29. E un bel giorno dire basta e andare via
Andare via lontano
A cercare un altro mondo
Dire addio al cortile
Andarsene sognando
(L. Tenco, Ciao amore, ciao, 1967)
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Avviso: questo capitolo è rimasto pressoché invariato, ho cambiato solo una singola frase un po' "pesante". Metto il link alla versione originale per completezza, ma potete leggere anche questa.
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Nico si alzò in piedi, si asciugò le guance bagnate di lacrime.
«Nico... Ah, Nico Nico...» mormorava la madre nel suo solito tono piagnucoloso.
Nico si voltò di scatto verso di lei. «Nico Nico, cosa? Cosa c'è? Ti dispiace per me? Perché piangi?» le chiese in tono aggressivo.
Lei in tutta risposta pianse ancora di più. «Ero così contenta stamattina... eri così contento...»
«E adesso che delusione, invece, eh?» ribatté lui con la voce incrinata.
Lei lo guardò con gli occhi lucidi, portando le mani al cuore. «Nico, io non voglio vederti che stai così male!»
«Se ti dispiace tanto che sto male potevi aiutarmi a tirare fuori il libro, invece di cagarti sotto come...»
Nico fu interrotto da un violento schiaffo del padre.
La risposta non tardò ad arrivare e per la prima volta in vita sua Nico rispose alla violenza. Con il braccio allenato da anni di tennis, tirò a sua volta una sberla fortissima al padre.
Lo spostò. Lui si tenne la guancia, alzò la testa, sembrava sotto shock. «Brutto...»
Il nonno arrivò alla carica alle sue spalle, prese Nico per un braccio. «Jacum, cjapilu di là.» Il padre Giacomo obbedì, prese Nico dall'altro braccio.
«Tu non esci mai più di casa. Chiamo uno psichiatra e ti faccio rinchiudere da qualche parte finché non ti guariscono!» gridò il padre.
«Per tua fortuna queste cazzate non le fanno più!» gridò Nico cercando in tutti i modi di divincolarsi, mentre i due adulti lo trascinavano verso le scale che portavano al primo piano.
«Jacum, lassilu sta!» stava intanto implorando la madre.
Rumore di chiavi nella porta. Spuntò la testa della Grazia, che spalancò la bocca nel vedere la scena, padre e nonno che tenevano il figlio dalle braccia. «Ma cosa...?» pigolò.
Nico avvertì la presa del padre allentarsi. Quella del nonno non era altrettanto forte, era pur sempre un vecchio. Era il suo momento: con uno strattone violento si liberò, scattò verso la porta, la Grazia si fece da parte spaventata, e Nico uscì.
Corse.
«Là vastu?!» gridò il padre. «Fèrmiti!»
«Tu non mi vedi mai più!»
Corse. Corse come un dannato. Dove poteva andare? Da Leo. Era l'unico posto al mondo.
Al mondo siamo io e te.
La dedica. Quella dedica che lui aveva persino avuto il coraggio di disprezzare. Persa per sempre. Non avrebbe mai più riletto quelle parole, semplici e vere. E già non le ricordava con esattezza: spero che ti piaccia... spero che mi pensi...
«Nico! Nico, torne câ!» gridò la madre.
Non la ascoltò. Corse, corse e corse ancora, più veloce che poteva, nel buio pesto di una delle più corte giornate dell'inverno. Si buttò in mezzo ai campi. Le stradine ciottolate erano scure, non c'erano lampioni a illuminarle, solo una mezza luna e le prime stelle. Ci vedeva poco, ma sapeva dov'era la casa di nonno Goran. Era dopo la collina con la quercia. Dall'altra parte del crinale.
Il padre non lo inseguiva più, chissà fin dove si era spinto, ma Nico non smise di correre.
Solo rallentò, il fiato non gli avrebbe retto, a quel ritmo. Era allenato, però, e non si fermò mai. Passò sotto la quercia, le cui braccia secche si stagliavano nere sul blu della notte, puntò le luci delle casette che vedeva in lontananza, qual era quella di Goran? Al buio non ne era certo. Arrivò fin sulla strada, e la identificò da lì, con l'aiuto dei lampioni. Entrò in cortile, stremato, ed ebbe un'orribile sorpresa.
La Mercedes di suo padre.
Nico ebbe la tentazione di fare dietro front, ma poi pensò al povero Leo che stava affrontando da solo il padre. Si fece coraggio e bussò.
Aprì la porta Goran, con un'espressione cupa, e da dentro si sentivano delle grida. «Cosa hai fatto a mio figlio? Brutto bastardo! Brutto finocchio! Ti faccio passare io la voglia di fare il finocchio con le persone sbagliate! Rispondi!»
«Se tuo padre tocca Leonardo non so cosa faccio» disse cupo il nonno.
Nico non chiese nemmeno permesso, si fiondò in cucina, da dove venivano le grida. Vide il padre in piedi che faceva avanti indietro sbraitando, Leonardo seduto al tavolo della cucina, ancora in divisa, con la testa incassata nelle spalle e il viso rosso come il pomodoro sulla pasta non mangiata che stava davanti a lui.
«Papà, finiscila!» disse Nico.
Il padre si voltò, gli lanciò un'occhiata furibonda. «Lo sapevo che venivi qua!» disse, mentre già andava verso di lui con la mano alzata.
«Giacomo, per favore, ti ho detto che non voglio botte qua dentro» disse Goran in tono calmo, trattenendo il padre dalla giacca.
Il padre si fermò. «Bon. Le botte te le do appena usciamo, allora» disse rivolto a Nico.
Nico osservò Leo: sembrava devastato, aveva i gomiti sul tavolo e le mani sul viso. Il padre aveva probabilmente rivelato tutta la verità a nonno Goran.
«Scusatemi» disse Nico cercando di mantenere il più dignitoso contegno possibile. «Signor Goran, Leonardo: scusatemi. È colpa mia se mio padre ha portato questo casino in casa vostra, non avrei dovuto scappare di casa.»
«Tanto venivo qua lo stesso, cosa credi!»
«Non è colpa tua.»
Il padre e Goran si parlarono uno sull'altro.
«Nicolò, se vuoi stare qua stanotte ti metto un materasso vecchio per terra in camera di Leonardo» disse Goran.
«Pense ai tôi, di fiôi!» ribatté il padre di Nico agguantando il braccio di Goran.
«No sta tocjà me nono!» Non toccare mio nonno, gridò Leonardo alzandosi in piedi di scatto. Rimase però fermo dov'era, le spalle ancora tese, sembrava ancora spaventato e per nulla pronto a un confronto fisico.
«Un alcolizât, une putane e un storlòc bon dome di piardi bês a cjartis» disse acidissimo il padre di Nico, elencando i tre figli di Goran. Nico non conosceva i due zii, descritti come una puttana e un cretino capace solo di perder soldi a carte. Vivevano in altri paesi e Leo non ne parlava mai.
Goran non sembrò offeso da quelle osservazioni. «Non son stato bravo a tirarli su, è vero. Sei stato più bravo tu di me. La Fulvia ho sentito che è la più brava della scuola, all'agraria. La Grazia è una ragazzina tanto coccola, sempre col sorriso. E Nico è un ragazzo onesto che si dà tanto da fare, e ha tirato fuori Leonardo di una specie di depressione che io non sarei mai stato buono di tirarlo fuori.»
«Vergognati anche tu! Tu sapevi tutto e non gli hai dato neanche un patàf!» ribatté il padre. «Che famiglia di schifosi, mi fate schifo! Non voglio avere più niente a che fare con voi! Si sogna, quel tuo figlio sempre ubriaco che lo chiamo a vendemmiare, l'anno prossimo!»
«Puoi andare via anche subito» disse Goran indicando la porta.
Il padre guardò Nico. «Andiamo» disse, secco.
Ma Nico aveva paura. «No» ribatté.
«Vuoi stare qua? Benissimo. Non scomodarti a tornare a casa. Mai più.» Il padre uscì sbattendo la porta.
Nico si sentì mancare. Cosa aveva fatto? Cosa avrebbe fatto adesso? Non poteva stare per sempre a casa del nonno di Leonardo, tanto più che Leo sarebbe tornato a Barletta, dieci giorni dopo. Non aveva un posto al mondo dove stare. Come avrebbe fatto? Forse era meglio umiliarsi, uscire e seguire il padre.
«Nico, stai qua stanotte, domani vedrai che gli è passata» disse Goran, forse notando il turbamento sul volto del ragazzo.
«No... no che non gli passa» mormorò Nico con un filo di voce. Poi si voltò verso Leonardo, che era ancora in piedi, le mani appoggiate al tavolo, la testa bassa. «Leonardo, scusami.»
«Vaffanculo, Nico» mormorò lui. Poi, a testa sempre bassa, uscì dalla stanza. Nico udì le scale scricchiolare sotto i suoi passi pesanti: stava salendo al piano di sopra.
«Signor Goran... mi scusi... io... io le devo dire che mio papà ha capito male la situazione, io e suo nipote siamo solo amici» mentì, cercando disperatamente di salvare il salvabile. Non riuscì a guardarlo negli occhi, mentre lo diceva.
«Nico, non mi interessa» disse lui.
Nico si azzardò ad alzare lo sguardo.
Goran continuò a parlare. «Non son mica scemo. Avevo capito già che la vostra amicizia era strana. Avevo capito da come Leonardo parla sempre di te. Non ti posso dire che sono contento, perché io voglio il bene di Leonardo e queste robe non vanno mai a finire bene.»
Nico abbassò di nuovo la testa, sentendosi avvampare.
«Però io penso veramente quelle robe che ho detto prima. Che tu hai aiutato tanto Leonardo e se non c'eri tu chissà cosa succedeva. Allora anche se non capisco bene, mi va bene uguale. Hai capito? Non faccio domande, son contento se Leonardo è contento perché è un ragazzo buono che si merita di stare bene.»
Nico annuì.
«Hai cenato?» gli chiese Goran.
Nico scosse la testa. Non gli riusciva di parlare, tanto si sentiva a disagio.
«Vai su a chiamarlo, non ha finito di mangiare neanche lui. Rifaccio la pasta che quella là è diventata colla. Vuoi un po' di pasta anche tu? Il sugo è al pomodoro e lo faccio con le mie conserve, son robe genuine.»
Nico annuì. Gli uscì un «grazie» strozzato dalla gola e uscì dalla stanza.
Andò al piano di sopra, bussò piano, entrò in camera di Leonardo senza aspettare la sua risposta.
Lo trovò seduto sul letto che si teneva la testa tra le mani, una sigaretta da poco accesa tra le dita. «Vai via, per favore.»
«Leo, tuo nonno mi ha detto che l'aveva già capito.»
«Diobòn che vergogna, Nico. Non avrò mai più il coraggio di guardarlo in faccia. L'unica persona che mi voleva bene al mondo!»
«E io?»
Leo alzò la testa. Aveva gli occhi lucidi. «E perché non me lo dici mai, allora?»
Nico strinse le mascelle. Diglielo, pensò. Digli ti amo, cosa ti costa?
Ma non ci riuscì. Sarebbe stato fasullo, in quel momento, forzato.
«Ha detto che ci prepara una pasta al pomodoro» disse invece.
«Io non ho fame.»
Nico sospirò. «Va bene. Allora torno a casa.»
«E come torni? A piedi?»
«Son pur venuto a piedi fino qua.»
«Col buio?»
«Ciao Leo. Ci risentiamo quando stai meglio.»
«E cosa fai adesso? Come fai con tuo papà?»
«Non lo so!» sbottò Nico, alzando un po' la voce. «Sono in un vicolo cieco.»
Leonardo si alzò in piedi, mise la sigaretta su un posacenere. «Vieni qua, mona.»
Nico si avvicinò e Leo lo abbracciò. «Mi vergogno con mio nonno, non ce la faccio ad andare giù. Però non voglio che vai via. Resta qua.»
«Mi vergogno un po' anch'io. Però ci sta preparando la cena. Fatti coraggio e andiamo. Prima o poi ci dovrai parlare.»
Nico riuscì a convincere Leo e scesero. Il nonno non sembrava avere alcuna intenzione di parlare di ciò che era successo, chiese a Leo della sua vita in caserma, e Leonardo, all'inizio a fatica, ma poi via via sempre più disinvolto, raccontò cosa faceva, disavventure, piccoli aneddoti divertenti. Alcuni Nico li aveva sentiti quello stesso pomeriggio, ma li riascoltò volentieri.
La pasta era davvero buona, il pomodoro delizioso e ben cotto. Nico fece i complimenti a Goran. «Di secondo avevo preparato delle bistecchine, ma Leonardo mi ha detto che sei vegetaliano.»
Nico sorrise al piccolo errore, non lo corresse.
«Vuoi che ti faccio un uovo?» gli chiese. «Vuoi un pezzo di formaggio?»
«Un po' di formaggio lo mangio volentieri, grazie.»
«Posso chiederti una cosa personale, Nico?»
Nico sentì il formaggio bloccarsi nell'esofago. Deglutì. «Dimmi.»
«Tuo padre ti ha pestato?»
Nico mulinò la mano. «Ma non importa.»
«Io penso che ci son botte e botte. E se ti ha preso a botte per questa cosa non va bene.»
«In che senso ci son botte e botte?»
«Che se tuo figlio fa una cosa brutta allora un patàf va bene per fargli capire che ha sbagliato. Ma queste botte qua non sono botte per farti capire che hai sbagliato. Son botte di cattiveria, di rabbia. Son botte come quelle che dava Matteo a Leonardo, che non vogliono dire niente e uno le dà solo perché è incazzato.»
«Secondo me tutte le botte sono sbagliate, non esistono botte giuste» disse Nico.
Goran alzò le spalle. «Non so. Ma queste sicuro non son botte giuste. E se a casa tua hai paura che tuo padre ti dà altre botte, puoi stare qua quanto vuoi.»
«Il nonno ha salvato me e adesso salva anche te» commentò Leonardo.
«Grazie.»
***
Fine dicembre 1982
Nico trascorse lì la notte. Goran mise davvero un materasso a terra in camera di Leo, ma a metà notte Leonardo chiamò Nico sul suo letto con un sussurro e lui ci andò. Non fecero nulla, dormirono abbracciati.
Il giorno dopo fu la madre ad andare lì, in bicicletta perché non aveva la patente. Implorò Nico di tornare a casa, gli disse che lei lo aveva perdonato e rivoleva indietro il suo bambino. Disse persino a Leonardo che lo avrebbe perdonato se avesse lasciato tornare a casa Nico. «Io non lo sforzo di fare niente» ribatté Leo. «È Nico che vuole stare, e io son contento se sta.»
«Nico, ma è la vigilia di Natale! Non vuoi passare il Natale con la tua famiglia?»
Nico allora si tolse maglione e maglietta della salute e mostrò la schiena nuda alla madre. Si era guardato allo specchio, la sera prima, aveva un livido nero e persino qualche escoriazione dove il padre lo aveva colpito con l'attizzatoio. «Guarda cosa mi ha fatto il papà. Mi fa un male cane. Se torno me ne dà altre cento uguali. Ho troppa paura a tornare.»
«Ti aiuto io, Nico. Ti prometto che non ti fa niente.»
«Mi aiuti come l'altra sera quando ti ho chiesto di tirare fuori il libro dal fuoco? Se non hai neanche avuto il coraggio di tirare fuori il libro dal fuoco, come puoi avere il coraggio di difendermi?»
La madre pianse, insisté ancora, cercò di far leva anche su Goran, ma Nico fu inammovibile: sarebbe rimasto lì.
«E quanto resti?»
«Finché Leo è in licenza. Poi vediamo. Devo decidere.»
E fu così che Nico trascorse a casa di nonno Goran tutte le vacanze di Natale.
Visse alcuni attimi di gioia profonda. Trascorreva tutto il tempo insieme a Leonardo, dormivano insieme, facevano sesso ogni sera, in camera di Leo, ed ebbero modo di provare più di una volta la tanto rinomata "posizione numero sessantanove". Nico non rinunciò ad allenarsi, e ogni mattina faceva qualche chilometro di corsa insieme a Leonardo. «Non pensavo che avevi tanto fiato, con tutte le sigarette che ti fumi.» «Alla naja te lo fanno venire, il fiato, a forza di corse e flessioni.»
Ma non fu tutto perfetto. Stare con Leonardo da mattina a sera fece capire a Nico, con amarezza, quanto fossero diversi. Sentendosi al telefono per mezz'ora una volta a settimana avevano sempre qualcosa di cui parlare, ma con ventiquattr'ore su ventiquattro insieme gli argomenti finivano in fretta e le loro differenze emergevano. Nico cercava di parlare con Leo di qualche libro, raccontargli qualche trama che pensava potesse piacergli. Leo ascoltava, ma si vedeva che spesso si sforzava di farlo, tanto che a volte gli capitava di saltare a un altro argomento nel bel mezzo di un racconto, come se si fosse messo a pensare ad altro senza accorgersene. Nico ascoltava Leo volentieri, anche quando parlava di sciocchezze, ma spesso si trovava a biasimare la sua ignoranza, quando faceva qualche commento ingenuo su fatti di attualità o sparava qualche castroneria.
Ma Nico non disperava. Leo non era stupido e una passione l'aveva: la musica. Aveva già un po' di soldi da parte, per ricomprarsi la fisarmonica, e Nico sperava che quando avrebbe ricominciato a suonare, attraverso la musica anche la sua cultura e la sua intelligenza sarebbero migliorate. E la voglia di migliorare Leo sembrava averla: durante uno dei racconti letterari di Nico, Leo gli aveva persino espresso il desiderio di voler provare a leggere qualcosa: «Mi devi consigliare uno corto, magari, perché dopo un po' che leggo mi annoio sempre. Così poi magari trovo anch'io qualcosa che mi piace e non ti vergogni che sono ignorante.» E nonostante i dubbi, durante quei dieci giorni i momenti belli superarono di gran lunga quelli brutti.
Siccome viveva a spese dei poveri Leonardo e Goran, per ricambiare Nico si diede da fare in casa: faceva lui tutte le pulizie, lavava i piatti e aiutava Goran a cucinare. Goran ne sembrava contento: «Mi costi meno di una donna delle pulizie, e stavo pensando di assumere una perché faccio sempre più fatica a fare i lavori!» scherzò un giorno. «Quindi se vuoi restare anche dopo che Leonardo va via...»
Ma non l'avrebbe fatto. Non se la sentiva.
Né la madre né il padre tornarono più per riportarlo a casa, forse pensavano che trascorsi i dieci giorni di licenza di Leonardo, il loro figliol prodigo sarebbe tornato con la coda tra le gambe. Ma man mano che i giorni passavano, nella testa di Nico si formò un'idea diversa. La espresse a Leo la notte di fine anno, alle dieci e mezza, quando già cominciava a sentirsi qualche petardo isolato. Leo e Nico erano stesi a letto, sotto le coperte, dopo un rapporto molto dolce. Erano ancora stesi su un fianco, e Leo aveva usato un fazzoletto, per non doversi lavare subito e raffreddare uscendo dal letto.
«Il due tu parti, vero? È dopodomani.»
«Sì» rispose Leo. Gli accarezzò il petto con la mano con cui lo stava abbracciando. «Mi sono abituato troppo bene a farlo ogni giorno, non so come farò in caserma...»
«Ho deciso che il due parto anch'io.»
«Vieni a Barletta?» esclamò Leonardo, entusiasta.
«Ma no, scemo! E dove sto, a Barletta?» Nico si girò e si stese a pancia in su. «No, non ti ricordi che il tre comincia quel torneo di Milano? Avevo già comprato il biglietto del treno, dovrebbe essere ancora in camera mia, se mio padre non ha scaraventato tutto in giro e l'ha buttato via. Chiedo alla Fulvia di portarmelo.»
Leonardo si tirò su su un gomito e si fece cupo. «Quindi vai a Milano?»
«Sì. E do il tutto per tutto, mi faccio notare da un osservatore della Federtennis e mi faccio prendere in un centro federale. Così a casa non ci devo neanche tornare, e finalmente posso diventare un professionista.»
«Quindi rivedrai quel Novelli.»
Nico sbuffò. Leo si era fissato con quel ragazzino. «Sì, probabilmente sì, e probabilmente non si ricorderà di me. E anch'io mi ricordo a malapena la sua faccia, magari neanche lo riconosco.»
«Anch'io ho un'idea, Nico. Vieni a Barletta.»
Nico scosse la testa. «E ti ripeto: dove sto a Barletta?»
«In una pensione, te la pago io e ci vediamo ogni volta che sono in libera uscita.»
«Non hai i soldi per pagarla, so quanto è misera la paga naja, e mi hai detto anche tu che la spendi quasi tutta in sigarette.»
«Smetto di fumare.»
Nico rise. «Non ci credo neanche se ti vedo buttare un pacchetto nello spargher, che smetti di fumare.»
Leonardo si tirò ancora più su, prese il pacchetto che era appoggiato al comodino e lo lanciò via, in fondo alla stanza. «Tipo adesso mi andrebbe di fumare una. Vedi? Non la fumo. Smetto di fumare e ti pago l'albergo. E se non mi bastano i soldi naja, uso quelli che ho messo via per...»
«No!» lo interruppe Nico. «I soldi della fisarmonica non li tocchi!»
«Sono cazzi miei come uso i miei soldi.»
«Non voglio che li tocchi. Sei un musicista e sei stato anche troppo tempo senza suonare. Li stai mettendo via per ricominciare la tua vita da musicista e mollare il tuo lavoro di merda!»
«Non hai proprio voglia di venire a Barletta, eh?» sputò Leonardo in tono acido.
«Sinceramente? No! Primo perché dovrei dipendere da te e non mi va. Secondo perché cosa cazzo faccio tutto il giorno mentre tu stai in caserma? Terzo perché al torneo di Milano ci tengo.»
Nico omise di esprimere anche il quarto dubbio: che si sarebbe annoiato con lui. Che i momenti in cui emergevano le loro differenze culturali sarebbero aumentati anziché diminuire.
«Sì, vuoi andare a Milano dal nobile. Non hai voglia di stare col povero...»
Nico sbottò, forse in modo eccessivo. «Smettila di fare confronti idioti. Sei patetico quando fai così! Patetico! In che lingua ti devo dire che Novelli mi sta abbastanza sui coglioni? E per giunta è uno sbozzetto, ti pare che mi perdo dietro a uno di quindici anni che di fisico ne dimostra dodici?» Quell'ultima parte non era vera, perché per quanto fosse mingherlino si vedeva che Novelli aveva quindici anni.
«Cosa c'entra? Io quando ti ho puntato a te tu avevi quindici anni, uguale uguale.»
«Sì, ma io di anni ne dimostravo almeno sedici.»
Leo rise a quell'affermazione. «Ne dimostravi quindici. Eri alto così» disse portando la mano fuori dal letto e indicando un'altezza esageratamente bassa. «Ah, che bello che era! Mi piaceva essere il più alto. Sei diventato uno stangone. E non smetti di crescere, cazzo! Com'è che io a sedici anni mi ero già fermato e tu continui ad aumentare?»
«Quelli più intelligenti crescono più a lungo» scherzò Nico. Ma Leo se la prese a male e Nico passò una mezz'ora buona a consolarlo.
***
1 gennaio 1983
Chiamando un paio di volte a casa e mettendo giù quando rispondevano i suoi, Nico era riuscito a intercettare la Fulvia e le aveva chiesto di portargli il biglietto del treno. Nico lo aveva infilato dentro un libro e per fortuna era rimasto indenne dalla perquisizione di suo padre («Ha buttato per aria tutta la tua camera cercando foto, giornalini e cagate varie»).
Andò a portarglielo la sera stessa, insieme al suo borsone da tennis, con la scusa che andava a trovare delle amiche di Gradisca in macchina. Nel borsone aveva messo anche il Walkman: il padre l'aveva trovato nello zaino di Nico ma non aveva avuto il coraggio di rompere un oggetto tanto costoso, quindi per quei dieci giorni ne aveva preso possesso proprio sua sorella.
La Fulvia era dispiaciuta che Nico non fosse tornato a casa, e pensava che stesse facendo una sciocchezza, ad andare a Milano. «La mamma sa che domani Leonardo torna in naja e pensa che tu tornerai a casa, le prende un colpo quando non ti vede tornare. Nico: io ti dico la verità, non so se riesco a tenere il segreto. Mi fa troppa pena vederla piangere, perché so che lei ti vuole bene, a modo suo.»
Nico le concesse di dire alla madre che andava a Milano. «Tanto cosa cambia? Non voglio farla morire di crepacuore. Anche se penso che è una cagasotto.»
«Lei è una cagasotto? E tu che non torni a casa cosa sei?»
Nico si sentì toccato, ma ribatté: «È diverso, a me mi pesta, il papà, se torno a casa. E forse mi pesta anche il nonno.»
«E non pensi che magari anche lei ha paura di essere pestata?»
Nico non ci aveva mai pensato. «Il papà pesta anche la mamma?»
«No, perché lei è una moglie molto cattolica e molto ubbidiente. Ma forse ha anche paura. Il papà è sempre stato un tipo manesco. Forse qualche sberla l'ha anche presa, da ragazza, chissà.»
La discussione finì con la Fulvia amareggiata e Nico sempre più adamantino nella sua convinzione.
Leo aveva assistito a tutta la discussione, tenutasi nell'ingresso di casa, origliando dalla cucina. E poi parlò a monosillabi fino al momento di coricarsi.
Di notte, quando Nico cercò di infilarsi nel suo letto, Leo lo rifiutò e lo fece dormire sul materasso che ancora stava sul pavimento, e ce lo lasciò per una mezz'ora buona, prima di chiamarlo a sé nel buio della notte.
«Scusa Nico...» sussurrò. «Sono arrabbiato che vai via... ma non voglio neanche che dormi per terra l'ultima sera.»
Lo strinse. Si strinsero. Era tardi, quindi non si arrischiarono ad accendere la luce. Farlo al buio fu strano ma bello. Nico si concentrò sul tatto, sull'olfatto. Lo toccò con ancora più attenzione del solito. Lo fecero di nuovo stesi su un fianco
«Pensavo una cosa...» sussurrò Leo dopo un po'. «Dove dormi se passi i turni?»
«C'è l'hotel spesato, per i partecipanti.»
«Non ti credo. Dimmi la verità. Ti ospita quel Novelli, vero?»
Nico era esasperato. Aveva creduto che il sesso avrebbe messo il cuore in pace a Leo, invece stava continuando a macerare gelosia senza senso. «Ma sei scemo? Ma se non l'ho più sentito! C'è l'hotel, ti ripeto.»
«E lui dorme nel tuo stesso hotel?»
«Non lo so. Dai, smettila di fare il geloso senza motivo, per favore.»
«Vengo anch'io. Diserto.»
«Non dire monate. Poi ti arrestano.»
«Mi metto in malattia.»
«Ti servirebbe minimo un certificato di un ospedale che ti sei rotto una gamba o simile. Non è fattibile, Leo, dai.»
«Ma non vuoi proprio che vengo?»
«Ma magari se potessi venire! È solo che non è fattibile.»
Leonardo sospirò.
«E...» si arrischiò Nico, «ti volevo anche chiedere un piacere: visto che hai fatto la patente, mi accompagni a Cervignano con la macchina di tuo nonno domani mattina? Tu il treno ce l'hai di pomeriggio, no?»
«Sì, di pomeriggio.» Non rispose alla richiesta.
Nico insisté. «Allora? Mi accompagni o no?»
Leo sbuffò. «E va bene. Ma non mi fido per niente che sei lì da solo.»
***
2 gennaio 1983
Nico aveva già preparato il borsone da tennis coi suoi due completi e la racchetta, e uno zaino con dei vestiti di ricambio - quasi tutti di Leo e gli stavano un po' piccoli perché Nico era più alto. Il treno partiva alle sette meno cinque, avevano deciso di partire da Mossa alle sei e un quarto per stare tranquilli.
Ma alle sei e un quarto Leo era ancora seduto beato a fare colazione.
«Eddai, sbrigati! Non farmi perdere il treno!»
«Siamo in anticipo, fammi finire il caffè.»
Goran dormiva ancora, ma Nico l'aveva salutato e ringraziato la sera prima.
Dopo aver finito il caffè Leonardo si accese la prima sigaretta di giornata.
Nico andò su tutte le furie. «Ma allora lo fai apposta!»
«Grazie Leo che hai perso un'ora di sonno per accompagnarmi a Cervignano!» disse acido Leonardo.
«Dai, ti prego... sì, grazie, hai ragione, ma la sigaretta non potevi accendertela dopo?»
Leonardo la mise in bocca e con le mani libere infilò giubbotto e scarpe.
Presero la Panda di Goran e partirono.
Leo guidava pianissimo.
«Stai andando più lento di una femmina. Anzi no, mi correggo: mia sorella guida molto più spericolata di te. Mi vuoi proprio far perdere il treno.»
«E non romper le balle che Cervignano è vicinissima.»
Nico guardò l'orologio. «Sei e quaranta. Parte tra venti minuti e devo anche obliterare.»
«E tra cinque minuti siamo lì.»
I minuti in realtà furono dieci, ma arrivarono per tempo.
«Grazie Leo.» Nico lo abbracciò, gli diede un rapido bacio sulla guancia. «Dai, che quando torni dalla naja quest'estate poi scappiamo da qualche parte insieme, facciamo una vacanza! Ti va?» Aprì la portiera e fece cenno di scendere, consapevole di aver appena fatto una proposta impossibile.
Infatti Leo la ignorò. «Non mi piace che vai a Milano.»
Nico si fermò con un piede già fuori.
Si voltò verso di lui.
«Leo. Mi sto preparando da due anni per un'occasione come questa. Ho quasi diciotto anni e potrei non qualificarmi mai più per un torneo juniores nazionale. Se riesco a fare un buon risultato e gli osservatori della Federtennis mi notano forse mi prendono in un centro nazionale! È il primo passo per diventare professionisti, per realizzare il nostro sogno. Così poi ti porto in giro per il mondo!»
«Il tuo sogno, non il nostro.»
«Pensavo che volessi anche tu girare il mondo con la fisarmonica.»
Leo contrasse le labbra, storse la mandibola. I suoi occhi si inumidirono e Nico si rese conto che stava trattenendo delle lacrime. «E se quelli della Federtennis ti notano poi cosa succede? Vai via da Capriva e io resto solo?» disse con la voce controllata a fatica.
«Solo per un periodo, poi quando comincio a lavorare e fare tornei ti porto in giro con me. Leo, devo scappare, perdo il treno!»
«Non c'è nessuno, mi dai un bacio? Un bacio vero, non sulla guancia.»
Nico guardò il piazzale. Non era proprio vero, c'era qualche persona che correva dentro la stazione. Ma non sembravano badare a loro, perciò Nico si allungò verso Leo e gli stampò un bacio sulla bocca.
«Mi dici quella cosa?» disse Leo in un sussurro debolissimo, quasi inudibile.
«Perdo il treno, ci vediamo presto! Ci sentiamo al telefono!»
Nico scappò via. Gli sarebbe piaciuto dirglielo di nuovo, ma era ancora bloccato dal ricordo del padre che lo sentiva.
Un giorno, Leo, gireremo il mondo insieme, e tu sarai una persona più colta, e io forse avrò imparato ad amare la musica come la ami tu.
Gireremo il mondo e riuscirò di nuovo a dire quella frase, e te lo dirò da mattina a sera.
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Note 🎶
Milano arriviamo! Ma Leo non è affatto contento. E voi?
Secondo voi Raffaele ci sarà? E cosa succederà al torneo?
E quanto volete bene a Goran da 1 a 10?
Vi ricordate che nelle note del primo capitolo vi avevo detto che Ciao amore, ciao di Tenco sarebbe tornata? Eccola! E sappiate che ci saranno altri due capitoli in cui tornerà, uno a brevissimo, un altro parecchio, parecchio più avanti. È una canzone che scandisce la vita di Nico, mi sembrava molto appropriata visto che racconta di un ragazzo di campagna che scappa in città pieno di sogni.
Stavolta vi propongo la versione (italiana) di Dalidà, non all'altezza di quella di Tenco, ma comunque molto bella: ho un debole per i mezzosoprani.
https://youtu.be/WZ6vZEIA0rs
Ci rileggiamo lunedì e lasciatemi una stellina per tutte le volte che i ragazzi di naja si inventavano malattie per stare in congedo un po' più a lungo.
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