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20. Amore fai presto, io non resisto

Ma una volta in più che cosa può cambiare
nella vita mia?
Accettare questo strano appuntamento
è stata una pazzia

(B. Lauzi, L'appuntamento, 1970)

Avviso gaudente: in questo capitolo non ho dovuto censurare nulla! Yeee!

Inizio settembre 1981

Il motorino era sparito.

Nico non credeva possibile che suo padre l'avesse lasciato a casa del nonno di Leo. Probabilmente l'aveva rivenduto.

Leo non si era più visto né fatto sentire. Ma a Nico non importava, ancora serbava il ricordo bruciante della sua pavida fuga davanti al padre. Si era illuso di amarlo, ma come poteva amare una persona così priva di spina dorsale? Una persona che ci teneva così poco a lui?

Non aveva più neanche il tennis. 

Per le prime due settimane non ci era potuto andare. Troppe botte, troppo dolore fisico. Dopo due settimane aveva timidamente provato a chiedere a sua madre se poteva prendere la corriera per andare al circolo, ma era intervenuto suo padre con un no secco. «Come se non sapessi cosa vai a fare!»

Nico allora aveva chiesto se potevano accompagnarlo loro in macchina, se non si fidavano, almeno una volta a settimana, per allenarsi un po', ma il padre era andato su tutte le furie: «Vuoi farmi perdere un'ora di tempo? Io non ti lascio lì da solo per un'ora! Poi so cosa vai a fare!»

Nico era disperato.

Aveva saltato i due tornei a cui si era iscritto quell'estate e stava perdendo tempo prezioso. 

Aveva riflettuto tanto su ciò che gli aveva detto sua sorella: usa il tennis. Nico aveva sempre avuto qualche vago sogno di gloria riguardante il tennis, bravo com'era, ma si era fatto distrarre da Leo e aveva perso praticamente un anno. I ragazzi della sua età erano già avviati sulla strada del professionismo, già partecipavano a tornei junior, si facevano notare dai coach dei centri FIT. 

E lui era rimasto lì a farsi le seghe. 

Che suo padre l'avesse beccato da un certo punto di vista era stato un bene. Leonardo era una droga da cui Nico aveva bisogno di disintossicarsi. E si stava disintossicando. Aveva quasi smesso anche di masturbarsi. Il padre lo controllava troppo da vicino, insistendo per fargli lasciare la porta della camera sempre aperta e a volte entrando in bagno a sorpresa mentre si faceva la doccia.

Ma quel bastardo non era sempre a casa, e quando era fuori Nico lo faceva. Anche il dottor Visintin gli aveva detto che masturbarsi era normale e faceva bene al corpo e alla testa, se fatto con moderazione. Ed era così, quindi, che aveva ricominciato a farlo, con moderazione. Una volta a settimana, circa, raramente due. Aveva trovato un equilibrio. 

Ogni tanto ripensava alle parole di quel dottore, quel suo modo tecnico, asciutto di parlare di rapporti sessuali e masturbazione, come parti naturali della vita di un essere umano. Nico sapeva, purtroppo, di non essere del tutto normale, ma pensare alle sue pulsioni in termini meno sentimentali, meno passionali e più fisiologiche lo aiutava a normalizzarle.

Disintossicandosi da Leonardo aveva ricominciato a concentrarsi sul tennis. Per andarsene da lì.

Anche se il padre gli aveva impedito di andare al circolo, non aveva smesso di allenarsi. Appena il dolore per le botte e le ferite era diventato più sopportabile, si era fatto un programma: non aveva più le riviste di body building ma ricordava alcune delle routine di esercizio che aveva letto. E le ripeteva, usando le pese della bilancia per maiali al posto dei manubri che non aveva. Mangiava più uova e più proteina, e dopo quasi due mesi di allenamento iniziavano a vedersi i primi risultati: i suoi bicipiti erano un po' più grossi e anche le sue cosce avevano acquisito volume. Ne era felice: odiava le sue gambe secche e lunghe da bambino troppo cresciuto.

Non aveva trascurato la resistenza: ogni mattina si alzava alle sei e mezza e faceva un'ora di corsa. Siccome il padre non gli consentiva di allontanarsi da casa, correva come un ossesso in quegli ottocento metri di stradina che circondavano casa, giardino e orto.

La parte tecnica purtroppo era quella che aveva trascurato di più. Palleggiava contro il muro sul retro per allenare dritto e rovescio e aveva tracciato una linea col gesso all'altezza della rete per sapere dove buttare la palla, ma non era come avere un maestro col cestino e una rete vera. 

E poi allenava il servizio, nella braida che si trovava a duecento metri da casa sua. Suo padre all'inizio non voleva, ma considerando che affacciandosi dalle finestre del piano di sopra si riusciva a vedere il campo, si era arreso perché aveva capito che sarebbe stato quasi impossibile per Nico «andare in giro a fare porcherie.»

E quindi, metro alla mano, aveva tracciato i contorni di un campo regolamentare, piantato tre bastoni e tirato una corda all'altezza della rete. E via di servizi. Mirava a barattoli vuoti di palline e cercava di buttarli giù. Era il colpo che stava migliorando di più.

Per sapere le misure del campo e l'altezza della rete, aveva telefonato al circolo di Gorizia. Aveva parlato proprio con Maurizio, il suo allenatore, che si era detto preoccupato di non averlo più visto. Nico gli aveva detto la verità: «Sono in punizione e non so quando potrò tornare.»

A guardare gli allenamenti spesso c'era suo nonno.

Il nonno aveva saputo tutto. Un giorno, poco dopo il fattaccio, aveva apostrofato Nico per dirgli una singola frase: «Iò cun te no tabaj plui. Tu ses muart, par me.» Io con te non ci parlo più. Sei morto per me. 

Era una frase che non avrebbe dovuto toccarlo, lui non aveva rapporti con quel vecchio scorbutico.

Però lo toccò. Si vergognò al punto da provare il desiderio di piangere. Ma non pianse, e tenne la vergogna dentro di sé.

Nonno Giovanni aveva mantenuto la promessa. E nemmeno Nico gli parlava. Non lo salutava e faceva attenzione a non incrociare mai il suo sguardo.

Il vecchio però non aveva smesso di guardarlo. Quando tirava contro il muro in cortile. Quando correva intorno alla casa. Quando faceva servizi in braida.

Si metteva lì a braccia conserte e lo fissava senza dire una parola.

Le prime volte Nico si era sentito a disagio. Zuan in persona, il padrone del Luc di Zuan, controllava un estraneo, un morto che si aggirava nella sua proprietà. Tu sês muart, par me. Ogni tanto quelle parole riecheggiavano nella sua testa.

Ma ci si era in fretta abituato, a quel disagio, a quello sguardo duro e pieno di disprezzo. E adesso gli dava una strana forza. 

Il tennis era un gioco che si giocava davanti a un pubblico, e il pubblico spesso era ostile. Suo nonno era il suo personalissimo, speciale allenamento ai pubblici ostili. Era così che Nico aveva deciso di affrontarlo ed era così che lo stava superando.

Il dodici settembre, un imprevisto aveva interrotto anche i pochi allenamenti che riusciva a fare: gli si erano rotte le corde della racchetta.

Quella sera a cena Nico si presentò a tavola con la racchetta in mano.

«Cos'è quella roba?» chiese il padre in tono aggressivo.

«Mi si sono rotte le corde, potete accompagnarmi da Mreule a incordare la racchetta?»

«La racchetta non ti serve,  tu col tennis hai chiuso.»

«Se me la lasci te la porto io a Gradisca appena esco da scuola mercoledì» disse la Fulvia.

«Con quali soldi?» chiese il padre ostile.

«Coi miei che ho guadagnato andando a vendemmiare per i Turus.» Poi alzò gli occhi verso Nico. «Sempre che non costi cinquantamila lire...»

«No, mettimi quelle che costano meno, dovrebbe venire settemila, massimo ottomila. Sintetiche, no budello. Poi ti scrivo su un foglio la tensione.»

La Fulvia sospirò. «E io mi scrivo i soldi che spendo sul libretto dei debiti, eh!»

«Grazie!» Nico avrebbe davvero voluto fare qualcosa per sdebitarsi con lei, ma non sapeva cosa.

Anche per i Lupo Alberto. La Fulvia non li aveva più voluti indietro. Nico li aveva letti tutti e gli erano piaciuti molto. Aveva proprio ragione, sua sorella: quella storia era una satira perfetta,  provocatoria e anche divertente della mentalità ottusa di paese. Nico non avrebbe mai pensato potessero esistere persone che avevano una visione del mondo così aperta, ma ne aveva già conosciute tre: il dottor Visintin, sua sorella e Silver. Be', Silver non l'aveva conosciuto, ma esisteva. Nico era convinto che la maggior parte delle persone fossero ottuse e ostili come gli abitanti della fattoria di Lupo Alberto e come i suoi genitori, ma le persone amichevoli non potevano certo essere solo tre in tutto il mondo. L'idea che esistessero, da qualche parte chissà dove, gli dava speranza.

***

15 settembre 1981

Il primo giorno di scuola Nico si sentì gli occhi di tutti addosso.

Suo padre l'aveva accompagnato lì in macchina e sarebbe tornato a prenderlo all'una. Non si fidava di lasciarlo andare in corriera.

Non era possibile che gli altri ragazzi sapessero, di questo ne era certo. Suo padre si vergognava di ciò che Nico era e non l'avrebbe mai detto in giro, sarebbe stata un'onta troppo grande. Nico era abbastanza sicuro che non l'avesse detto neanche alla famiglia di Leo. Quanto a sua sorella, dopo quello che si erano detti non pensava si fosse messa a spettegolare in giro.

Nondimeno, si sentiva a disagio. Vedeva sorrisi di scherno dietro ogni saluto e sguardi di disapprovazione  ovunque.

Entrando nell'edificio, Nico lanciò un'occhiata a destra: in fondo al corridoio, svoltando ancora a destra, c'era il bagno dei bidelli.

No. Non ci andrò.

Nico era forte. L'aveva dimenticato, Leo. Non avrebbe ceduto a sciocche nostalgie.

***

«Bressan, al telefono.»

Seconda ora. C'era la prof di tedesco: chiacchiere, battute, come sono andate le vacanze... La Daiana aveva un nuovo fidanzato e lo aveva già annunciato ad alta voce a tutta la classe.

E nel bel mezzo dell'ora, quella bomba sganciata sulla sua testa. La signora Carmen, una delle bidelle, lo aveva chiamato fuori.

Bressan al telefono.

Non ebbe il coraggio di chiedere chi fosse davanti  a tutti. 

Si alzò in piedi, le mani sudate.

È lui. È ovvio che è lui!

Fece le scale di corsa, entrò in sala docenti, prese la cornetta in mano.

«Pronto?»

«Nico, non ce la faccio più.»

La sua voce era un sussurro, sentirla gli rese molli le ginocchia, lo costrinse a prendere una sedia. Eccola, la sua risoluta decisione di non averci più a che fare. Ecco che si sbriciolava non appena sentiva la voce di Leonardo. «Dove sei?» gli chiese. 

Si sentivano rumori meccanici, in lontananza.

«In fabbrica. Ho preso una pausa, sapevo che era il primo giorno di scuola. Non ce la faccio più. Se vado avanti così un altro mese non so cosa faccio.»

«Ma che cazzo dici? In che senso?»

«Linguaggio giovanotto!» lo ammonì la professoressa di un'altra sezione, che stava fumando una sigaretta leggendo il Corriere della Sera seduta al grande tavolo che dominava la stanza.

«Tuo papà non ha detto niente ai miei per fortuna. Ma è venuto qua in fabbrica a dirmi quattro, qualche settimana fa.»

«Che cosa? Non lo sapevo! Cosa ti ha detto?»

«Ma niente. Tipo: non sta fati viodi a Capriva, lascia stare mio figlio e roba del genere, sennò ti ammazzo.»

«Che stronzo...»

«Possiamo vederci Nico? Devo parlare con qualcuno e non so con chi parlare, perché... non posso mai dire tutto, io, capisci?»

Parlare... ecco una cosa che avevano fatto davvero poco, insieme. 

«Mio papà non mi lascia uscire da solo» disse Nico.

«Vengo a scuola. La prossima settimana ho turno il pomeriggio. Vengo di mattina e fai lippa e andiamo a fare un giro.»

Nico lanciò un'occhiata alla professoressa. «Mio papà mi accompagna a scuola.»

Silenzio. «Non riesci proprio a scappare in qualche modo? Tipo... non so, ti nascondi, aspetti che va via e poi esci di nascosto?»

Nico non poteva dirgli di no. Avrebbe corso il rischio. «Ok. Quando?»

«Facciamo lunedì?»

«Sì però...» Nico guardò la professoressa. Non poteva parlare con lei che ascoltava. Ma doveva dare qualche indicazione a Leo, quello era stupido e rischiava di farsi beccare da suo padre. «Senti, se chiamo in Delicia domani e chiedo di te, puoi venire al telefono?»

«Non mi puoi dire adesso?»

«No.»

Qualche secondo di silenzio. «Non so se il capo reparto mi lascia uscire.»

«Non puoi dire che vai  fumare una sigaretta?»

«Fumo mentre lavoro, mica posso fermarmi. Anzi devo tornare, adesso, sennò poi mi fa fare straordinari.»

«Allora ti chiamo lunedì mattina a casa tua.»

«Non a casa mia. A casa di mio nonno, vivo lì, ormai. Ma lunedì... non vuoi vedermi?»

«Sì, ma prima dobbiamo parlare.»

Leo sbuffò. «Madonna che difficile che sei sempre. Va bene, chiamami lunedì. Poi ci vediamo martedì, però?»

«Sì. Promesso. Ti chiamo a ricreazione. Undici e un quarto.»

«Ok.»

«Ce la fai ad aspettare?»

«Mi tocca.»

«Non... non fare stupidate, ok?»

«No, Nico, sono così contento guarda... non vedo l'ora che è martedì. Anzi non vedo l'ora che è lunedì e ti sento di nuovo.»

***

18 settembre 1981

Nico trascorse i giorni che lo separavano da lunedì con un macigno sullo stomaco. Non riusciva più a mangiare e faticava ad allenarsi. L'unico motivo per cui si costringeva ad allenarsi era che si sentiva in colpa con sua sorella che aveva sborsato 6800 lire di tasca sua per incordargli la racchetta.

Era stato bene, lontano da Leo, e appena era tornato nella sua vita tutto era precipitato di nuovo. La droga ricominciava a fare effetto.

La preoccupazione vinse sulla vergogna e venerdì chiese di nuovo aiuto alla Fulvia. Bussò in camera sua in un momento in cui suo padre era nei campi e sua madre impegnata in cucina. «Mi puoi fare un favore?»

«Non sono il tuo salvadanaio.»

«Non mi servono soldi! No, cioè, a parte magari un gettone del telefono. Ma te lo do io. Ti do due gettoni, puoi andare in cabina a fare una telefonata di nascosto?»

La sorella fece un sorrisino. «A chi?»

«Non fare quella faccia, per favore, non te lo chiederei ma sono preoccupato.»

La Fulvia si fece seria. «Cosa è successo?»

«Hai presente, uhm, Leonardo Devetak?»

Ovvio che ce l'ha presente, cocal!

La sorella si limitò ad annuire. 

Nico abbassò la voce e si guardò i piedi. «Mi ha chiamato a scuola martedì e mi ha fatto preoccupare. Mi ha detto tipo... se vado avanti così non so cosa faccio.»

«In che senso?»

«È quello che gli ho chiesto anch'io! Ma che discorsi mi fa, così al telefono in cinque minuti? Io gli ho detto che lo chiamo lunedì prossimo a ricreazione, da scuola, ma sono preoccupato, cazzo!»

«Ma non potevi chiamarlo già il giorno dopo?»

«No perché questa settimana aveva turno in fabbrica di mattina e mi ha detto che il suo capo non lo fa mai allontanare, invece la prossima settimana ha turno di pomeriggio quindi posso chiamarlo a casa da scuola. Capito?»

«Diobòn, Nico, ma non potevi dirmi prima? Vado subito. Ti ricordi il numero o devo cercarlo sull'elenco?»

«È a casa di suo nonno, adesso. Il numero non me lo ricordo, lo trovi sull'elenco di Mossa, Goran Devetak.»

La sorella era già arrivata alla porta, ma Nico la fermò. «Aspetta, tieni.» Si frugò in tasca e le allungò tre gettoni.

«Pensavo che il papà e la mamma non ti davano più soldi.»

«Glieli ho fregati» disse lui a voce bassissima.

La Fulvia rise. «Ganzo! Vado.»

«Digli solo che non faccia cazzate, che lo chiamo lunedì. Ah... e...»

«Non farmi dire cose romantiche che mi vergogno.»

Nico avrebbe voluto sprofondare. «Ma no, diobòn che schifo! Volevo solo dirti... puoi fare finta, tipo... che non sai niente... di tutta la storia. Cioè fai finta che pensi che... cioè... che non sai, capito? Non vorrei che poi si fa ancora più fisime.»

La Fulvia sorrise. «Cerco di fare la finta tonta e spero che ci caschi.»

«Non l'hai mai detto a nessuno, vero?»

«No.»

«Neanche alla Giovanna? O alla Sabri?»

«No, Nico. Sarò anche un po' pettegola, ma una roba così non la direi mai. Non ti odio e non voglio rovinarti la vita.»

Nico annuì. «Bon, vai allora. Grazie.»

***

21 settembre 1981

Leo stava bene. La Fulvia aveva detto che al telefono era sembrato molto contento. Arrivò finalmente lunedì e Nico trascorse le prime tre ore di scuola con la testa talmente nel pallone da meritarsi una nota sul registro per distrazione.

Uscì dall'aula tre minuti prima che suonasse la campanella delle 11.15, fregandosene delle proteste del prof di economia: non poteva rischiare di trovare la cabina del telefono occupata da qualche sfitinzia. Corse giù per le scale, infilò il gettone e compose il numero: quattro... sei... nove... quanto cazzo ci mette il nove a tornare indietro?

La linea diede segnale di libero. Leo rispose dopo un singolo tuuuu facendo scattare subito il primo gettone. «Ho solo due gettoni, dobbiamo parlare veloce» disse Nico.

«Son tanton contento che ti sei ricordato! Mi ha chiamato tua sorella sabato e...»

«Sì, lo so. Ascolta. Domani tu non venire per nessun motivo qua sotto scuola, ok? Aspettami in piazza Vittoria nella stradina che va su per dietro, via Rastello, presente?»

«Ma è lontano da scuola.»

«Son dieci minuti a piedi, dai, e son sicuro che mio padre non passa per quella strada per tornare a Capriva. Aspettami che arrivo. Potrei metterci un po' perché devo essere sicuro cento per cento che mio papà è andato via. E per venire lì farò un giro strano per essere sicuro che non mi vede nessuno, capito?»

«Diobòn, parli come uno che non ha mai fatto lippa in vita sua.»

«Infatti è così.»

«Sei veramente uno sfigato.»

«Uno sfigato che si sta facendo in quattro per vederti, stronzo.»

«Dai, cazzo, quanto sei permaloso. Mi... sono... sono contento, non ce la faccio più di lavorare. Ho bisogno di parlare.»

La campanella di ricreazione suonò in quel momento. «Non vedo l'ora di vederti, mi manchi da morire» disse Nico. Lo disse senza sentire la sua stessa voce, coperta dalla campanella. Quando il suono si fermò il secondo gettone era caduto e la linea si era interrotta.

***

22 settembre 1981

I viaggi in auto col padre erano sempre silenziosi, un silenzio ostile e pesante. Quel giorno il padre gli fece una domanda. «Chi è il tuo compagno di banco?»

«Giuseppe De Corte, lo stesso della prima e della seconda.»

Il padre annuì. «Oggi entro a parlare con la preside e le dico che ti mettano in banco con una femmina.»

«Papà, ti prego!»

«Non mi fido di te.»

Nico avrebbe voluto sbattere la testa contro il finestrino. La presenza del padre a scuola complicava tutto. Finché non se ne andava Nico non sarebbe potuto  uscire, ma se stava troppo tempo dentro rischiava che i prof lo vedessero.

Merda!

Parcheggiarono, il padre entrò a scuola con lui e Nico si vergognò come un ladro, avrebbero tutti pensato che era uno sfigato che si faceva portare in giro dal paparino. «Fammi vedere la tua classe» disse.

«Papà, ti prego...»

«Perché non vuoi mostrarmela? Cosa vuoi nascondermi?»

Nico sbuffò. «Bon, vieni.»

Salirono al secondo piano, varcarono la porta in legno della terza C. Per fortuna era presto e dentro c'erano solo la Gratton e la Stocchi, le due secchione della classe. «Ciao Nico» lo salutarono.

«Tu dove sei seduto?»

Nico indicò una coppia di banchi in seconda fila. «Quello sul corridoio.»

Il padre osservò la stanza, lanciò un'occhiata alle due ragazze, per fortuna senza dire niente. «Bon. Vado dalla preside. Ci vediamo all'una e cinque qua fuori.»

Il padre uscì. Nico appoggiò lo zaino sul banco e si prese la testa tra le mani. Come poteva fare? Non poteva uscire e rischiare di essere beccato. Ma suo padre chissà quanto ci avrebbe messo in presidenza! 

Capì in pochi secondi che la sua unica, rischiosissima possibilità di farcela era agire subito.

Infilò lo zaino in spalla e andò dalle secchione: ormai l'avevano visto e il rischio che spifferassero a un prof era molto alto. Tanto valeva provare a impietosirle. «Io devo uscire, adesso.»

«E quindi?» disse la Stocchi.

«Per favore, non dite a nessuno che mi avete visto.»

La Gratton rise. «Fai lippa?»

«Sì, tipo» ammise lui.

Risatina di entrambe. «Divertiti» disse la Gratton.

«Giurate che non dite niente!»

«Ma no, mona, perché dovremmo dire qualcosa? Vai veloce prima che ti veda qualcun altro!»

***

Nico scese le scale sul retro, quelle meno frequentate, terrorizzato all'idea di imbattersi in suo padre. C'era anche il rischio che il padre, dopo aver finito dalla preside, tornasse in classe a controllare ma gli sembrava un'eventualità remota.

E comunque non poteva fare altrimenti. Aspettare era fuori discussione, l'avrebbero visto altri compagni e professori e non sarebbe più potuto uscire. La possibilità meno rischiosa era quella.

E lasciare Leo appeso ad aspettare era fuori discussione.

Per arrivare al portone d'ingresso, usando quelle scale secondarie, fu costretto a passare davanti al bagno dei bidelli. 

Lo stomaco si contrasse e tutti i ricordi che credeva di aver dimenticato ritornarono a travolgerlo, lo fecero affogare.

E di lì a poco, se fosse riuscito a scappare, lo avrebbe rivisto. Se già si sentiva male soltanto a vedere la porta del bagno...

Nico cercò di non pensarci.

Sbirciò dall'angolo: studenti che entravano, due professori, per fortuna di altre sezioni.

Non aveva senso aspettare oltre. Uscì e puntò il portone a testa bassa e passo svelto.

Fuori. Libero!

No, non si fidava più della libertà. 

A sinistra si andava verso il Corso, da dove arrivavano quasi tutti, Nico andò verso destra. Di corsa. Girò l'angolo, passò sul retro del parco che c'era vicino alla scuola, no, non sarebbe andato ancora verso il Corso, fece anche tutto l'isolato dopo il parco, arrivato alla fine, girò di nuovo a destra e finalmente sbucò sul Corso all'incrocio delle Poste. Lo attraversò, fece un pezzo di via, poi prese un vicoletto sulla sinistra. Un paio di stradine attraverso un percorso tortuoso lo portarono finalmente in Piazza Vittoria. C'era quasi. Là sulla destra c'era la stradina dove si erano dati appuntamento. Un po' per la corsa un po' per l'emozione il cuore sembrava volergli uscire dalla bocca.

Ed eccolo! Leo era lì, in jeans e camicia, con la sua solita sigaretta tra le dita, che guardava la vetrina di un negozio di scarpe.

Note 🎶 

Visto? Non sono stati lontani molto a lungo. Come andrà secondo voi questo incontro? Di cosa vorrà parlare Leo? E Nico verrà beccato dal padre?

Ci rileggiamo lunedì e lasciatemi una stellina per ogni corda di racchetta rotta da Nico dai sette ai sedici anni.

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