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104. E non avere più niente da dire

Ma chiedilo a Kurt Cobain
Come ci si sente a stare sopra a un piedistallo
E a non cadere
Chiedilo a Marilyn
Quanto l'apparenza inganna
E quanto ci si può sentire soli
E non provare più niente
Non provare più niente
E non avere più niente
Da dire

(D. Brunori, Kurt Cobain, 2014)

Settembre-ottobre 2019

La discesa nel baratro cominciò a Pechino, con una telefonata di Anna.«Puoi venire in camera di Michele? Si sta comportando in modo strano.»

Era una richiesta insolita, Anna ci sapeva fare con Michele e risolveva sempre tutti i problemi da sola. Anzi, negli ultimi tempi era stato più spesso Nicolò a chiedere aiuto a lei.

«Cos'è successo?»

«Non vuole uscire dal letto.»

A Nicolò, sul momento, parve una sciocchezza, ma Anna insisté dicendo di non averlo mai visto così, e quando Nicolò giunse in camera e lo trovò immobile, inerte, che rispondeva a monosillabi, capì che Anna aveva ragione.

Michele si ritirò dal 500 di Pechino con un infortunio inventato, e decisero di saltare tutta la tournée asiatica per tornare a Capriva. Nicolò sperava che l'aria di casa, la casa che Michele, a differenza sua, aveva sempre amato, gli avrebbe fatto bene.

Ma non fu così.

I primi giorni furono apatici, ma Michele perlomeno fece le attività quotidiane di base: alzarsi, mangiare, lavarsi, guardò persino qualche cartone animato in TV, e quando Anna o Nicolò gli parlavano, rispondeva; senza entusiasmo e con frasi molto brevi, ma rispondeva. 

Le cose, però, precipitarono molto rapidamente. Le parole si fecero sempre più rare, i pasti più brevi, è la sua permanenza a letto sempre più prolungata. La prima giornata in cui si rifiutò completamente di alzarsi, Nicolò, per disperazione, gli portò la cena in camera. Non la volle. La mattina dopo la trovò sulla scrivania, mangiata a metà.

Il pomeriggio stesso chiamò il medico di famiglia, e insieme ad Anna le spiegò la situazione. 

«Da come la state descrivendo, mi sembra una forma di depressione. Ma per sicurezza gli farò una visita e qualche analisi» disse lei.

La dottoressa entrò in camera di Michele, cercò di parlargli, Michele quasi non sembrò accorgersi della sua presenza, si fece girare e rigirare, rispose assecondando con il suo corpo quello che lei cercava di fargli: quando lo mise seduto per auscultare il torace, si mise seduto e rimase in quella posizione, quando gli misurò i riflessi, le facilitò il compito mettendosi nelle posizioni richieste, e infine tenne il braccio teso per i prelievi sanguigni. Ma non disse una parola e non rispose a una singola domanda.

«Il ragazzo mi preoccupa» disse la dottoressa prima di salutarli. «Vi lascio il numero di questo psichiatra un dottore molto...»

«No!» la interruppe secco Nicolò. «Mi rifiuto di mettere mio figlio nelle mani di un ciarlatano!»

La dottoressa cercò di convincere Nicolò, ma lui non cedette: aveva visto cosa avevano fatto quei criminali sia a Raf che a Elisa.

Li avevano ammazzati. Erano corresponsabili della loro morte. E ogni volta che Nicolò ci pensava gli sembrava che il cuore soffocasse nel suo petto.

Oh Raf...

E quando la dottoressa se ne andò, ci si mise anche Anna. «Mi sembra di capire che hai un'avversione nei confronti della psicologia. Lo sai che io studio psicologia all'università, vero?»

«Sì, lo so. E se vuoi saperlo, credo che sia pseudoscienza.»

«Non lo è. Le ricerche psicologiche si basano su campioni statistici, esattamente come quelle mediche.»

«Con la differenza che nella medicina i disturbi sono reali, e le cure anche.»

Anna sgranò gli occhi. «Non ci posso credere che stai dicendo una cosa simile, con tuo figlio in quelle condizioni. Ti sembra un disturbo finto?»

«No! No che non mi sembra finto! Ma non credo che uno psichiatra sia la soluzione. Vanno a casaccio! Non sanno quello che fanno! Fanno solo danni!»

«Hai avuto una cattiva esperienza con uno psichiatra in passato?»

«Fatti i cazzi tuoi, signorina!»

Anna strinse le labbra e socchiuse gli occhi. «A un'altra persona a una frase del genere l'avrei mandata a fanculo e non ci avrei parlato più. Ma capisco che sei ferito e ci passerò sopra. Adesso non mi sembri in grado di parlarne, pensaci su, e in qualsiasi momento bussa alla mia stanza. Per qualsiasi cosa. Vorrei aiutare sia te che Michele.»

«Concentrati su Michele, perché io sto benissimo.»

***

I risultati delle analisi di Michele arrivarono e confermarono ciò che la dottoressa aveva già anticipato: Michele fisicamente stava bene. 

Poco dopo le analisi, purtroppo, arrivò anche qualcos'altro. O meglio, qualcun altro: lo stramaledetto psichiatra, chiamato da Anna.

Nicolò non si disturbò nemmeno di farlo andare via, per aspettare a farle la scenata che si meritava: «Come cazzo ti sei permessa, brutta stronza! È mio figlio, e ti avevo detto che con questa gentaglia non voglio averci niente a che fare!»

Il dottore, se dottore si poteva chiamare, non sembrò scomporsi per la frase di Nicolò e rimase a osservare la discussione, impassibile.

«Ho deciso di prendere la situazione in mano, perché tu non vuoi fare un cazzo! Non lo vedi che sta sempre peggio? Ha smesso persino di lavarsi denti! Lui, Michele mister mezz'ora con lo spazzolino!»

«Smettila di parlare dei cazzi suoi davanti a questa persona!» poi si rivolse a lui. «Ovviamente le pagherò il disturbo di essere venuto, ma se ne può andare anche subito.»

«Mi sembra di notare una leggera diffidenza nei miei confronti» disse lui. La frase era sarcastica, ma il suo tono non lo era affatto. «Forse la renderebbe più tranquillo se le dessi le mie credenziali: sono laureato in medicina e chirurgia e specializzato in psichiatria con lode e ho fatto una specializzazione in psicoterapia cognitivo comportamentale.» Il dottore consegnò a Nicolò un biglietto da visita. «Se è interessato, sul mio sito può trovare le mie pubblicazioni, ne ho diverse all'attivo su depressione e disturbo bipolare, sono due aree che mi interessano molto, credo che sia per questo che la dottoressa Bonfatti vi ha dato il mio contatto.»

Nicolò non prese il biglietto che il medico gli stava porgendo. «Non mi interessano i suoi studi di stregoneria. Vi conosco a voi psichiatri. Sapete solo parlare a vanvera e fare danni.»

«Deduco che lei abbia avuto cattive esperienze, ma non voglio forzarla a parlarne di fronte a terze persone.»

«Non ne parlerei nemmeno tête-à-tête, non si disturbi a provarci.»

«Nicolò, lo vuoi capire o no che dobbiamo fare qualcosa e questa è l'unica soluzione?» intervenne Anna.

Nicolò non cedette, lo psichiatra alla fine venne mandato via, e quando il giorno dopo Nicolò si accorse che Michele aveva svuotato un armadietto della cucina divorandosi l'inverosimile, chiese consiglio a Daniele, solo per sentirsi dire che doveva chiamare lo psichiatra. 

Raf. Cosa gli avrebbe detto di fare Raf? La stessa cosa? Anche se lui dagli psichiatri aveva subito solo danni?

Gli mancava chiamarlo, anche solo per chiacchierare di sciocchezze, sentirsi ripetere aneddoti per la centesima volta... 

Raf, a differenza di Nicolò, ci capiva di emozioni. Lui sì che avrebbe saputo come agire, gli avrebbe dato qualche buon consiglio. Forse si era trovato in una situazione simile a quella di Michele, forse sarebbe riuscito persino a parlarci, con Michele.

Nicolò ci provò, a parlarci, lo invitò a uscire, e trascinandolo quasi di peso lo portò in cortile per prendere un po' del freddo sole di ottobre. Michele rimase lì, seduto immobile sotto al portico, apparentemente inconsapevole di quello che stava succedendo intorno a lui. 

Era solito radersi ogni mattina, ma aveva la barba lunga di diversi giorni e stava iniziando a puzzare di sudore: Nicolò lo portò in bagno, allora, e lo invitò a lavarsi. Ma quando tornò dopo mezz'ora lo trovò seduto sulla tazza chiusa del WC, esattamente dove l'aveva lasciato, nella stessa identica posizione. Fu Nicolò stesso a spogliarlo, farlo entrare nella vasca da bagno e lavarlo con una spugna. Mentre era chino su di lui gli parlò, rammentandogli qualche ricordo felice, ma soppesando ogni parola per paura di ferirlo, si ritrovò a evitare Sara, e la mamma, e alla fine si ritrovò lui stesso muto, incapace di comunicare, perché gli sembrava che ogni ricordo felice di Michele andasse a finire, prima o poi, lì. 

Pianse in silenzio, trattenendo ogni singhiozzo per non farsi sentire, e dopo averlo lavato, asciugato e rimesso a letto, bussò alla porta di Anna.

«Chiama quel cazzo di psichiatra. Proviamo a parlarci, non so più dove sbattere la testa» le disse, col terrore di essere sul punto di fare l'ennesimo, tragico errore irreparabile della sua vita.

Anna gli sorrise. «Stai facendo la scelta giusta.»

***

Anna aveva poi dato a Nicolò il biglietto da visita dello psichiatra. Dottor Enrico Sfiligoj. Sul suo sito presentava il suo lavoro e le sue aree di specializzazione, e sulla pagina intitolata "pubblicazioni" c'era una lunga sfilza di articoli con titoli in inglese: effettivamente buona parte aveva nel titolo le parole "depression" e "bipolar disorder", un disturbo che Nicolò aveva sentito nominare forse in qualche film o libro, ma che non aveva la minima idea di cosa fosse. Nicolò si astenne dal cercare su Google quella parola: sapeva benissimo che era il modo migliore per alimentare la sua preoccupazione.

L'elenco delle pubblicazioni di quel dottore sembrava effettivamente notevole, ma Nicolò come faceva a sapere quanto effettivamente valessero come credenziali? 

Domani fondo il Giornale della Terapia psicologica dei cristalli magici, ci pubblico un articolo in cui spiego come curare la depressione cospargendoti di sale da cucina. E poi me lo metto come credenziale!

L'impressione di Nicolò era che pubblicazioni e articoli di quella disciplina fossero tutti su questo tenore.

Elisa era andata dalla psichiatra, e non le era servito a niente. Quella maledetta cialtrona che le aveva consigliato di sottoporsi alla chirurgia plastica! Assassina bastarda! Nicolò ogni tanto ci pensava, si si pentiva di non averla mai denunciata.

Per non parlare delle decine di diversi dottori che aveva visto Raf. Sin da quando aveva cinque anni! Quell'informazione datagli dalla madre lo aveva davvero sconfortato...

E adesso stava per fare lo stesso errore con Michele. Ma cos'altro poteva fare? Possibile che quei dottori facessero sempre e solo danni? Possibile? Forse Elisa e Raf erano stati sfortunati, forse la disciplina col tempo era migliorata... Nicolò si diceva queste cose per consolarsi.

Chiamò anche Daniele, che stava giocando a Mosca. Gli disse cosa aveva deciso di fare, gli chiese in cosa consistesse una psicoterapia. Stava cercando una consolazione, e voleva che gli dicessero che non stava facendo un errore.

Il giorno dopo Nicolò accolse il dottor Sfiligoj con due profonde occhiaie, perché non aveva dormito per l'ansia. Pretese di essere presente alla visita, e il dottore acconsentì per quella prima volta «ma solo perché, a quanto mi ha detto la dottoressa Bonfatti, il paziente non risponde a nessun tentativo di comunicazione.»

Il dottore, in realtà, non fece nulla di speciale. Entrò in camera di Michele, lo salutò, gli fece qualche domanda molto semplice: come stai, da quanto tempo ti senti così, vuoi che restiamo soli. Michele non rispose.

Quando uscirono dalla stanza, il dottore disse a Nicolò che avrebbe voluto parlare un'ora insieme a lui per farsi spiegare tutto quello che era successo, e fare eventualmente anche una seconda seduta per ampliare il discorso: visto che Michele non voleva comunicare in alcun modo, voleva cercare di avere un quadro più ampio possibile attraverso le persone che gli stavano intorno. «Se per lei non è un problema, possiamo cominciare subito? Ho ancora mezz'ora, inizi intanto a spiegarmi come si è evoluta la situazione.»

«No, se non le dispiace vorrei usare questa mezz'ora per dirle cosa penso della psichiatria, della psicologia e tutte queste cazzate» rispose Nicolò.

«Lei vuole essere rassicurato.»

«Ma bravo, che perspicace. Si vede che è uno psichiatra» disse Nicolò sarcastico.

«Mi dica.»

«Mia moglie soffriva di... depressione, diciamo.»

«Questo è molto interessante. Spesso la propensione alla depressione è ereditaria.»

Nicolò aggrottò le sopracciglia. «Davvero?» Poi scrollò la testa. «Non divaghiamo. Le dicevo di mia moglie: è stata per anni in cura da una psichiatra, psicofarmaci e tutto. Ci sono stato anch'io a parlare con questa... questa criminale! E sa cosa diceva a mia moglie? Che la chirurgia estetica poteva esserle d'aiuto! E sa cosa ha fatto la chirurgia estetica a mia moglie? L'ha ammazzata! Si è rifatta, si è guardata allo specchio, non si è riconosciuta e si è ammazzata!»

«Mi dispiace per il suo lutto, signor Bressan. Ma sua moglie non è stata uccisa dalla chirurgia, è stata uccisa dalla depressione.»

«Depressione per cui prendeva farmaci che non l'hanno mai curata! E le ripeto che ho sentito quella dottoressa con le mie orecchie dire che la chirurgia estetica le sarebbe stata utile!»

«Non mi chieda di criticare il lavoro di una collega. Lei mi sta descrivendo una situazione tragica ma parziale, su cui io non posso dare un giudizio. Dovrei studiare con attenzione la storia clinica della paziente.»

«Benissimo. Aggiungiamo anche il mio migliore amico. Raffaele Novelli, forse ha sentito parlare di lui in tv. In cura da psichiatri da quando aveva cinque anni. Sua madre mi ha detto di recente che ha iniziato a dargli psicofarmaci a sei anni, su indicazione di uno psichiatra. Sei anni!» Nic fece un sei con le dita. «Le sembra normale dare psicofarmaci a un bambino così piccolo?»

«Mi chiede di nuovo di giudicare una situazione che...»

«Mi risponda se le sembra normale o no!» Nicolò aveva alzato un po' la voce.

Il dottore annuì. «Le dirò volentieri il mio pensiero sulla psichiatria infantile. La posso rassicurare dicendole che la facilità alla prescrizione farmacologica è una cattiva abitudine della scuola americana, e che personalmente cerco di lavorare soprattutto con la psicoterapia e ricorrere ai farmaci solo nei casi gravi. Soprattutto per quanto riguarda i bambini. Ma ci sono alcuni casi in cui è necessario usarli. Purtroppo ignoro se il suo amico sia stato vittima di uno psichiatra sciagurato, magari di scuola statunitense, o se le cure fossero necessarie.»

«Necessarie il cazzo! È passato da una dipendenza all'altra ed è...» Faceva ancora fatica a pronunciare quella parola: «È morto per complicazioni da alcolismo! Ecco che effetto hanno avuto gli psicofarmaci che le piacciono tanto!»

«Ho detto l'esatto contrario, non mi piacciono affatto e se posso non li prescrivo. Ma voglio subito mettere in chiaro una cosa con lei: Michele è uno di quei casi in cui ho il sospetto saranno necessari.»

«No!»

«Per favore, mi ascolti e poi decida. Lei può cambiare medico, rivolgersi a un altro psichiatra e trovarne uno che non le prescriverà dei farmaci, assecondando la sua richiesta. Lo troverà di sicuro, se cerca abbastanza, perché i soldi comprano tutto. Ma sappia che uno psicoterapeuta che asseconda le delusioni del paziente è un pessimo psicoterapeuta. Io mi reputo una persona onesta e le dico questo: se prenderò in cura Michele, analizzerò con la massima cura la sua situazione, lo sottoporrò anche a un elettroencefalogramma, e se riscontro quelli che mi sembrano... chiamiamoli squilibri di funzionamento, se li riscontro gli somministrerò per un periodo dei farmaci che possano riportare in ordine questi squilibri. La cosa verrà monitorata e affiancata a una psicoterapia. Si informi e ci pensi.»

Il discorso del dottore inizialmente tranquillizzò Nicolò, sia perché la presenza di un test rendeva ai suoi occhi più giustificati i farmaci, sia per l'onestà di parlare contro i suoi interessi, solo per sospettare, ragionandoci meglio, che l'apparente onestà fosse in realtà un trucchetto psicologico. Quello era uno psichiatra, se non lo sapeva lui come abbindolare le persone...

Ma Michele stava sempre peggio e lasciarlo in quelle condizioni non era pensabile. Era una situazione diversa sia da Elisa che da Raffaele, gli sembrava nettamente più grave e forse davvero sconfinava nella neurologia, forse qualche tipo di farmaco era davvero necessario.

Ma ogni volta che la sua razionalità lo portava in quella direzione, le sue emozioni lo gettavano nel terrore.

***

La seconda visita del dottor Sfiligoj coincise con il ritorno a casa di Daniele da Mosca (dove aveva perso in finale alla Kremlin Cup), a fine ottobre. 

Daniele si mostrò molto preoccupato per Michele e parlò anche lui con il dottor Sfiligoj, sommergendolo di informazioni che Nic ci avrebbe impiegato qualche secolo a dare: gli disse di come Michele fosse sempre stato un bambino e un ragazzo  difficile, del rapporto morboso con la madre e Nic fu stupito dalla sincerità con cui ammise: «E con me un rapporto praticamente non ce l'ha, io sono sempre stato sul cazzo a lui e lui è sempre stato sul cazzo a me. Da piccolo lo odiavo proprio, perché nostra madre aveva occhi solo per lui.»

Poi il dottore si ritirò in privato con Nicolò che rispose alle tante domande su Elisa, riguardo soprattutto ai suoi stati depressivi, più che al rapporto con Michele. Chiese persino a Nicolò se gli fosse possibile recuperare qualche vecchia ricetta medica per sapere quale terapia avesse seguito.

«E quindi mi pare di capire che questo episodio depressivo di Michele è iniziato quando lei gli ha rivelato come è morta sua madre.»

«Sì, lo so che non avrei dovuto farlo.»

Ma il dottore non era d'accordo e anzi gli fece capire che a suo avviso avrebbe dovuto farlo prima.

Il giorno dopo Michele avrebbe dovuto sottoporsi all'elettroencefalogramma, ma quando cercarono di caricarlo in macchina, sotto gli occhi del dottore si ribellò. Si scrollò di dosso Nicolò e andò a chiudersi a chiave in camera. Rimase chiuso dentro per tutto il giorno, cosa che preoccupò tutti al punto da decidere di rinunciare. Il dottore allora propose di portare un macchinario a casa loro per effettuare il test lì: sarebbe stata una spesa notevole ma Nicolò se la poteva permettere e la fece, il macchinario sarebbe stato portato a casa loro cinque giorni dopo.

Nell'attesa, Nicolò, Anna e Daniele cercavano di interagire con Michele senza successo. Finché una mattina Nicolò, entrando in camera, trovò davanti a sé qualcosa di diverso, che fece nascere in lui una debole speranza.

Michele stava abbracciando la carota di peluche. Quella carota gigante antropomorfa che Ivan gli aveva regalato l'anno prima, e che Michele aveva cominciato a portarsi dietro come antistress. Michele aveva avuto l'impulso di fare qualcosa: si era alzato dal suo letto, aveva cercato il pupazzo in armadio e l'aveva abbracciato, forse in cerca di contatto.

E avvicinandosi a lui notò un secondo dettaglio: la carota aveva qualcosa, una specie di fascia che la cingeva. All'inizio Nicolò non riuscì a capire cosa fosse, ma poi si rese conto che era la fascetta per capelli di Ivan. Quella che il ragazzo aveva regalato a Michele dopo la finale di Wimbledon.

Ivan.

Michele cercava Ivan.

Perché non ci aveva pensato prima? Ivan aveva sempre saputo come prenderlo. Nicolò ricordava ancora quel giorno a Roma, quando Michele era uscito gridando dallo spogliatoio e poi, poco dopo, lui e Raf avevano sentito Ivan che cantava sommessamente nell'altra stanza.

Nicolò scese in cortile per non farsi sentire e telefonò a Ivan. Non aveva idea di dove si trovasse, ma anche se partecipava a qualche torneo doveva essere in Europa, era mattina ed era molto improbabile che stesse giocando, probabilmente si stava allenando.

Rispose dopo pochi squilli con un preoccupatissimo: «È successo qualcosa a Michele?»

Nicolò scoprì che Ivan sapeva già tutto. Era in contatto con Anna, che gli aveva raccontato cosa stava succedendo. «Non ti chiamavo, so che tu sei una persona molto riservata. Non volevo dare fastidio. Michele ha spento il telefono qualche giorno dopo che è arrivato a Capriva e non è mai più acceso e non ha letto i messaggi che gli mando.»

«Ivan, io credo che lui abbia voglia di vederti. Forse gli farebbe bene se venissi qui. Io lo so che tu sei molto impegnato, ma...»

«Salto Parigi, vengo lì subito.»

«Non è già iniziato a Parigi? Ho perso traccia dei giorni, cazzo... Daniele lo salta per riposarsi e...»

«Incomincia domani. Sto già vedendo voli da...»

«No. Fermo. Gioca Parigi e vieni dopo la fine del torneo. Tanto c'è la settimana di pausa prima delle Finals.»

«Michele è più importante di stupido torneo.»

«Io sono sicuro che Michele non vorrebbe mai che tu saltassi un torneo per lui. Sei a Parigi e non ha senso che vieni qui, perdi tempo, soldi, e magari ti fanno pure pagare una penale... Per una volta in vita tua, ascolta il consiglio di una persona adulta: gioca quel torneo e metticela tutta, e tra una settimana vieni qui.»

Ivan rimase in silenzio per parecchi secondi, prima di dire: «Va bene, Kolja. Però io ti chiamo ogni giorno e voglio parlare anche con te, non solo con Anna. Perché adesso io ti sento e ti sento persona che stai tanto male, e io voglio sapere anche che tu stai bene.»

«Ma cosa ti frega di me, dai...» minimizzò Nicolò. «Grazie, comunque. Grazie davvero che vieni.»

«Non devi ringraziare.»

***

La macchina per l'elettroencefalogramma venne installata in salotto, e Michele non si scompose per il test; l'unico segno che diede di accorgersi che glielo stavano facendo era, di tanto in tanto, qualche movimento degli occhi a osservare medico ed elettrodi.

Alla terza visita, risultati alla mano, finalmente arrivò la prescrizione che Nicolò tanto aveva temuto. Comprò i farmaci ma al momento di darglieli non ne ebbe il coraggio.

Finse spudoratamente con Anna e Daniele. «Non ha voluto prenderli.»

«E allora c'è solo una soluzione: devi farlo ricoverare in una clinica psichiatrica» fu la risposta di Daniele.

«Non essere esagerato, sta molto meglio a casa» cercò di ragionare Anna.

«Ma li deve prendere, 'sti cazzo di medicinali. Gli viene un collasso se continua così!»

«Mi spieghi come cazzo faccio a darglieli?» disse Nicolò.

«Glieli inietti, cazzo! Glieli sciogli nel cibo! Vuoi che faccia la fine della mamma?!»

«Non gridare coglione! Ti sente!»

«Ma se non sente più un cazzo! È totalmente scollato dalla realtà!»

La sera stessa, Daniele andò in camera di Michele per parlare con lui e dopo una decina di minuti uscì dalla stanza gridando: «Papà! Anna! Venite! Ha cercato di parlare! Ha cercato di dire qualcosa!»

Entrambi accorsero, ma quando arrivarono trovarono Michele con la testa nascosta sotto le coperte.

Non ci fu verso di farlo uscire.

Il giorno dopo Nicolò si fece forza e con il terrore che avrebbe avuto se fosse stato sul punto di buttarsi in un precipizio, cercò di parlare con Michele, che era finalmente uscito dalle coperte: nel cuore della notte era andato in cucina a mangiare qualcosa, e tornando in camera sua per fortuna aveva lasciato aperto.

«Michele, tu stai male. Qui ci sono dei medicinali che ti faranno stare meglio. Dovresti prenderli.»

Michele era steso su un fianco con il viso rivolto verso Nicolò, ma non lo guardava, i suoi occhioni scuri erano persi nel vuoto. Aveva la barba lunga, ormai, e anche i capelli gli erano un po' cresciuti: lui li teneva sempre molto corti e ben ordinati, li tagliava spesso, e anche se non erano ovviamente cresciuti molto, in un mese e mezzo, i ricciolini che stavano iniziando a formarsi intorno alle sue orecchie gli davano un'aria stranamente infantile, in contrasto con la barba molto folta che aveva.

«Michele, mi senti? Per favore, fammi almeno un cenno per farmi capire che mi stai sentendo...»

E un cenno Michele lo fece, a modo suo: si girò sull'altro fianco. Era un segnale, una forma di comunicazione. Era un rifiuto di comunicare ma era un rifiuto attivo.

«Sono talmente disperato che riesco a trovare motivo di consolazione anche in te che mi fai capire di non voler parlare» ammise ad alta voce.

Michele rimase immobile.

Nic appoggiò una mano sulla spalla di suo figlio e sentì i muscoli contrarsi leggermente al suo tocco. L'aveva sentito, se ne era accorto. Ma fu l'unica debolissima reazione che ebbe.

Apri la bocca per dirgli: ti voglio bene.

La sua lingua rimase ferma sul palato vicino ai denti.

T...

T...

Nella sua testa rivide Raffaele.

Ma non il giorno di trent'anni prima in cui gli aveva detto quelle parole proibite; rivide l'ultima volta al fiume, quando le parole gli erano uscite al contrario. Nicolò, ogni volta che ci ripensava, credeva di aver sprecato l'ultimo momento per dirlo. 

L'ultimo momento della sua intera vita.

Ma ne aveva un altro, di momento, lì davanti a lui. Poteva dirlo a suo figlio che stava male, uscire dall'armatura, come gli aveva detto di fare Raf.

T...

Ora la lingua era persino arretrata in centro al palato.

Spalancò la bocca col desiderio di emettere un urlo, ma anche quello si fermò prima di infrangersi sulle corde vocali.

Guardò ancora Michele. Lo guardò a lungo, con un po' di affanno che gli agitava il petto.

«Io un po' ti capisco, credo. Faccio fatica anch'io a parlare. Come ti senti, tu, quando non riesci a tirare fuori le parole? Chissà se ti senti come me...»

Si alzò ed uscì dalla stanza, chiuse la porta alle sue spalle e tirò un pugno al muro, facendosi sanguinare le nocche come un idiota. E chi spuntò in corridoio proprio in quel momento? Anna.

Abbassò lo sguardo con aria imbarazzata. «Scusami, stavo andando in bagno... e... è successo qualcosa a Michele?»

Nicolò emise un sospiro. «No. È successo qualcosa a me. È successo che credo di avere un problema grande come una casa, no... come aveva detto Daniele? Grande come una supernova.» Si puntò  l'indice sulla fronte. «Qui dentro.»

«Vuoi parlarne?»

«Forse.»

***

Il torneo di Parigi era finito e Ivan aveva difeso il titolo dell'anno prima. Sentendo Nicolò al telefono, gli disse di esserci riuscito pensando a Michele e Raf. Sarebbe arrivato lì a Capriva due giorni dopo, si sarebbe fermato una notte e sarebbe partito la sera del giorno successivo.

Era davvero urgente che arrivasse, perché Michele aveva smesso completamente di mangiare e sembrava aver sviluppato persino una specie di terrore nei confronti del cibo: Ivan era l'ultima speranza di Nicolò per riuscire a smuoverlo.

Quel pomeriggio sarebbe tornato il dottor Sfiligoj, e Nico era pronto ad affrontare con lui una sessione un po' diversa dal solito.

Appena sedettero nello studio di casa, Nic esordì con delle parole che furono tra le più difficili che avesse mai pronunciato in tutta la sua vita: «Potrebbe avere senso se diventassi anch'io un suo paziente?»

Note 🎶

Colonna sonora del finale di capitolo: Vangelis, Chariots of Fire (Momenti di Gloria). Ma ci credete? Ci credete che Nic finalmente, FORSE si è reso conto di aver passato una vita intera a pensare cazzate? Cederà? Non cederà? Lo scopriremo nel prossimo capitolo.

Vi do appuntamento a giovedì, e lasciatemi una stellina per ogni volta che Nic, nella sua vita, ha detto che la psicologia è una cazzata.

Note 2: leggere Play in parallelo ▶️

Per arrivare più o meno in pari con la storia potete leggere fino al capitolo 116.

Ma, come avevo scritto anche nello scorso capitolo, secondo me potete tranquillamente arrischiarvi a leggere fino alla fine!

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