Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

10. Un'attesa pari a un'agonia

Troppe volte vorrei dirti "no"
E poi ti vedo e tanta forza non ce l'ho
(F. Califano, Minuetto, 1973)

~~~

Avviso importante: la versione che state per leggere di questo capitolo è stata editata per non violare le regole di Wattpad. Ho tagliato alcune parti e riscritto altre, cercando di non cambiare il senso di ciò che accade. Se volete leggere la versione completa del capitolo trovate un link a un PDF pubblico qui a destra. Vi prego di leggere quella versione perché più completa, autentica e aderente alle mie intenzioni narrative e psicologiche.

Per questo capitolo è particolarmente importante perché ho dovuto tagliare veramente tanto, se leggete la versione di Wattpad la portata drammatica degli eventi è pesantemente ridotta.

~~~

24 marzo 1981

Nico prese la corriera molto presto, quella mattina, per non incontrare Leonardo.

Il giorno prima era andato via da casa sua pochi minuti dopo la fine di quello squallido momento. 

Leo l'aveva persino pulito con qualcosa, alla fine, un fazzoletto, un calzino, chissà. Nico era rimasto a guardare le magliette piegate dentro l'armadio, immobile per parecchi secondi, forse un minuto, lo scemare dell'eccitazione aveva fatto riemergere i pensieri, e la sua coscienza non aveva voluto credere a ciò che era appena successo.

Poi se n'era andato. Senza dire nulla. Forse l'aveva salutato, forse Leo gli aveva detto qualcosa, Nico aveva lasciato quella casa in un tale stato di agitazione che non lo ricordava più.

Aveva cenato poco. 

Quando poi era andato in bagno a lavarsi, si era accorto di essere ancora un po' sporco. Aveva dovuto strofinare un po', cercando di non pensare a cosa stava strofinando.

Aveva dormito male.

Aveva ripensato, quella mattina, a ciò che era successo, e ripensarci lo aveva messo di nuovo in agitazione. Ma non appena qualche riflessione cercava di farsi strada nel suo cervello, un malessere bruciante alla base dello stomaco glielo svuotava, il cervello, gli impediva di ragionare.

Avrebbe voluto che si trattasse di un incubo, ma non lo era. 

Mi è piaciuto.

Quella era la cosa più tremenda: gli era piaciuto.

Stava entrando nell'edificio scolastico, mentre pensava quelle cose, e di nuovo quella fitta allo stomaco.

Perché mi è piaciuto? Com'è possibile?

Non seppe rispondersi. Era colpa di Leonardo? Lui non era mai stato così! Doveva essere colpa sua!

«Ohu, Nico.»

Eccolo. Lo incontrò nonostante fosse partito presto come al solito. Forse Leonardo l'aveva fatto apposta ed era arrivato a scuola in anticipo, forse sapeva che Nico prendeva sempre la corriera presto, e in tutti quei mesi in realtà era stato lui stesso a evitarlo. Nico non ebbe il coraggio di voltarsi. Solo sentire la sua voce gli fece sudare la schiena. 

Ma una spallata lo costrinse a guardarlo.

Gli occhi scuri strafottenti, quel sorrisetto pieno di malizia, pieno di segreti, un sorriso che diceva: io so cosa sei, e ora ti ho in pugno.

«Presente il bagno dei bidelli?» sussurrò Leo.

«Quello al piano terra?»

Leo annuì. «Non ci va mai un cane. Vieni a ricreazione. Primo cesso. Se non son già lì vai dentro e aspettami.»

Il cuore di Nico accelerò, mentre la sua testa annuiva, come un corpo estraneo, indipendente. Annuiva, la sua stupida testa. Gli diceva: sì, Leo, mi hai in pugno.

***

E cosa voleva fare, poi, quello stronzo? E cosa voleva Nico?

Due minuti che stava seduto su quella tazza del cesso, la campanella era suonata almeno cinque minuti prima.

Porta che cigolava. Toc toc.

«Sì?» disse Nico.

«Coiòn, devi dire: occupato! Metti che non ero io?»

In effetti...

Nico aprì. Leo entrò, sbatté la porta dietro di sé, richiuse il catenaccio.

Si guardarono negli occhi per qualche secondo.

Poi Leo prese la mano di Nico e la appoggiò dove non avrebbe dovuto. Nico chiuse gli occhi. Lo stava toccando attraverso la stoffa, d'accordo, ma il cuore gli stava pompando sangue in circolo con tanta violenza che lo sentiva ovunque: nel collo, nei polpastrelli, nei lobi delle orecchie.

Il cuore non gli batteva in quel modo da quel giorno in mezzo ai campi, quando Leo l'aveva baciato. 

Cristo madonna, ho baciato un maschio. Un maschio!

Riaprì gli occhi.

«Perché non ricambi quello che ti ho fatto ieri?» sussurrò Leo. Aveva gli occhi socchiusi e respirava dalla bocca aperta. Quella bocca carnosa e sempre un po' screpolata.

Nico decise che era quella la prima cosa che voleva fare. Si avvicinò e mise la sua bocca su quella di Leo. La aprì, e Leo non protestò, la aprì a sua volta, le loro lingue si incontrarono, lottarono per entrare una nella bocca dell'altro. 

Era un bacio diverso da qualsiasi altro bacio avesse dato. Diverso dal mulinare incerto con la Fede, diverso dalle carezze dolci con la Daiana. Diverso anche da quel confuso incontro di lingue e saliva in mezzo ai campi.

Nico infilò le dita tra i capelli spettinati di Leonardo e lo tenne premuto a sé, e mentre lo baciava si rese conto che quello era il suo primo vero bacio, il primo dato con passione, con desiderio. 

Mentre erano stretti uno all'altro, Nico uscì per qualche secondo dalla trance.

Ma cosa sto facendo? si chiese. Come mi sto depravando?

Solo che quello stesso pensiero, nato come un rimprovero razionale, ripetendosi non fece altro che farlo perdere di nuovo nel delirio.

«Cazzo, attento, mi hai sporcato la maglietta!» lo riproverò Leo quando ebbero finito di baciarsi.

«Oh... scusa.»

«Esco a lavarmela. Tu resta dentro. Esci dopo che sono andato via.»

«O... ok»

Leo fece per andarsene, poi gli rivolse un'ultimo sguardo, già fuori dal loculo.

«Domani stesso posto, stessa ora?»

La porta del bagno si chiuse ancor prima che Nico finisse di dire: «Ok.»

***

Aprile 1981

L'ossessione di Nico si trasferì dalla masturbazione a Leonardo in men che non si dica.

Sempre a ricreazione, sempre nel bagno dei bidelli al primo piano, che non veniva mai usato da nessuno.

Nico e Leo si chiudevano lì dentro quasi ogni giorno. 

La Daiana si era accorta che qualcosa non andava. Nico era sempre più insofferente con lei, ma non aveva il coraggio di lasciarla: dopo il rapporto sessuale non voleva che lei lo accusasse di averla mollata dopo essersi preso la soddisfazione. 

«Vieni a casa mia oggi prima di andare tennis?» chiese lei.

Nico si alzò dal banco di scatto, era appena suonata la campanella della ricreazione.

«Sì, magari passo un salto.»

«Ma dove vai?»

«Mi scappa, scusa!»

Nico corse fuori dalla classe, giù al piano terra, destra, corridoio, prima porta a sinistra. 

Il bagno era ancora vuoto, Nico entrò nel solito loculo, sedette sulla tazza chiusa e aspettò. 

Leo arrivò dopo neanche un minuto. Entrò, chiuse la porta dietro di sé, e si buttò addosso alla faccia di Nico.

Che lo spinse via. «Ma che cazzo fai?» sussurrò. Non si poteva rischiare di parlare ad alta voce.

«Eddai, quando ti decidi a fare qualcosa di più? Mi sono rotto le palle di limonare e basta.»

Non era la prima volta che ci provava, e a Nico l'idea non piaceva. Toccarsi a vicenda era un conto, ma quello che gli stava proponendo Leo gli sembrava un degradante punto di non ritorno.

Ma Leonardo era un bastardo manipolatore e Nico già sapeva che ce l'avrebbe avuta vinta.

«Lo faccio quando ricambi tu» gli rispose.

«Io non lo faccio neanche se mi dici che farlo mi fa vivere duecento anni. Non sono finocchio fino a quel livello. Tu sei molto più finocchio di me.»

«Non è vero! E parla piano!» Nico si alzò in piedi e per zittirlo lo baciò. 

Ma dopo qualche secondo notò che l'altro rimaneva inerte. «Be'?»

«Se non saliamo di livello non limono più con te.»

«Non dire monate, me l'hai già detta 'sta cosa, non ti credo.» Gli prese la mano per spronarlo ad agire.

«Vuoi vedere che stavolta mi credi?»

E così dicendo uscì dal cesso.

Nico rimase immobile per due secondi aspettandosi di vederlo rientrare, ma udì la porta principale del bagno aprirsi e chiudersi. «Ehi!» gridò.

Rimase lì da solo come un coglione.

***

Leonardo, il pezzo di merda, tenne fede alla sua promessa. Nico lo aspettò per uno, due, tre giorni. Resistette.

Al quarto non ce la fece più. Lo incrociò alle otto in Ribi e lo apostrofò. Si odiò per la propria debolezza. «Vieni in bagno oggi a ricreazione» disse, sperando che l'altro capisse. 

Leo annuì, mentre si accendeva una sigaretta.

***

Nico si rese conto di aver fatto un errore. Cedendo al ricatto aveva detto a Leo: pur di stare con te sono pronto a scendere a qualsiasi compromesso.

E la cosa veramente triste e squallida, era che... era vero. Non era passato nemmeno un mese da quando erano iniziati i loro incontri al cesso, che Nico sentiva già di non poterne fare in alcun modo a meno.

Nico si era buttato consapevolmente in quella che era a tutti gli effetti una malsana dipendenza, né più né meno dell'alcol o delle sigarette che tanto piacevano a Leo.

Nico aveva bisogno di Leo, era il suo chiodo fisso, un'ossessione che lo accompagnava tutto il giorno, che aveva peggiorato i suoi voti a scuola e persino le sue prestazioni a tennis.

Questa era la cosa che lo faceva stare più male: lui ci teneva al tennis, ma non riusciva a concentrarsi a dovere ad allenamento e durante i tornei. Non vinceva più, non migliorava più.

Si stava abbandonando all'indolenza di quella relazione, stava indulgendo nelle sue pulsioni più basse, quelle che lo accomunavano alle bestie, e si vergognava di sé stesso. Lui che era sempre andato fiero del suo autocontrollo e della sua serietà, un tratto che aveva sempre avuto sin da bambino, si stava lasciando andare a una vita depravata, si stava aggrappando con tutte le sue forze a quella vita depravata come fosse la sua unica ancora di salvezza.

E rendersene conto non cambiava nulla. 

Eccolo, Leo. Entrava nel cesso, chiudeva la porta. Nico rimaneva seduto sulla tazza. La cosa triste era che aveva persino cominciato a piacergli. Le prime volte lo aveva fatto in modo meccanico, cercando più che altro di capire come non fare disastri. Ma adesso che ci aveva preso confidenza, si lasciava andare e gli piaceva. Si sentiva sporco, stupido e sbagliato, ma questo non gli impediva di trovarlo piacevole.

La cosa che gli piaceva di più, però, era la mano di Leo tra i suoi capelli. Infilava le dita tra le ciocche e accompagnava i movimenti di Nico. Era forse l'unico momento dei loro incontri in cui lo toccava delicatamente, un contatto che sembrava una carezza, e Nico si sentiva ancora più stupido nell'amare quel momento, si sentiva una femminuccia romantica che voleva tenerezza, era un anelito che lo umiliava intimamente più ancora delle pulsioni animali.

Anche perché Nico sapeva benissimo che quella non era una carezza, ma un contatto casuale: Leo appoggiava la sua mano lì per stare comodo e Nico si illudeva che quel gesto contenesse un po' d'affetto.

«Vieni, girati.» Leo invitò Nico ad alzarsi, lo spinse contro la porta. «Prima o poi ti convinco a fare anche l'ultima cosa che ci manca» sussurrò.

Sì, prima o poi l'avrebbe convinto, magari con un ricatto come aveva fatto per il sesso orale.

E Nico decise che non si sarebbe umiliato di nuovo in quel modo. 

«Fallo adesso.»

Leo si immobilizzò. Bestemmiò. «Non ci credo, cazzo! Veramente?»

«Sì.»

Leo non se lo fece ripetere due volte, ma Nico emise un grido di dolore senza che riuscisse a controllarlo. Spinse via Leo con il gomito e si girò per fronteggiarlo.

«Ma sei mona a sberlare così? Metti che arrivava qualcuno?» disse Leo sottovoce a denti stretti.

«Mi hai fatto malissimo!»

«Ma non dire monate!»

«No, senti, ho cambiato idea» disse. «Fa troppo male e se devo essere sincero l'idea non mi ispira per niente.»

Leo roteò gli occhi. «Diobòn che smosciabiga che sei.» Spinse Nico a lato e aprì la porta. 

Nico non si umiliò a chiedergli di restare.

***

Maggio 1981

Le insistenze di Leo proseguirono, ma Nico era rimasto scioccato dal dolore provato, quindi, almeno alle prime, non cedette. Era terrorizzato all'idea che Leo, da un momento all'altro, lo costringesse con un ricatto, ma si limitò, per diverse settimane, a insistere, a dargli dello smosciabiga, a cercare di persuaderlo in vari modi. 

Non era solo la paura del dolore a frenare Nico. Era anche una questione di ruoli: nelle sue fantasie si era sempre immaginato nel ruolo attivo. Ma Leo su quel punto era stato inammovibile.

Nico, invece, non lo era del tutto. In fondo anche sul sesso orale aveva cambiato idea. 

Nico si era convinto che fosse uno schema fisso di peggioramento delle sue pulsioni. Sì, forse c'era sempre stata in lui la tendenza a essere attratto dai maschi, ma se Leo non avesse dato il via a tutto, se non l'avesse tentato e sedotto, lui non avrebbe mai saputo com'era stare con un maschio, e si sarebbe abituato alle ragazze e la sua vita sarebbe stata facile e serena. 

E ogni passo in più nelle sue esperienze omosessuali era un passo che lo allontanava per sempre da una vita normale.

Ma ormai c'era sprofondato dentro e non vedeva più la cima del burrone. L'unica via era continuare a scavare in quell'ossessione.

E un giorno d'inizio maggio Leo non volle incontrare Nico nel bagno. Gli chiese di andare a casa sua, dopo scuola, un'ora prima che Nico andasse a tennis.

Nico sospettava che l'altro avesse organizzato qualche tipo di trappola per costringerlo ad avere un rapporto ma, come suo solito, cedette alla richiesta, alla tentazione.

La Daiana fu molto contenta che, una volta tanto, Nico l'accompagnasse in cortile a fumare. «Stavo iniziando a preoccuparmi» gli disse.

«E di cosa?»

«Non so, si sentono tutte quelle storie di droga e pensavo che andavi a drogarti. Ma non ho mai visto buchi sulle tue braccia e non mi pare che torni stonato, dal bagno.»

Nico fu sconcertato da quel pensiero della Daiana. «Ma per chi cazzo mi hai preso?» La cosa che lo scioccò di più, però, era la verità che si nascondeva dietro quelle parole: i rapporti con Leonardo erano davvero una droga, per lui.

Arrivò a casa di Leo alle quattro meno dieci, già in completo da tennis, sul suo motorino. Ai suoi aveva detto che doveva beccarsi con la Daiana, prima dell'allenamento, e non gli avevano fatto storie: era già successo più di una volta, per davvero.

Furia come al solito lo accolse con un abbaio e Nico non fece neanche in tempo a bussare, Leo aprì la porta d'ingresso.

Non si dissero niente, Nico entrò e si stupì di vedere il padre di Leo in cucina, seduto davanti alla TV – un vecchissimo arnese in bianco e nero – con un'espressione catatonica.

«Mi avevi detto che avevi la casa vuota...» sussurrò Nico.

Leo ridacchiò. «Lui è come se non c'è, guarda.» Proseguì a voce più alta: «Tata! Io e Nico andiamo su a limonare!»

Nico inorridì, mentre il padre girava lentamente la testa. «Eh?» disse. Socchiuse gli occhi e aggiunse qualcosa in sloveno, con la voce impastata.

«Andiamo su, dai.» Leonardo prese Nico per la manica della felpa e lo trascinò. 

«Che cosa ti ha detto?»

«Ma cosa so io? Non parlo mica quella lingua di merda.»

Nico imboccò le scale, seguendo Leo. «Sì che la parli, l'hai chiamato tata.»

«Tata è friulano, mica jugo.»

«Viene dallo sloveno, c'è anche quella canzone che passa sempre su Radio Gorizia Uno...» Nico canticchiò, imitando i suoni che ricordava: «Tata cupame auto...»

Leo si fermò di scatto sulle scale, quasi facendo inciampare Nico. Si voltò e gli puntò l'indice sullo sterno. «Smettila di prendermi per il culo.»

Nico alzò le mani. «Permaloso. È la verità che sei jugo, tanto quanto sei finocchio.»

Nico sapeva che quella era una presa in giro che lo faceva arrabbiare, e lo stava provocando apposta. Non aveva mai avuto un intimo rapporto di amicizia con lui, nonostante i loro padri si conoscessero da sempre, ma gli era capitato spesso di giocare con lui e altri bambini, durante i periodi di vendemmia o alle elementari, e ricordava ancora molto bene un episodio in cui Nico e gli altri maschi del gruppo avevano cominciato a cantargli dietro: «Ju-go, Ju-go...» Leonardo aveva dato in escandescenze e rotto un dente a uno dei bambini con una legnata.

«Sono nato in Italia da padre italiano. Sono italiano.» Si girò di nuovo e finì la rampa. Era proprio un argomento su cui non riusciva a scherzare.

Entrarono in camera, Leo si diresse subito all'armadio, rovistò tra un mucchio disordinato di vestiti e ne estrasse una scatolina tonda, tipo crema Nivea, ma non era Nivea, era metallizzata con delle stampe blu in sloveno o croato (Nico non distingueva le due lingue).

«E non ti permettere di dirmi di nuovo jugo, l'ho comprata in Jugo solo perché lì non mi conoscono. E perché costava meno.»

«Cos'è?» chiese Nico prendendola in mano.

«Vasellina.»

Nico fissò Leonardo. 

«Poi dimmi che non penso a te...»

Era arrivato il momento, quindi.

Be', Nico se lo aspettava. Quando Leo l'aveva invitato a casa sua aveva sospettato che il motivo fosse quello.

«E lo facciamo sul letto come i veri, così stai anche più comodo, viziato che non sei altro.»

Nico fissava la scatolina, se la rigirava tra le mani. Il passaggio verso un nuovo abisso ancora più profondo, il punto di non ritorno definitivo.

«Sei vestito da tennis, come quel giorno in stalla. Quando ci ho provato la prima volta» disse Leonardo.

Nico alzò gli occhi. Leo lo guardava con un'espressione rapita e la bocca socchiusa. «Ti stanno tanton bene quei pantaloni attillati...»

Nico lanciò la scatoletta sul letto, prese Leonardo per la maglietta e lo tirò a sé. 

Sprofondarono insieme nel materasso.

Note 🎶 

Scopriamo quindi sempre più lati stronzi del carattere di Leo, ma anche quali sono i suoi punti deboli, come ad esempio il fatto che non sopporta di essere chiamato jugo, un dettaglio a cui avevo già accennato nei capitoli precedenti.

Piccola digressione sulla xenofobia di confine. C'è sempre stato un rapporto un po' tormentato tra Italia e Jugoslavia nelle zone a immediato ridosso del confine: come potete immaginare c'è tutt'ora una minoranza slovena piuttosto nutrita in Friuli Venezia Giulia, e tantissime persone che hanno parenti di vario grado di origine slovena o croata (i cognomi che finiscono in -ić sono comuni da quelle parti).

Nonostante ciò, friulani e giuliani hanno sempre guardato con un po' di superiorità agli jugoslavi, che venivano regolarmente chiamati jughi in tono spregiativo e associati a qualità non proprio negative, ma direi piuttosto "sfigate". Dare a qualcuno dello jugo era precisamente come dargli dello sfigato. Esempio: qualcuno si presentava vestito male? "Sei proprio uno jugo" o "Sembri uno jugo" erano due insulti comunissimi. E in lingua friulana "sclâf" (slavo) era usato come sinonimo di "trasandato" e ancora capita di sentire qualche vecchio che lo usa distrattamente in quel modo. Gradevole, eh? Ma non stupitevi, erano gli stessi anni in cui si usava comunemente mongolo come sinonimo di stupido e si dava con leggerezza dello spastico o dell'handicappato alle persone quando inciampavano o facevano male qualche esercizio a educazione fisica.

Per questo motivo, non vi dovete stupire che Leonardo si vergogni delle proprie origini. Sarà interessante vedere se è come imparerà a non vergognarsene in futuro.

Nota a margine: la Slovenia è una splendida piccola nazione, se capitate da quelle parti fatevi un giro a Lubiana o andate a mangiare in una gostilna nel Brda, che sarebbe il Collio sloveno.

Ci rileggiamo lunedì e lasciatemi una stellina per tutte le volte che Leo fa lo stronzo con Nico. 

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro