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112. E poi cos'è successo?

...sarebbe molto più facile
rincontrarci nei pensieri,
distesi come se fossimo sospesi ancora nell'attimo in cui
poteva succedere.

(F. Zampaglione, F. Zampaglione, R. Sinigallia, La descrizione di un attimo, 2000)

20 febbraio 2020

Doveva accadere ed era accaduto. 

Michele si era tinto i capelli.

Azzurri. 

E gli stavano malissimo.

Ci aveva impiegato un po' a decidersi. Erano passate un paio di settimane, durante le quali Michele era rinato. Ancora faticava a parlare, ancora balbettava parecchio. Ma parlava sempre più spesso.

E soprattutto cucinava.

Era un'attività che sembrava piacergli molto. Da ragazzo estremamente meticoloso quale era, si atteneva scrupolosamente alle istruzioni che leggeva o seguiva su YouTube, analizzava con logica e profonda comprensione qualsiasi passaggio, e il risultato era che i piatti gli uscivano piuttosto bene. Cucinava a cena, per tutti, e a volte anche a pranzo, e Nicolò trovava commovente il fatto che preparasse sempre un'alternativa vegetariana per lui, ogni volta che nel menù c'erano carne o pesce. E che alternative! Abituato da decenni a uova e legumi preparati più o meno sempre alla stessa maniera, si era stupito della varietà che Michele riusciva sempre a inventarsi: una volta gli aveva preparato una zuppa di lenticchie e rape rosse, un'altra volta una frittatina di asparagi selvatici, poi aveva imparato a fare le uova in camicia – Nicolò ci aveva provato una volta sola, con risultati disastrosi – e gliele aveva servite su toast al burro con avocado. E anche quando preparava dei sughi più semplici, ci metteva sempre una tale cura da renderli saporiti e deliziosi.

E adesso i capelli. A Nicolò andava bene: era un'altra fase della rinascita. Con quel colore così appariscente, forse erano anche una sorta di prova di coraggio, per lui che era così timido.

Nonché un regalo per Ivan, che sarebbe arrivato finalmente a Capriva l'indomani, dopo che suo fratello Andrej era già lì da qualche giorno, invitato dallo stesso Michele per consentire ad Anna di stare col suo ragazzo. Ivan purtroppo aveva dovuto rimandare la visita per via dei milioni di impegni a cui aveva dovuto partecipare dopo la vittoria dello Slam. Michele non stava nella pelle e aveva già fatto le prove del menù che gli avrebbe presentato la sera del suo arrivo.

Anna e Michele avevano incontrato Nicolò nella sala grande per mostrargli il capolavoro tricologoco, e Nicolò stava appunto dicendo a Michele che nonostante non gli piacesse il colore approvava la sua scelta, quando vennero interrotti da una voce sgradevole.

«Pùar frut.» Povero bambino.

Suo padre.

Di tanto in tanto si faceva vivo, per vedere la bisnipotina Elisa, soprattutto. Ma si azzardava anche a chiedere notizie di Michele o provare a interagire con lui.

«Cosa vuoi adesso?» gli chiese Nicolò.

Era arrivato entrando dalla porta che collegava le due case. Era sempre aperta. Non la usava spesso, ma non si faceva scrupoli a usarla senza annunciarsi. «Se sonun chei cjavei di storlòc?»

«C'è una persona che non capisce il friulano, in questa stanza. Abbi rispetto per lei e parla in italiano» disse Nicolò indicando Anna, che nel frattempo aveva incrociato le braccia con piglio ostile.

«Cosa sono quei capelli da... storlòc?» tradusse il padre alla meno peggio. «Quindi sei proprio diventato un finocchio fatto e finito?»

La frase mozzò il fiato in gola a Nicolò. Dopo trentacinque anni ancora faceva male. Quelle botte facevano male come se le avesse prese il giorno prima.

Il padre, quindi, si rivolse a proprio a lui. «Tutta colpa tua. Tale padre, tale...»

Nicolò era già scattato al "colpa tua", di puro riflesso, lo afferrò per il bavero della camicia e scrollandolo con violenza urlò: «Finiscila, stronzo!»

Suo padre incassò la testa tra le spalle e chiuse gli occhi. «Te la prendi con i vecchi, adesso? Cosa vuoi fare? Vuoi menarmi? Vuoi tirare fuori a cinquant'anni i coioni che non ti sono mai venuti giù?»

Nicolò lo spinse via emettendo un grido di rabbia represso per trentacinque anni.

Poi indicò la porta. «Torna a casa tua e non farti più vedere da questa parte!»

«Anche questa è casa mia» rispose lui con aria di sfida.

«Ho l'usufrutto legale di questo appartamento. Non puoi mandarmi fuori e non hai nessun diritto di presentarti qui non invitato. Torna di là, e chiuderò finalmente a chiave quella porta di merda. Non ti voglio più vedere!»

Il vecchio bastardo aveva un'espressione sempre più cattiva. «La verità fa male, eh?»

«No! Tu fai male! Tu, con la tua omofobia di merda, e le tue cinghiate sul culo e il tuo machismo del cazzo, che su un gobbo rinsecchito di novant'anni francamente fa solo ridere. Vaffanculo papà, vaffanculo!» Nicolò non credeva di aver mai gridato con tanta intensità.

Suo padre lo guardò strizzando gli occhi e, senza dire altro, si voltò per andarsene, ma fu fermato da un inatteso applauso sarcastico di Anna, accompagnato da un: «Finalmente!»

«E tu cosa vuoi?» scattò il vecchio voltandosi di nuovo.

«Pensi che non li ho sentiti i commenti che hai fatto su Andrej?»

Di nuovo quell'espressione astiosa e contratta, che decuplicava le rughe sul suo volto, e finalmente si levò dalle scatole.

La chiave era già infilata nella toppa; e fu liberatorio girare le due mandate. «Avrei dovuto farlo tanti anni fa, ma non ne ho mai avuto il coraggio.» Nicolò, poi, si rivolse ad Anna. «Cos'ha detto quello stronzo su Andrej?»

«Niente... ha... parlava con Daniele e gli ha chiesto qualcosa tipo: quella povera ragazza deve fare da badante all'handicappato? Lo ha detto in friulano ma l'ho capito lo stesso. Sul momento ci sono rimasta talmente di merda che non ho avuto la prontezza di dire niente... ma mi ha fatto venire su un nervoso!»

Nicolò scosse la testa. «È uno stronzo. È un vecchio. È sempre stato vecchio, vecchio dentro. Era vecchio anche quando aveva vent'anni. Non capisce un cazzo del mondo e dell'amore. Lascialo perdere.»

***

21 febbraio 2020

Per fortuna ci pensò Ivan a tirarli su di morale col suo entusiasmo contagioso. Non sapeva nulla dei capelli di Michele, e quando li vide si mise a saltare e blaterare sciocchezze su sciocchezze a velocità doppia del normale : «Non è un wig, vero?»«Misha fa sempre i regali più belli del mondo!»«Kolja perché non mi hai detto niente?» A un certo punto si mise persino a cantare una sciocca canzoncina su quanto fossero belli i capelli blu.

Michele era al settimo cielo. Nicolò aveva ammirato l'espressione scintillante di suo figlio quando aveva abbracciato Ivan, fuori dal taxi, così diversa dall'apatia triste del loro ultimo abbraccio, a novembre.

Ivan aveva onorato la sua metà di scommessa e aveva dato un taglio alla porzione scolorita della sua chioma, perciò ora sfoggiava due centimetri di capelli castano cenere, il suo colore naturale. Nic trovava gli stessero bene: Ivan aveva un viso particolare, molto spigoloso, da folletto, e i capelli corti ne mettevano in risalto la stranezza, rendendolo più interessante. Emergevano i suoi occhi, gli occhi più assurdamente chiari che Nicolò avesse mai visto.

Dopo che furono entrati in casa e Ivan aveva fatto il suo spettacolo di urletti e canzoncine, Nicolò li invitò ad andare a sistemarsi in camera e mentre li guardava salire le scale, con Ivan che parlottava fitto ancora in preda all'euforia, ripensò alle parole di Raf: noi non ci siamo potuti amare, i nostri figli sì.

Michele aveva trovato il suo amore in Ivan? O era solo un'amicizia? Qualsiasi cosa fosse sembravano entrambi felici. Di fatto, in qualche forma, si amavano.

E promettimi che non passerai tutta la vita a pensare a me... Che proverai a essere felice...

Nicolò si era fatto strappare quella promessa da Raf. Ogni tanto ci pensava, ma si sentiva stanco solo all'idea di cominciare: incontri, conoscenze, appuntamenti, stress, delusioni, inevitabili delusioni... Innamorarsi di nuovo a cinquantacinque anni? Ormai era impossibile, forse persino un po' ridicolo.

Ma era sereno così. Non sentiva la mancanza di niente.

***

28 febbraio 2020

Una settimana era trascorsa, durante la quale Nic aveva cercato di lasciare Michele e Ivan per i fatti loro. C'erano stati dei piccoli alti e bassi nell'umore di Michele, e per quel poco che li aveva visti insieme Michele era sembrato sempre piuttosto taciturno, ma a Nic entrambi i ragazzi sembravano felici.

Passavano buona parte del tempo insieme, eccetto le ore di allenamento: Michele aveva ripreso di sua iniziativa a fare un po' di preparazione atletica, per lo più corse e qualche esercizio in palestra, ma ancora preferiva stare lontano dai campi da tennis. Aveva insistito, però, perché Ivan non trascorresse il soggiorno friulano in ozio, perciò per qualche ora al giorno Ivan, Daniele e Andrej andavano insieme al circolo di Gorizia, lasciando Michele a casa.

Ivan e Daniele si allenavano sempre insieme, facendo sparring uno con l'altro, mentre Nicolò allenava Andrej. Lo aiutava scambiando insieme a lui dall'altra parte della rete: fu un'esperienza interessante, non aveva mai seguito un allenamento di tennis in carrozzina, ed era lo stesso Andrej che gli diceva cosa avrebbe dovuto fare per aiutarlo. Si era persino offerto di pagarlo, ma Nicolò aveva rifiutato.

La mattina dell'ultimo giorno di febbraio, che sarebbe stato anche l'ultimo che Ivan avrebbe trascorso lì, arrivò a Nic uno strano messaggio da Michele.

Puoi andare sulla collina con la quercia e controllare che nessuno abbia portato via la rete che ho messo lì? 

Dopo pochi secondi ne arrivò un secondo.

Sono con Ivan, sennò ci andrei io.

Nicolò rispose con un semplice ok, chiedendosi di quale rete stesse parlando suo figlio.

Nicolò aveva un paio di ore libere, prima che cominciasse l'allenamento di Daniele insieme a uno sparring, quindi uscì subito, appena ricevuto il messaggio. Era una bella giornata, fredda ma soleggiata e aveva proprio voglia di fare due passi.

Erano secoli che non andava alla collina. L'ultima volta c'era stato con Elisa, forse quindici o vent'anni prima. Adesso suo figlio ci aveva messo una rete. Da tennis? Voleva forse fare dei tiri con Ivan? Forse era il suo modo per riprendere finalmente in mano una racchetta? Chissà. Certo, in pendenza non era proprio il massimo, ma Michele era un tipo strano. 

La collina simbolo della grande stirpe Bressan Sidìn! Se l'avesse saputo suo padre si sarebbe incazzato un bel po'.

Quasi quasi glielo dico apposta.

No. Non era più un bambino.

Passato il primo colle, vide da lontano che erano persino state tirate delle righe col gesso, ma la rete sembrava fosse caduta.

Adesso mi toccherà ripiantarla a me, che palle.

Fu in quel momento che notò, sotto la quercia, una persona stesa a terra, supina. 

Che cazzo è, un cadavere?

No. Dormiva, con le mani intrecciate sul petto e le gambe accavallate. Era un uomo.

Nicolò pensò subito a quel ragazzo che, tanti anni prima, gli aveva detto: vengo sempre qui, quando ho le palle girate. 

Ma non poteva essere lui. C'era un piccolo dettaglio che rendeva quel fatto impossibile: quell'uomo stava dormendo con un libro appoggiato in faccia.

E Leonardo Devetak era il più colossale ignorante analfabeta che Nicolò avesse mai conosciuto.

Si avvicinò ancora. La corporatura era proprio quella di Leo. Sembrava si fosse mantenuto in forma, tutto sommato. Ma da steso era difficile giudicare.

Sempre che fosse lui.

Figuriamoci. Leonardo avrà la panza e i denti marroni di sigaretta.

Arrivato in cima al colle, osservò l'uomo da vicino, da pochi metri di distanza.

Le sue mani nude, arrossate dal freddo, incrociate sul ventre.

Due mani che l'avevano toccato tante volte da averne perso il conto.

Si sorprese ad avere un po' di batticuore. I ricordi facevano brutti scherzi.

Contegno. Son passati... quanti anni? Trenta? Anche più.

Aprì la bocca per dire qualcosa. Cosa avrebbe potuto dire? Ciao? Ehi? Leo, sei tu? Quanto tempo?

Rimase a bocca aperta come un allocco per parecchi secondi, e dalla bocca respirò, in affanno. Risvegliare un ricordo che era rimasto tale per trent'anni. Rivedere un viso trasformato. Davvero voleva farlo? Per cosa? Per avere un altro shock, come quello avuto davanti a Raffaele sfigurato dall'alcolismo?

L'ultima volta che Nico aveva visto il viso di Leonardo, in ospedale a Barletta trent'anni prima, quel viso aveva le occhiaie, la barba incolta e un occhio pesto, ma nella sua mente c'era la faccia pulita e arrogante del suo primo e... primo e unico ragazzo.

Nicolò stava per girarsi e andarsene, per lasciare i bei ricordi dove era giusto che restassero. Ma un'ultima occhiata al corpo addormentato di Leonardo gli fece notare un dettaglio che per un attimo gli fece pensare di essere entrato in un tunnel spaziotemporale: c'erano due cavetti che spuntavano da sotto il libro, che correvano verso un piccolo parallelepipedo blu e argento.

Nicolò scosse la testa con un sorriso, e le parole uscirono spontanee dalle sue labbra: «Nessuno ti ha informato che è stato inventato lo smartphone?» 

L'uomo ebbe un sussulto, si alzò a sedere di scatto, il libro gli cadde dalla faccia. 

Leonardo fissò Nicolò con un'espressione incredula e un po' assonnata  per parecchi secondi. 

E il cuore di Nicolò fece una capriola per il sollievo. Era sempre lui!

Era cambiato pochissimo: il viso, certo, era più quadrato, le guance più asciutte, gli occhi più infossati, c'erano due rughe profonde ai lati della bocca e dei segni orizzontali sulla fronte, ma aveva sempre lo stesso nasone, sempre la solita espressione un po' strafottente, e i capelli grigi erano ancora folti, appena un po' diradati sulle tempie, la stempiatura nascosta da una spartizione centrale, un taglio fuori moda che gli faceva arrivare i capelli al collo. 

«E vedo che anche a capigliatura sei rimasto fermo agli anni Ottanta...»

Leonardo sorrise, scoprendo una fila di denti puliti, e con la bocca sorrisero anche gli occhi, formando tante zampette di gallina. Con un gesto rapido levò gli auricolari, anche se la cassetta era già ferma – non provenivano suoni o fruscii dal Walkman. «Non ci credo! Nico! Diobòn, quanti anni?» Si diede una spazzolata ai gomiti. «Cazzo, scusa eh. Pensavo che eravate già partiti per Indian Wells, poi sono arrivato qua e ho visto questa specie di campo da tennis e ho pensato: ma cos'è 'sta roba? Sono ancora tutti qua, quindi? Volevo andare via, ma dopo che avevo fatto tutta la strada a piedi ho detto, bon, mi siedo  giusto dieci minuti. Poi mi son buttato steso un attimo e non mi sono neanche accorto che mi sono addormentato. Che ore sono? No, scusa, come stai, cazzo?»

Domanda difficile.

«Bene. Tu?»

«Ho sentito che tuo figlio piccolo non è stato tanto bene. Come sta?» Nico lo vide tentennare con la bocca aperta. «Cioè, scusa, giustamente rispondimi che devo farmi i cazzi miei.»

«Sta molto meglio. Ah, a proposito, aspetta che devo scrivergli una cosa, ci metto un attimo.»

Tutto a posto. Ma è normale che la rete è solo appoggiata per terra?

Nicolò non vedeva buchi, non sembrava fosse caduta. Forse l'avrebbero piantata in seguito.

«Diobòn, che strano che è vederti dal vivo...»

«Vieni qui spesso?» chiese Nicolò alzando gli occhi dal telefono.

«Ti dà fastidio?»

«Ma cosa mi frega? Vieni quando ti pare.»

I due rimasero a guardarsi per parecchi secondi, entrambi con un sorrisetto. Il telefono di Nicolò emise un ding.

Era Michele.

Sì, deve stare così. Grazie!

«Ah, a proposito.» Sventolò davanti a sé il telefono. «Questo si chiama smartphone, conosci?»

«Ma sì, ce l'ho anch'io, eh!»

«E allora perché usi ancora quel catorcio per sentire musica?» 

«Porta rispetto per il glorioso Walkman! La leggenda! Io quando vado in giro ascolto musica solo con questo.»

Nicolò rise, ripensando alla cassetta di Raf: forse avrebbe potuto andare a cercare il suo, di Walkman, in soffitta, e usare lo stesso metodo per ascoltarla. «E hai imparato a leggere, anche, vedo.» Indicò il libro che era rimasto a terra. 

«Sempre il solito stronzo. Sì, sono un uomo di cultura, adesso. Guarda qua...» Raccolse il libro e ne mostrò la copertina. «Dan Brown! Roba da professori universitari!»

Nicolò rise. «Guarda che lo leggo anch'io, Dan Brown.»

«Mi fa un strano vederti dal vivo e non in tv... Sei un vip, ormai.»

«Ma quale vip, è mio figlio, quello famoso.» 

«E quando giocavi in Coppa Davis da ragazzo non eri famoso? Ti guardavo sulla Rai.»

«Son sempre stato una riserva. Ma non ti stava sul cazzo il tennis, a te?» 

«Scusa eh, ma quando un tuo vecchio amico finisce in tv, anche se giocavi un sport scemo... non so, tipo bocce! Uno guarda, si appassiona. Poi Michele, cavolo... Australian Open! US Open! Wimbledon! Numero uno del mondo! E ho visto  che anche Daniele ha vinto il doppio al Roland Garros. I figli di uno dei tuoi più cari amici, uno che abitava nel cortile dietro casa tua, diventano campioni conosciuti in tutto il mondo. Come fai a non appassionarti? Che vita che devi avere avuto... Girare il mondo col tennis, dicevi. L'hai fatto, grande. Mi piacerebbe che mi raccontassi qualche storia. Andiamo a prendere un caffè, ti va?»

Nicolò tentennò, inondato dalla logorrea di Leonardo e da quel "vecchio amico" ripetuto più volte. Da quella parola sbagliata. «Veramente dovrei seguire l'allenamento di Daniele.»

Leonardo agitò una mano. «Hai ragione, scusa, hai i tuoi impegni.»

«Però penso che per una volta può anche fare da solo e non muore nessuno. Aspetta che lo chiamo.»

Leonardo sorrise.

***

Raggiunsero a piedi un piccolo bar di Capriva, chiacchierando per tutto il tragitto. Nicolò gli raccontò qualcosa della vita in tour, ma fu più interessato a farsi raccontare da Leo la vita da suonatore di liscio, di come aveva girato tutte le balere di Friuli, Veneto ed Emilia Romagna insieme ai Matuçs. Il complesso ora si era sciolto e faceva solo qualche serata sporadica, ma lui continuava a essere molto richiesto come solista. Gli spiegò quello che già gli avevano spiegato il Dondi e gli altri la sera del Pignarûl, ossia che girava con un mixer su cui faceva partire le basi, su cui poi lui cantava e suonava la fisarmonica. Guadagnava bene e prendeva parecchi introiti anche grazie alle royalties dei pezzi scritti col gruppo, che venivano suonati dalle altre orchestre.

«Li hai scritti tu i pezzi?» chiese Nicolò con le mani a coppa sulla tazza di tè che aveva preso per scaldarsi un po' dopo la passeggiata al freddo. Stava ripensando a quella canzone. Quella bellissima canzone che aveva scritto per lui.

Leonardo si era preso una molto meno sana cioccolata con panna e la stava annusando con un sorriso. «Sì, quasi tutti io, qualcuno anche il chitarrista. Li firmavamo tutti insieme, però, così prendiamo le royalties tutti.»

«Ma scusa, non è giusto, se gli altri non fanno il lavoro...»

«Ma sì che fanno, ognuno si occupava di arrangiare la sua parte, e poi la interpretavano. Non è proprio come scrivere, ma c'è lavoro anche lì. E poi siamo vecchi amici, non ragioniamo con la logica del profitto.»

«È bello che vi fidiate.»

«Comunque il nostro pezzo più famoso prendo i soldi solo io perché è un mio pezzo vecchio.»

«Quindi sei il più ricco di tutti?»

«Sì, ricco sfondato, proprio, ahah!»

«Sono contento che vivi facendo quello che ti piace.»

Leonardo annuì sorridendo. Prese una cucchiaiata di cacao con un po' di panna. «Ti devo ringraziare, Nico, sai?»

Nico... era un nome che non gli piaceva. Solo suo padre lo chiamava ancora così.

«E perché? Cosa ho fatto?»

«Quel discorso che mi hai fatto in ospedale, dopo che...»

Nicolò abbassò la testa e prese un sorso di tè. Non ebbe il coraggio di dire niente.

Leo continuò. «Lo so che son discorsi pesanti, scusa, me lo tolgo dallo stomaco e poi ti giuro che non ne parlo più. Quella cosa che mi hai detto, mi ricordo ancora le parole esatte: dobbiamo trovare uno scopo per essere felici, io ho il tennis e tu hai la musica. Io quelle parole me le sono tenute fisse in mente ogni giorno, e tenerle in mente mi ha salvato la vita. Mi son tirato su le maniche e ho detto, cazzo! Non voglio morire, ma non voglio neanche vivere così. La fisarmonica, tipo. I prossimi anni lavorerò solo per quello. E l'ho fatto, dopo due anni l'ho ricomprata, ho ricominciato a suonare, ho messo su un gruppo e dopo altri tre anni ho mollato quel lavoro di merda alla Delicia perché ho visto che riuscivo a vivere coi soldi degli ingaggi. E se non c'eri tu che mi dicevi quella cosa, secondo me ero ancora alla Delicia a incartare caramelle. Oppure mi ero ammazzato veramente. E ci hi pensato tanto, che se ti incontravo di nuovo te l'avrei detto, ti avrei ringraziato. Ecco: grazie.»

Se ti incontravo di nuovo... Nicolò, d'improvviso, rammentò le parole con cui l'aveva salutato, quel giorno in ospedale. «Sai... non mi ricordo bene, di preciso, ma mi sono appena ricordato che ti avevo detto qualcosa tipo... Ci rivedremo quando saremo vecchi, e avremo realizzato i nostri sogni. Be', sono contento che sei riuscito a realizzare il tuo.»

Leonardo sorrise. «E tu, il tuo? Non l'hai realizzato?»

Nicolò annuì. «Non nel modo che immaginavo quando ero ragazzino, ovviamente, ma l'ho realizzato. Mi sono tolto un sacco di soddisfazioni, e coi miei figli me ne sono tolte ancora di più.»

«Posso farti una domanda privata?» disse Leonardo.

Nicolò si guardò intorno e a voce ancora più bassa del solito disse: «Se vuoi sapere se ho avuto altre relazioni di quel tipo, la risposta è no.»

«In realtà volevo sapere se amavi tua moglie. Se tipo... sei guarito.»

«Non è una malattia, scemo.»

«Lo so anch'io, mona. Era un modo di dire.»

«Le volevo bene.» Nicolò scosse la testa. «Mi sono comportato di merda, con lei. Non è una bella storia e sinceramente non mi va tanto di raccontarla.»

«Sono una baba, scusa.»

Nicolò sorrise, udendo quel termine dialettale che non sentiva da qualche secolo; significava "pettegola". «E tu? Come sei messo? Sei guarito?»

«Hai finito il tè? Usciamo da qua, ché sti discorsi meglio farli senza gente intorno. Lo sanno tutti che son finocchio, ma non mi piace far sapere i cazzi miei in giro.»

Nicolò insisté per offrire, uscirono, e fu Leonardo a parlare spontaneamente. «Ho avuto una lunga relazione, quindici anni, finita malissimo perché lui mi tradiva con ogni cazzo e ogni figa di passaggio, bisex, il fortunato, e a un certo punto io non ce l'ho fatta più. Bello eh?»

«Mi spiace...»

Leo ridacchiò. «Ormai è passata, ci rido su quando ci ripenso. Ma quanto ci sono stato male... Sai, mi vedevo a invecchiare insieme, pensavo che era l'amore della mia vita, ma... non era cosa.»

«Che stronzo. Mi spiace veramente.»

Leo infilò le mani in tasca, si guardò i piedi, mentre camminavano. «E tu proprio niente? Neanche una scopata?»

«Zero. Mi sono sposato e sono stato fedele a mia moglie. Poi, dopo che son rimasto vedovo, sono stato troppo impegnato coi miei figli.»

«Mi dispiace. Abbiamo tutti bisogno di amore.»

«Ce l'ho. Ho due figli e sono...» Nicolò cercò le parole. «Quando hai dei figli certe cose passano in secondo piano, diventano loro le cose più importanti.»

«Lo so, ce l'ho anch'io una figlia.»

Nicolò fermò il passo e lo guardò a occhi sgranati. 

Leo rise. «Adottiva. È Benedetta, la figlia di mio fratello Matteo.» 

«Oh... Matteo è... morto?»

«Ha avuto un infarto cinque anni fa, non son neanche stato al funerale. Non ci siamo praticamente più parlati, da quando sono andato a vivere con mio nonno. Ti ricordi mio nonno, sì?»

Nicolò fece roteare la mano. Riprese a camminare. «Ma certo che me lo ricordo. Nonno Goran... E... e quindi com'è che hai adottato la figlia di tuo fratello?» Ricordando quando Matteo fosse violento, iniziava già a immaginare qualcosa.

Il racconto di Leo confermò i suoi sospetti. «La madre è morta in un incidente quando la Benedetta aveva otto anni. Allora è andata a stare da Matteo, nella mia vecchia casa. Mio papà era già morto, mia madre era ancora viva, e un giorno mi ha chiamato, disperata: salva questa bambina, per favore. Perché quel pezzo di merda la menava, proprio come mi menava anche a me. Io non la conoscevo, alla Bebe, e lei non mi conosceva a me. Cioè, sapeva che ero lo zio ma ci avrò parlato sì e no due volte. All'inizio doveva stare da noi solo per un periodo, mio nonno era ancora vivo. Hanno provato a mandare Matteo in clinica a disintossicarsi, ma non smetteva di bere e della bambina non glien'è mai fregato un cazzo. Lei ha cominciato a chiamarmi papà e mi diceva sempre, non rimandarmi indietro, voglio che sei tu il mio papà, voglio stare con te e col nonno. Quando andavo a suonare stava a casa col nonno. Poi quando il nonno è morto ho cominciato a portarmela in giro, perché tanto ormai era grandicella e poteva anche stare un po' su, di sera. Si divertiva tantissimo. Le voglio un bene dell'anima.»

Nicolò sorrise. «Sono contento sia per te che per lei.»

«Però non mi raccontare menate. Avere una persona vicino, non un figlio, un compagno. È diverso.»

«Ho avuto... Raffaele» disse Nicolò. «Forse ti ricordi di lui. È...»

«Raffaele Novelli? Il tennista? Ho seguito la sua storia e mi ricordo benissimo di lui. Avevo ragione a essere geloso, allora.» Leonardo accennò un sorriso.

Nicolò non rispose. 

Leo si fece di nuovo serio e abbasso lo sguardo. «Comunque sono un cojon. Insisto e insisto e il motivo per cui non mi volevi dire che hai avuto una relazione è che sei diventato vedovo e non volevi parlarne. Scusa.»

«Vedovo di chi? Di Raf?»

Leo annuì. «E di chi altro?»

Nicolò si strinse nelle spalle. «Sono vedovo solo di mia moglie. Non ho mai avuto una relazione con Raffaele.»

«E allora cosa volevi dire con: ho avuto Raffaele?»

Nicolò rifletté per qualche secondo prima di rispondere. «È stata la cosa più simile a una relazione che ho avuto. Era un mio amico, il mio migliore amico. Anche lui mi voleva bene, eravamo come fratelli, più che fratelli. Be', io... io ovviamente avrei voluto che fosse molto più che un fratello, ma era impossibile. Eravamo incompatibili. Mi ha ammazzato di dolore, la vita che ha avuto.» Nicolò sospirò. «Scusa, son discorsi pesanti.»

«Fa bene parlare» disse Leonardo.

La stessa cosa che gli ripeteva sempre anche Daniele...

Nicolò annuì. «Quando eravamo ragazzi ero già un tipo abbastanza duro e rigido. Con gli anni sono peggiorato, sono diventato un sasso. Negli ultimi anni un po' grazie ai miei figli, un po' grazie a Ivan, un amico di Michele, un po' grazie a Raffaele, ho ricominciato a tirare fuori la testa. Sto cercando di parlare di più.»

Di tirare fuori le emozioni che non ammetterò mai di avere, come diceva Raf.

«Stai facendo le spese di questo mio nuovo impulso a parlare, scusa» concluse Nicolò.

Leonardo rise. «Ma sei proprio un mona. Parla! Parla, che fa bene! Raccontami! Sberla, piangi, canta, butta fuori tutto! C'è qualcuno intorno a te che sa che sei finocchio?»

«Raffaele ovviamente lo sapeva. A Daniele, il mio figlio grande, gliel'ho detto. A Michele non gliel'ho detto mai, ma l'ha capito. Poi gliel'ho mezzo detto anche all'amico di mio figlio che ti dicevo. A parte loro, nessuno. Anche se... boh, forse lo hanno capito tutti. E... tua figlia lo sa?»

«Certo che lo sa! Ho convissuto per quindici anni con un uomo, cosa le dicevo che era il mio cameriere personale?»

Nicolò rise.

«E sai una cosa? Mi son fatto tante di quelle paranoie prima di dirglielo... chissà come la prende, forse non vuole più che sono suo papà. Bon. Sai com'è andata? Era in prima superiore, lei, quando gliel'ho detto. Ci ho messo tipo un'ora, poi gliel'ho detto, all'inizio lei super tranquilla, contenta, tutto bene, ma perché non me l'hai detto prima, eccetera eccetera. E io pensavo: grande, non poteva andare meglio di così. Insomma. Passa mezz'ora, era in camera sua, torna da me. Papà, senti... ma glielo posso dire ai miei compagni di classe? Quando vengono a sapere che mio padre è gay divento all'istante la ragazza più figa di tutta la scuola!» Leonardo rise. «Hai capito? Tutte le paranoie che ci siamo fatti, tutti i problemi, la paura... e adesso tra i giovani è considerata una cosa figa! Ma non è bello il mondo?»

Nicolò rise di nuovo. «Come sei cambiato. Eri così pessimista.»

«Ma sì, ogni tanto sono ancora un po' negativo. Solo che cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.»

«Sai... non posso fare a meno di paragonarti a Raffaele.»

Leo inclinò la testa. «In cosa?»

«Tu hai preso solo calci in culo nella vita. Tuo padre era alcolizzato, Matteo ti menava, hai dovuto abbandonare la musica che era l'unica cosa bella della tua vita... solo calci in culo, ma nonostante avessi due esempi di autodistruzione in famiglia, tu non ci sei caduto. Me li ricordo, sai, i discorsi che mi facevi, che ogni tanto ti ubriacavi perché non sopportavi la tua vita di merda. Ma non ci sei mica caduto dentro. Nonostante i calci in culo sei stato sempre in piedi, e sei in piedi anche adesso, e sei riuscito a fare quello che volevi nella vita, nonostante i calci in culo.

«Raffaele, invece, ha sempre avuto tutto. Aveva la madre contessa e il padre notaio, gli hanno sempre dato tutto quello che voleva. Era un genio del tennis, tutti lo ammiravano e facevano la fila per vederlo, era un bellissimo ragazzo e tutte le ragazze gli correvano dietro... aveva tutto, tutto! E l'ho visto distruggersi di eroina, l'ho tirato fuori, ci è ricascato, è scappato  e quando l'ho rivisto dopo trent'anni l'ho trovato completamente distrutto da una vita di alcolismo, solo, disperato e con un male mortale che gli stava mangiando via gli ultimi anni di vita. Due vite opposte, la sua e la tua. Lui il suo scopo non l'ha mai trovato. O meglio... l'ha trovato... ma solo poco prima di morire, dopo essersi distrutto la vita.»

Leonardò annuì, con un cipiglio comprensivo. «Ho seguito un po' la sua storia sulla stampa. Ho letto del suo funerale, so che l'hanno fatto qui vicino. Tu sapevi che stava morendo quando è tornato?»

«Sì. Ha... sai, anche lui...» Perché glielo sto dicendo? Nico abbassò lo sguardo. «Anche lui ha provato a uccidersi, e il suo allievo, quell'Ivan, se hai letto i giornali penso che lo conosci...»

«Sì.»

«Dopo questa cosa lo ha costretto ad andare in riabilitazione, gliel'abbiamo pagata noi, cioè, Michele, e io sono andato in Russia per stargli vicino, e lui me l'ha detto subito, mi ha detto che gli restavano pochi anni da vivere e che era per quello che aveva tentato il suicidio, perché pensava che non aveva senso stare sobrio proprio gli ultimi anni della sua vita e tanto valeva farla finita subito.»

«Ma poi ci è rimasto. Sobrio, dico. E anche in vita.»

«Sì. Lo ha fatto per Ivan, perché Ivan gli ha dato uno scopo. Perché gli voleva bene. Forse lo ha fatto un po' anche per me, non so. Non è importante.»

«Tu sapevi che moriva e gli sei stato vicino. Sapevi che ci saresti stato male. Dovevi amarlo proprio tanto.»

Nicolò ebbe un sussulto. «Non mi piace molto quella parola.»

«Perché no? È una parola così bella.»

Nicolò diede un calcio a un sassolino. «Hai ragione.» Non aggiunse altro e Leonardo non fece altre domande.

I due uomini camminarono rimanendo in silenzio per un po', un silenzio in cui Nicolò udiva rotolare un macigno del passato, di quando l'aveva detto a Leo, ti amo. Si chiese se l'altro stesse pensando alla stessa cosa, o se ad altri ricordi della sua lunga vita. Forse al suo tentato suicidio, visto che aveva nominato quello di Raffaele.

«Bon, Nico» disse Leo quando giunsero a un bivio della strada. «Mi ha fatto piacere rivederti. Qua ci separiamo. Di là casa mia, di qua casa tua.»

«Torni a piedi? Non vuoi uno strappo in macchina?»

«No, se posso cerco sempre di camminare o usare la bici, per stare in forma, sai.» Si diede due pacche sul ventre.

«Bravo. Ho notato che hai anche smesso di fumare.»

«Cosa sai che non me ne accendo una appena giro l'angolo?»

Nicolò si limitò ad alzare un sopracciglio.

Leonardo rise. «Sì, saran venti, trent'anni che ho smesso. Mi rompeva le balle la Bebe: papà, ti fa male! Poi un giorno le ho beccato un pacchetto di sigarette nello zaino di scuola. Diobòn, ti giuro è stata la prima e ultima volta in vita mia che mi è venuta voglia di tirarle un pataf.» Leonardo alzò la mano a mimare uno schiaffo e si morse il labbro inferiore in una buffa parodia di una faccia incazzata. «Per fortuna lei non ha mai preso il vizio.»

Nicolò sorrise e annuì. «Ok, allora. Ci rivediamo.»

Fra altri trent'anni.

Ma rimasero fermi. «Andate a Indian Wells?» chiese Leonardo.

«No, non so quando ripartiamo io e Michele. Domani partono Ivan e Daniele. Daniele va a Miami, abbiamo una casa lì, è stato infortunato e ricomincia a giocare in quel torneo lì, che è quello che viene subito dopo...»

«...Indian Wells.» Pronunciarono il nome insieme.

«Ah, ma allora sei diventato proprio un esperto» disse Nicolò.

«I tornei più importanti li seguo tutti. Che tipo è Reshetnikov?»

Nicolò sgranò gli occhi. «Meglio perderlo che trovarlo.»

«Noo, ma come? Sembra un tipo simpaticonon, nelle interviste!»

Nicolò fece ondeggiare il busto. «Ma sì, stavo scherzando. È un tipo invadente, insistente ed esibizionista. E ho sempre paura che faccia un po' il prevaricatore con Michele. Ma è un ragazzo d'oro, è sensibile e si fa in quattro per aiutarti, se ci tiene a te. E a modo suo è anche simpatico, a piccole dosi. E poi ho capito che deve piacere a mio figlio e non a me. Ci ho messo un po' a capirlo, ma l'ho capito. E a Michele piace, e l'ha aiutato tanto. Sarà sempre il benvenuto nella mia famiglia e gli sarò sempre grato di quello che ha fatto sia per Raf che per Michele.»

«Dev'essere un bel tipo, mi piacerebbe conoscerlo.»

«Sai che suona anche lui? La chitarra. E canta anche abbastanza bene. Mio figlio adora ascoltarlo.» Nicolò sorrise. «Io negli anni ho sviluppato una specie di idiosincrasia nei confronti della musica ma...»

«Idiosincosa?» lo interruppe Leonardo. «Non parlare troppo difficile, che in Dan Brown 'sta parola non l'ho mai letta.»

Nicolò rise. «Un... rifiuto, diciamo. Un'ostilità.»

«A te la musica non è mai piaciuta tanto. Sai che mi ricordo ancora quel discorso sborone che mi avevi fatto? Era tipo... la musica è una roba per tutti, io leggo libri perché i libri non sono per tutti.»

Nicolò abbassò la testa. «Ero un po' snob, hai ragione. Lo sono ancora, in realtà, però... ultimamente ho cambiato idea perché... sono arrivato a capire che la grandezza della musica sta proprio in quello, nel fatto che riesce a parlare a tutti.»

Leonardo si illuminò. «Bravo! Che belle parole!»

«E poi fa effetto anche a me, sai?» ammise Nicolò, in vena di confessioni. «Una canzone bella, ma anche una sentimentale, anche le emozioni da poco mi fanno stare male, come diceva Anna Oxa.»

«In realtà quel testo è di Ivano Fossati. Grandissimo cantautore.»

«E insomma, questo rifiuto che avevo per la musica l'ho trasmesso ai miei figli. Siccome io c'ero cascato da ragazzo, nelle emozioni da poco, li ho tirati su in modo molto duro, dicendogli: no! Non abbassatevi a farvi coinvolgere da questa robetta, voi siete meglio! Perché ragionavo con la mia testa dura,» si bussò la fronte, «e forse non volevo che si vergognassero delle loro... di quello... delle loro emozioni da poco come mi ero vergognato io.» Nicolò riprese fiato, si sentì un po' accaldato in viso. «Ma per fortuna Daniele è sempre stato bravo a farsi i cazzi suoi e mandarmi a fanculo, e di musica ne ha sempre ascoltata quanta ne voleva. Michele è stato molto più succube di questa cosa e all'inizio la odiava anche lui. Ivan gliel'ha fatta apprezzare, e la musica l'ha salvato, in questo periodo. Quindi questa è un'altra cosa di cui devo ringraziare Ivan. Com'è che sono finito a fare tutto questo discorso?»

Leo sorrise. «Non lo so, ma è stato un bel discorso.»

Nicolò rifletté su ciò che aveva appena detto e si stupì della relativa facilità con cui aveva parlato. Dopo tutti quegli anni la vicinanza di Leonardo gli sembrava ancora una cosa familiare, confortevole, tanto confortevole da spingerlo ad aprirsi.

Ma si diede dello sciocco: chi era quell'uomo? Uno sconosciuto, ormai. Uno sconosciuto che per giunta era stato uno stronzo manipolatore prepotente egoista, da ragazzo. Per quanto ne sapeva avrebbe potuto vendere quelle confessioni alla stampa, o raccontarle sotto forma di pettegolezzo a chiunque.

«La musica è stata anche la mia salvezza. Questo affare qui.» Leonardo si tolse il Walkman dalla tasca e lo mostrò a Nicolò. «Mi ricordo ancora il giorno che me l'hai regalato, come ci eri rimasto di merda che ne avevo già uno.»

«Ma è ancora quello o l'hai ricomprato?»

«È quello, guarda quanti graffi. Quello che mi hai regalato due volte. Anche quando sei andato in caserma a riprendermelo.»

Nicolò sgranò gli occhi. «Ma... Io sono quasi sicuro... anzi, non quasi, io sono sicuro di aver detto a tuo nonno...»

«Di non dirmi niente. E lui me l'ha detto nell'istante che me l'ha riportato, in ospedale, dicendomi che gli avevi detto eccetera eccetera. E mi ha detto anche che telefonavi per sapere come stavo. Una volta mi ricordo che ero lì che ascoltavo di nascosto e ti giuro ci è mancato tanto così che tiravo via la cornetta di mano al nonno.»

«Ma...»

«Ha fatto benissimo a dirmelo, mona. Sai che contento che ero che pensavi ancora a me? E sai quanto sono stato contento che me l'hai ripreso tu questo affare? È come se me l'avessi regalato due volte! Un giorno mi dovrai raccontare come hai fatto a fartelo tornare indietro... Io mi son sempre immaginato scene eroiche...»

«Ma quali scene eroiche... mi son presentato in caserma, ho detto che i commilitoni ti avevano fottuto il Walkman e il generale, colonnello, cos'era, me l'ha riportato.»

Leonardo fece schioccare la lingua. «No, non ci credo. Secondo me la stai facendo facile.»

Nicolò rise, non insisté e anzi decise di cambiare argomento. «Ma piuttosto... come è possibile che funziona ancora?»

«Funziona benissimo. Una volta le robe le facevano per farle durare, no come adesso che si rompono appena scade la garanzia.»

«Stai facendo discorsi da vecchio.»

«Dimmi che non è vero! Ho un frullatore di mio nonno che funziona ancora, una roba degli anni Settanta! Il minipimer che ho comprato quattro anni fa alla SME è già rotto, diobòn.»

Nicolò rise.

«Comunque, dicevo. Che questo affare qua mi ha salvato. Prima mi dicevi che nonostante tutte le pedate che ho preso sono riuscito a tirare avanti senza diventare un alcolizzato come mio padre e mio fratello. È così che son riuscito a tirare avanti. Ho perso il conto delle volte che ero talmente depresso che mi veniva voglia di incioccarmi. E qualche volta, quando stavo proprio male male, l'ho anche fatto. Tipo quando ho lasciato Ettore, ho fatto due giorni di fila di bala. Però gran parte delle volte mi dicevo: no. Son triste? Ascolto una canzone e mi tiro su. Mi ha salvato, questo affare, ti giuro, non so come avrei fatto senza. Per quello continuo a usarlo, anche se le cassette son rovinate e su YouTube trovo più roba. È il mio migliore amico, non posso metterlo nel baule. Capisci?»

Nicolò annuì, con un groppo che risaliva in gola al pensiero della cassetta di Raffaele, ma soprattutto di Michele e del suo iPad, di tutte le volte che lo aveva visto sorridere tra sé e sé con lo sguardo perso fuori dalla finestra e la musica che gli ridava voglia di vivere. Grazie a Ivan che aveva deciso di scardinare quello stupido pregiudizio.

E poi d'improvviso ricordò quel discorso al telefono con Ivan, quando gli aveva accennato di Leonardo e gli aveva detto che se l'avesse conosciuto sarebbero andati sicuramente d'accordo.

E delle parole uscirono senza freno dalla sua bocca: «Secondo me a Ivan staresti simpatico. Vuoi venire a cena da noi stasera? Così lo conosci. E ti presento anche i miei figli.»

Ma cosa cazzo mi salta in mente?!

«Wow! Mi presenti il grande Michele Bressan?»

«E anche Daniele» puntualizzò Nicolò, che già cominciava a pentirsi della proposta fatta d'impeto.

«Be', sì, scusa, giustamente per te i tuoi figli sono uguali, io mi faccio suggestionare all'idea di conoscere il vip, ehehe! Comunque vengo volentieri, non ho niente da fare. Sempre che tuo padre non dice qualcosa. Ogni volta che lo becco si gira dall'altra parte.»

«No, quello stronzo sta a casa sua, cioè, nel suo pezzo di casa, che corrisponde a dove una volta c'erano il fienile e la stalla dei maiali.»

Leonardo fece un sorrisetto. «Ah, me lo ricordo il cjot.» Abbassò per un attimo lo sguardo e quando lo rialzò e riprese a parlare il suo tono era molto entusiasta. «Bon, a che ora, quindi?»

«Otto? Ordiniamo una pizza da asporto, ti va?» 

«Benissimo!»

«Può venire anche tua figlia, se non vuoi lasciarla sola.»

Leonardo rise. «Ma pensi che vive ancora con me? Guarda che ha quarantadue anni, è sposata da dieci, ormai. Sta a Udine.»

Nicolò si grattò la testa. «Sono un cretino, hai ragione, me la immaginavo come una ragazza, non so neanch'io perché.»

«Allora alle otto.»

«Benone, a dopo. Ah... e... non è che ti andrebbe di portare la fisarmonica?»

La bocca di Leonardo si distese in un sorriso. «Quella sempre volentieri!»

Note 🎶 

Ehehehehehehe.

Eheheheheheheheheheheheheh.

Risata dell'autrice che legge nel pensiero ai suoi lettori. Ve l'ho fatta sudare 'sta reunion, eh?

E cosa succederà adesso in soli tre capitoli? Pacche sulle spalle o qualcosa di diverso? Voi in cosa sperate? E cosa vi sembra più verosimile?

E come vi sembra questo Leonardo 2.0? 

Ci rileggiamo giovedì, e lasciatemi una stellina per ogni tantonononon che è mancato dagli ottanta (o quanti sono) capitoli in cui Leonardo non c'è stato.

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