17. Concerti di emozione che parole non trovano mai
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Avviso: la versione che state per leggere di questo capitolo è stata leggermente editata per non violare le regole di Wattpad. Metto a destra il link alla versione non editata per completezza, ma potete leggere anche questa.
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Nonostante l'alcol in circolo, a Nico passarono per la testa parecchie fantasie inopportune.
In fondo era andato lì per quello. Aveva accettato l'invito pensando che avrebbe passato la sera da solo con Leo. Aveva ancora il lubrificante in tasca e aveva pensato solo a quello per tutta la sera, macerando frustrazione perché, con tutti quegli invitati, si era convinto che alla fine non l'avrebbe fatto.
E adesso Leo gli stava offrendo su un piatto d'argento di fare il passivo. Nico l'aveva sognato centinaia di volte, e Leo si era sempre dichiarato territorio invalicabile.
Ma Leo, in quel momento, era moribondo, e Nico non voleva farlo con una persona addormentata. Tanto più che era un po' rincoglionito anche lui stesso. «Leo, è meglio se...»
Si zittì, perché l'altro stava già russando.
***
Nico, che non si era nemmeno reso conto di essersi addormentato, si svegliò con il sole sugli occhi. Proveniva dalla fessura di una persiana.
Annusò l'aria. Profumava di burro.
Leo non era lì a letto, ma il posto accanto era tutto gualcito.
Abbiamo dormito insieme, pensò Nico, non sapendo bene che farsene di quel pensiero.
Si alzò, con la testa che girava e un sapore orrendo in bocca. Si rese conto di aver dormito in jeans corti e maglietta, com'era vestito la sera prima. Si batté la mano sulla tasca. Il lubrificante era ancora lì.
Scese le scale, la cucina era sulla destra. A terra c'erano vuoti di birra, bicchieri di plastica e anche qualche coccio di vetro.
Trovò Leo che spadellava qualcosa. «Ah ciao. Mal di testa?» disse lui.
«Mi gira un po', ma sto bene. Cosa fai?»
«Crêpes. Mio fratello quando ha mal di testa che ha bevuto troppo mangia sempre uova sode. Ma a me le uova sode di mattina mi fanno schifo, allora me le faccio così e poi ci metto la marmellata. Tu le mangi le uova, no?»
«Sì, certo. Tu hai mal di testa?»
«Abbastanza.»
Leo finì di preparare le crêpe in silenzio, impilandole una sull'altra su un piatto, nella cucina disordinata e da pulire, mentre Nico lo guardava: aveva la barba incolta, dovevano essere un paio di giorni che non la radeva, i suoi capelli lunghi erano più spettinati del solito, i suoi occhi arrossati e cerchiati da due ombre bluastre, probabilmente aveva anche un alito di merda per via del fatto che aveva bevuto troppo e non ancora mangiato niente, ma se si fosse voltato, l'avesse preso e baciato, Nico si sarebbe lasciato prendere senza un attimo di esitazione.
Leo scelse due piatti puliti da un armadietto, ci adagiò sopra una crêpe per uno e aprì un barattolo delle Quattro Stagioni. «Questa è di fichi bianchi. La fa mio nonno coi suoi alberi, è buonissima.»
Nico spalmò la crêpe di confettura la arrotolò e la assaggiò: dolce e profumata. «È vero che è buonissima!»
Mangiarono in silenzio un altro po', preparandosi altre due crêpe a testa. «Sei in buoni rapporti con tuo nonno?» chiese Nico.
Leo annuì. «Sto qua da due settimane.»
Nico sgranò gli occhi. «Sei scappato di casa?»
«Sì, tipo. La sera del concerto ho litigato con mio fratello e ci siamo pestati che si sentivano le urla fino a Vencò. Ho preso la fisarmonica e son venuto qua.»
«Son contento che non l'hai venduta.»
Leo restò in silenzio qualche secondo. «Sei tu che l'hai portata su in camera, ieri sera?»
«Sì.»
«Grazie.»
Nico fece spallucce.
«Nonno paterno o materno?»
«Goran Devetak» rispose Leo. «Lui sì che è jugo. Dopo settant'anni in italia ha ancora l'accento.»
Nico sorrise e rimase zitto. Era la prima volta che sentiva Leo prendere alla leggera quell'argomento.
E Leo lo stupì continuando persino a parlarne. «A me mi dà sempre fastidio quando mi prendono per il culo che ho il cognome jugo, poi penso a quello che ha passato mio nonno e penso che sono un mona...»
«Perché? Cos'ha passato tuo nonno?»
«Lui è originario di un paesino vicino al confine, quelle zone che sono diventate italiane dopo la prima guerra mondiale e che adesso son di nuovo jugoslave, presente?»
«Sì.» Nico poggiò il gomito al tavolo e la guancia al pugno, curioso di ascoltare la storia di Leo.
«Non so se sai, ma durante il fascismo avevano fatto una legge che tipo erano vietati i cognomi stranieri. Cioè, non erano proprio vietati, ma tipo... che era meglio se li cambiavi, una roba così. Insomma, non era obbligatorio, ma quasi. Mio nonno dice sempre: io non sono italiano, sono sloveno non volevo far finta di essere italiano. Anche se si era già morosato con mia nonna, che era italiana e poi si sono anche sposati, però lui ci teneva, hai capito? Ci sono tanti Devetak da queste parti che hanno cambiato cognome e sono diventati per esempio Devetachi, lui no, è rimasto Devetak... E ha avuto tante di quelle rogne... Perché, tipo, non ti facevano lavorare, potevi fare solo lavori di merda, rogne varie di tutti i tipi, adesso non ti so neanche dire nello specifico... insomma, ha passato di tutti i colori per tenere questo cognome, e io mi incazzo come un mona ogni volta che mi dicono jugo. Ma cosa devo fare? Mi vergogno. Mi sento stupido che mi vergogno, e adesso che sto qua con mio nonno mi sento ancora più stupido. Tu pensi che gli jughi son tanto sfigati?»
Nico ci impiego un po' a rispondere perché quelle parole lo avevano emozionato, per ragioni diverse: per la storia triste del nonno di Leo, sicuramente; perché gli dispiaceva che Leonardo si sentisse uno sfigato; ma la cosa che lo stavo emozionando di più era il fatto che Leonardo si fosse aperto. Gli aveva raccontato una storia personale e aveva parlato con lui di qualcosa che lo preoccupava, e l'aveva fatto con parole spontanee, sincere.
Leo sbuffò. «Non mi rispondi? Dimmelo se pensi che sono sfigato...»
«Scemo. Non ti rispondo perché non mi sembra vero che finalmente ti apri un po' con me. E se vuoi saperlo no, non penso che essere jughi sia una roba sfigata.»
«Ma se mi hai preso per il culo un milione di volte, anche tu...» disse Leo, accompagnando la frase con una sventolata di mano.
«Sì. È vero che ti ho preso per il culo anch'io, ma solo perché sapevo che ti dava fastidio. È un po' come... Cioè, tipo, se ti facessi problemi perché hai il naso grosso ti prenderei per il culo per quello e ti direi nasone. Ma a me in realtà che sei mezzo jugo non me ne frega niente. È come essere italiano, no? Che differenza c'è? È una presa per il culo proprio stupida, adesso che ci penso. Non ci avevo mai pensato, se devo essere sincero.»
Leo fece una smorfia poco convinta, a occhi bassi. Prese di tasca il pacchetto di sigarette e ne accese una.
Nico avrebbe voluto dire ancora qualcosa, magari qualcosa di bello, ma non trovò le parole.
Era davvero un estraneo, Leo. Uno sconosciuto. Un ragazzo che Nico stava appena iniziando a conoscere dopo due mesi di scopate grezze e silenziose.
Quello poteva essere un punto di partenza. Quella sarebbe potuta essere la loro estate, fatta di incontri segreti, corse in motorino e crêpe alla marmellata. Mentre Leo fumava serio e pensoso, la testa di Nico si riempì di vaghe, scintillanti immagini che erano l'esatto opposto dello squallore vissuto nel bagno di scuola.
«Mi aiuti a mettere un po' a posto?» gli chiese Leo dopo aver finito la sigaretta.
«Volentieri.»
Leo prese un'aspirina, si diedero una veloce lavata a denti e viso, e poi passarono un paio d'ore a rassettare. Raggiunto un livello di igiene e ordine accettabili, Leo propose a Nico di fare una pausa e uscire per una breve passeggiata: si era fatto ormai tardi, era da poco passato mezzogiorno. «Ti porto in un posto bellonon che c'è qua dietro» disse Leo. Imbracciò la fisarmonica.
«Non ti pesa quella?»
«Un po'. Ma il posto non è lontano e volevo farti sentire una roba. Se vuoi. Visto che mi hai detto che sono... cioè, che sei l'unico che gli piace veramente, quando suono. Se non mi stavi contando balle.»
«Non ti stavo contando balle. Andiamo.»
Uscirono e Nico si stupì nel notare che Leo non chiudeva la porta a chiave. Glielo disse.
«Mio nonno non chiude mai. Sai che neanche so dov'è, la chiave? Tanto cosa vuoi che mi fregano, le mutande? Mi dice sempre.»
Nico ridacchiò. «Mi sembra che hai un bel rapporto con tuo nonno» disse mentre si incamminavano.
«Sì, andiamo d'accordo. Sai che me l'ha regalata lui questa?» disse Leo in tono triste, indicando la fisarmonica.
«Gliel'hai chiesta tu?»
«Più o meno. Cioè... io ho cominciato a suonare perché suonava lui.»
«Anche lui fisarmonicista?»
Leo annuì. «Sì. Quando ero piccolo e venivo qua a trovarlo volevo sempre sentirlo suonare, volevo sempre provare anch'io. Allora visto che insistevo tanto, i miei mi hanno preso un modello piccolo, usato, mezzo scassato e mi hanno mandato a scuola di musica. Una delle poche robe buone che hanno fatto in vita loro. E dopo un paio d'anni mio nonno mi ha regalato questa, nuova, bellissima. Ha fatto fuori metà dei suoi risparmi per prendermela. Tanto io son vecchio, cosa me ne faccio dei soldi? Stanno lì a marcire, ha detto.» Il suo sguardo si intristì.
«È bello che hai lui» disse Nico.
Leo accennò un sorriso e annuì di nuovo.
Passeggiarono per dieci o quindici minuti e arrivarono in vista di un prato che Nico conosceva molto bene.
«È mica quello là il posto?»
«Sì! Non è una figata?»
Nico rise. «È mia quella collina. Cioè. Di mio padre.»
Leo spalancò la bocca. «Sul serio? Pensavo che era un prato del comune! Com'è che non lo coltivate?»
«Non lo so. Quella quercia l'ha piantata il mio bisnonno, mi pare. O forse addirittura il trisnonno, non so. È una specie di simbolo della famiglia. Venivo qua a giocare da piccolo, ma era un sacco che non ci venivo più.»
«No, va be'. Non ci credo! È tipo il posto dove vengo sempre quando ho i coioni per terra, per farmi i cazzi miei. Non avevo alba che era tuo!»
Arrivarono sotto al grande albero, che con le sue fronde creava una bella ombra e offriva un po' di frescura dal caldo estivo. Davanti a loro un prato tempestato di macchie rosse e azzurre, papaveri e fiordalisi. «Se passi quella collina lì, poi poco più avanti c'è casa mia» disse Nico indicando l'orizzonte.
Leo socchiuse gli occhi. «Sì, in effetti a occhio casa tua dovrebbe essere circa lì.»
«Non dovrebbe. È lì.»
Sedettero sul prato, all'ombra ma lontani dalle radici.
«Cosa volevi farmi sentire?»
Leo sganciò le cinghie che tenevano fermi i mantici e la fisarmonica emise un debole suono, aprendosi. «Una canzone che ho scritto che non ho mai fatto sentire a nessuno.»
Nico annuì. «Come si intitola?»
«Sono ancora indeciso, ma penso che la chiamo Rewind.»
«Reuind? Cosa?»
«Reuind» ripeté Leo. «È il tasto del mangianastri che tira indietro la canzone.»
«Ah... sul mio mangianastri c'è scritto solo Rev, non sapevo che era l'abbreviazione di reuind.» Nico osservò il grugno pensoso di Leo. «Adesso sono davvero curioso. Dai, fammela sentire!»
Si chiese di cosa potesse parlare. Di musica, considerando il titolo?
Leo ci impiegò un po' a iniziare. Prima mosse le dita rapidamente sui tasti senza emettere suoni, come se stesse ripassando mentalmente una musica. Poi guardò un po' l'orizzonte. Poi guardò Nico. «Mi prometti che non ridi?»
«Come faccio a prometterti che non rido?»
«Che non mi prendi per il culo.»
Nico strinse le labbra. «Dovrei prenderti per il culo apposta, considerando che tu a ogni occasione infierisci su di me.»
Leo abbassò gli occhi. «Eh, ma io scherzo, dai.»
«No, non scherzi. Sei stronzo. Ma non importa, io a differenza tua non sono stronzo. Fammi sentire. Sono curioso, veramente. E tu sei bravo. Sono sicuro che mi piacerà.»
Il piccolo complimento sembrò convincere Leo.
Iniziò a suonare. Sembrava un valzer o una mazurka (Nico non era mai riuscito a capire la differenza, gli sembrava avessero lo stesso ritmo). Suonò una piccola introduzione strumentale, una melodia per cui Nico non avrebbe saputo trovare altro aggettivo se non: felice.
Poi iniziò a cantare:
«Se ascolterai il mio cuore
musica sentirai,
concerti di emozione
che parole non trovano mai»
Nico quasi si commosse. Erano frasi semplici, ma allo stesso tempo le più complesse e articolate che Leo avesse mai pronunciato davanti a lui.
«Ti prenderò per mano
ti porterò con me»
È per me? non poté fare a meno di pensare.
«E per parlarti io suonerò
quest'ultimo valzer per te»
Il testo era davvero molto semplice, quasi banale. Ma più continuava più la musica gli sembrava bellissima, serena ma un po' malinconica come gran parte dei pezzi per fisarmonica.
«Non andare via, non mi lasciare.
Per non scordarti mai voglio cantare
Se fossi una canzone,
Un nastro, uno spartito
Farei rewind
Ti ascolterei
All'infinito»
Nico odiava il turbamento che gli stava causando. Quello strumento popolare, contadino. Lui odiava la provincialità, la retorica delle cose piccole, la semplicità che troppo spesso diventava ristrettezza.
Eppure adesso era lì. Si era goduto una colazione semplice e casalinga, una passeggiata, l'ombra di un'albero e quella musica da contadini.
I versi vennero ripetuti, con delle piccole variazioni musicali che rendevano la canzone ancora più bella.
Nico ascoltò rapito. Una canzone d'amore che sembrava parlare a lui.
Quando Leo ebbe finito, Nico si accorse di avere gli occhi lucidi.
Non ebbe il coraggio di chiedergli se l'avesse scritta per lui. «È bellissima» disse, con la voce un po' incerta.
E anche Leo sembrava al culmine della felicità.
Ma durò solo pochi secondi.
Abbassò lo sguardo, e distrusse la gioia con una frase: «Domani a quest'ora becco un tipo e gli vendo la fisarmonica.»
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Note 🎶
Innanzitutto, prima che qualcuno mi corregga (sì, lo so che forse l'avrete fatto commentando in linea), so benissimo che Rewind si pronuncia Riuaind, e inizialmente infatti era così che lo facevo dire a Leo, facendogli dire persino una giustificazione su come l'aveva scoperto. Poi però mi è sembrato un passaggio macchinoso e poco verosimile, considerata l'epoca, l'ignoranza del ragazzo, il fatto che se è andato alle medie alla stessa scuola di Nico ha studiato tedesco e non inglese, e infine i suoi conoscenti, che sono ignoranti quanto lui, perciò ho preferito farglielo pronunciare male, nel modo in cui lo pronuncia a istinto chiunque non parli inglese.
Non posso dirvi la fatica che ho fatto a scrivere la canzone. Volevo che il testo fosse allo stesso tempo semplice, perché Leo è una persona poco colta, e significativo. E soprattutto dovevo farla stare in metrica, perché dovete sapere che quella canzone esiste: ho scritto anche la melodia e una bozza di arrangiamento per fisarmonica (con una libreria midi), ed essendo una canzone da ballo, un valzer per la precisione, ha i versi in rima e una metrica davvero vincolante (le canzoni pop e rock sono molto, ma moooolto più facili, si può sbracare di più con accenti e ritmi e chissene delle rime).
L'ho fatta leggere a Juiceissweet una settimana fa, ed è cambiata leggermente rispetto alla versione che ha visto lei. La taggo per ringraziarla del parere che mi ha dato :)
Cosa ne pensate (domanda rivolta a tutti i lettori)? Parere sincero e critiche spietate: vi sembra appropriata a Leo?
E cosa ne pensate della battuta finale? Secondo voi la fisarmonica Leo la venderà davvero?
Ultima nota per i lettori di Play: avete riconosciuto la collina con la quercia, sì? ;)
Ci rileggiamo giovedì, e stavolta la stellina lasciatemela per l'impegno semestrale che ci ho messo con la canzone :P
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