«Nico, Nico... che ragazzo cattivo che sei diventato...» piagnucolò lei.

Cattivo? Io? pensò Nico. Ma rinunciò a discutere oltre, si lasciò sommergere dai suoi pianti e dalle sue lamentele. Ormai non gli facevano più nemmeno effetto. Si sentiva un po' crudele a pensarlo, ma ormai si era talmente abituato a vedere la madre sempre cupa, piagnucolosa e in atteggiamenti da vittima, che le sue lacrime gli scivolavano addosso come fossero una parte immutabile del carattere di quella donna, che era sempre più un'estranea per lui. Una donna che faticava a capire e che non capiva lui a sua volta.

Chiuse infine la lunga telefonata, col padre che lo guardava serio a braccia conserte. Era stato lì, in piedi in quella posizione per tutto il tempo.

Nico appoggiò la cornetta. Si alzò. «Sei soddisfatto?» Era teso. Temeva uno schiaffo o una percossa da un secondo all'altro. Ma non arrivò.

«Mi fai schifo, Nico. Dovrei lasciarti qua da solo a morire di fame. Ma per me la famiglia è troppo importante.» Andò all'uscita. «Ma ti raddrizzo. Vedrai se non ti raddrizzo» mormorò un attimo prima di chiudere la porta.

Nico si lasciò cadere sul letto. Sentì un desiderio irrazionale di piangere. Non era triste e non capì perché ne aveva voglia. Forse era semplicemente stress.

Non lo fece. Piangere non era dignitoso. Prese dei grandi respiri per calmarsi.

Si addormentò quasi senza accorgersene.

Si svegliò, tutto infreddolito, dopo un tempo imprecisato, col telefono della camera che squillava.

Aveva dormito con la luce accesa in una posizione strana, un po' storta, a pancia all'aria sul letto. Si asciugò la bocca perché si accorse di avere un po' sbavato.

Guardò l'orologio: erano le otto e quaranta.

Merda, devo ancora cenare...

Al telefono era sicuramente Raffaele, lo avrebbe sbolognato dicendogli che aveva fame e che il ristorante stava per chiudere.

«Ehi Nic! Come va?»

«Bene, mi ero addormentato...»

«Scusa se ti ho svegliato.»

«No, hai fatto bene, dovrei andare a cena.»

«Senti, hai preso tu la Polaroid con la nostra foto?»

«No. Ma ci possiamo sentire dopo? Come ti dicevo dovrei andare a cena, ho paura che chiuda il ristorante.»

Per fortuna Raf capì e lo salutò.

Solo per richiamare dopo trenta secondi, mentre Nico stava infilando le scarpe.

Sbuffò e alzò il ricevitore. «Eddai, ti ho detto che devo andare a cena!»

«Ti ho detto a chi?»

Leo!

«Leo! Sei tu! Finalmente!»

«Finalmente lo dico io, cazzo! Dov'eri? Perché non hai risposto ieri sera?»

«Leo, quanto mi sei mancato!» Nico non riuscì a trattenersi.

«Ti stavi divertendo con quel Raffaele, vero?» lo accusò Leo.

Nico cercò di ricomporsi. «No. È successo un casino. È arrivato mio padre a Milano. Son stato con lui tutta la sera a litigare e son tornato in camera tardi» mentì.

«Tuo padre? Cosa cazzo ci fa lì?»

«È venuto a portarmi via dal torneo, un casino. Un miracolo che sono ancora qua.»

«E a che ora sei tornata in camera, ieri?» chiese Leonardo, usando il femminile come era solito fare per non farsi scoprire da eventuali commilitoni pettegoli di passaggio. Nico capì subito, dal suo tono, che era una domanda trabocchetto: Leo doveva aver provato a chiamare a diverse ore.

A che ora suonano il silenzio, in caserma? cercò di ricordare Nico. Ogni tanto a Capriva, quando il vento tirava verso est, si sentiva la tromba della caserma di Cormons e a Nico pareva di ricordare suonasse alle ventitré.

«Non mi ricordo di preciso, tipo le undici o forse era addirittura mezzanotte» disse. «Mi sono addormentato subito dal nervoso e non ho visto l'ora.»

«E secondo te ti credo? Ho provato a chiamarti alle sei e mezza prima del rancio, pensavo bon, sarà ancora al torneo, poi di nuovo alle otto dopo cena, e ho pensato che magari eri a cena anche se era tardi, e poi alle otto e mezza e alle nove, e niente, niente, niente! E poi mi son fatto prendere in giro da tutta la camerata perché alle nove e cinquanta, tipo cinque minuti prima dell'appello della ritirata, son tornato fuori dalla camera e ho provato a chiamarti di nuovo e niente! Cazzo! Ero preoccupato! Mi stai raccontando una balla, eri con Novelli, vero?»

Nico sospirò. Quel resoconto gli aveva causato allo stesso tempo una stretta al cuore per la pena e un po' di rabbia per la gelosia asfissiante. «No. Ero con mio padre, ti ho detto.»

«E prima mi hai risposto come se avevi appena messo giù con qualcuno! Con chi avevi parlato al telefono?»

«Sempre con mio padre!» mentì Nico. «Ma non te ne frega niente che c'è qui mio padre?»

«E a te non te ne frega niente di me? Sapevi che ti chiamavo!»

«Leo, non dire così. Sai benissimo che me ne frega eccome, di te.»

«Non è vero! Ti ho visto come sei scappata via, in stazione! Come ti davo fastidio!» sputò fuori in tono amareggiato. «Adesso mi dirai una palla e che a quel Raffaele non l'hai neanche incontrata.»

«Incontrato, cojon. Il participio è concordato a Raffaele, non a me.»

«Non fare il... la professoressa! L'hai vista... visto o no a Raffaele?»

«Ma sì che l'ho visto, ovvio, gioca qua» ammise Nico. Gli sembrava inverosimile mentire su quel punto.

«Lo sapevo! Lo sapevo che non dovevi andare a Milano!»

«Ma a malapena ci ho parlato! Mi ha salutato, l'ho salutato, stop.»

«Non ti credo! Eri con lui, vero?» La voce di Leo era quasi in lacrime. «Io non ce la faccio... non ce la faccio di stare così...» mormorò.

«Leo, ti prego, non voglio parlare di Raf...»

«Raf?!» sbottò Leo in tono stridulo. «Lo chiami Raf?!»

Merda. Sono un idiota.

«Non lo chiamo io. Lo chiamano tutti così. Ho parlato con altri tennisti e lo chiamano Raf, e mi è venuto da chiamarlo così anche a me.»

«Sei una bastarda pezza di merda! Falsa! Falsa!»

«E tu fai il geloso senza motivo, cazzo! Ma perché non mi credi?»

«Non sono geloso! Sono solo incazzato che ti scopi altra gente alla prima occasione! Solo perché tu sei figo... figa e conosci gente nuova e hai occasioni! Alla prima occasione!»

«Ma cosa cazzo dici! Diobòn, ti prego, Leo... Questa telefonata poteva essere l'unica, singola cosa bella di una giornata di merda e mi devo sentire questi discorsi senza senso. Stai facendo tutto tu!»

«Ti avevo detto di non andare a Milano!»

«E io ti ho detto che questo torneo è una cosa importante! Ma tu sei un egoista di merda, sei sempre stato un egoista di merda che pensa solo a se stesso, e io mi ostino a voler stare con te non so neanch'io perché, forse perché sei l'unico finocchio che conosco, sì, forse è per quello.»

«Ecco... lo ammetti finalmente! Stai con me solo perché non hai altre possibilità meglio di me. Adesso che hai trovato la possibilità mi lasci» disse Leo con la voce rotta.

Nico si morse con violenza il labbro inferiore. «No, Leo. Scusa. Non è vero... te l'ho detto solo perché ero incazzato...»

«Se non è vero dimmi quella cosa» sussurrò.

Nico rimase in silenzio per diversi secondi. «Non ci riesco a dirtela. Non ci riesco più. Scusa. Io... vedo la faccia di mio padre che ci guarda e non ci riesco.»

«Perché non lo pensi più. Forse non lo hai mai pensato.» Il suo tono non era più aggressivo, era sommesso.

«Leo, non...»

Nico si interruppe.

Era caduta la linea. Leo aveva chiuso la chiamata.

Era davvero un ragazzo impossibile.

Note 🎶 

Il babbo di Nico per ora sembra disinnescato. Ci fidiamo?

Ma il problema principale, ora, è Leo disperato. Ha ragione a essere così geloso secondo voi?

Spero che questo capitolo bello lungo vi tenga degnamente compagnia fino a giovedì, e se vi è piaciuto lasciatemi una  stellina per ogni parcheggio che si trova a Roma sotto Ferragosto (ah, com'è bella Roma deserta a Ferragosto).

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