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1.

"Hai chiamato quelli della Gemäldegalerie? Devono inviarci tutte le schede necessarie entro oggi. Ah, e più tardi verrà la squadra tecnica a controllare i livelli di umidità e di luminosità delle sale".

Per un breve istante, Elettra rimpianse i suoi fedeli auricolari, che ogni mattina la scortavano dal suo appartamentino di Revaler Straße fino al Bode-Museum di Berlino e che le consentivano di astrarsi dal mondo.

Amava il suo lavoro, si era impegnata con tutte le sue forze per ottenere quello stage, quindi non aveva nessuna intenzione di lamentarsi della posizione, onorevole ma insieme onerosa, che aveva da poco acquisito. Quando, però, il professor Hubert, che era il suo tutor ma soprattutto il responsabile del museo, la accoglieva con un laconico Willkommen e passava subito a elencare le urgenze della mattina nel suo inglese atono e ineccepibile, non poteva fare a meno di provare quel caotico momento di sconforto.

Si chiedeva se sarebbe stata all'altezza delle sue richieste. Si chiedeva se avrebbe potuto respirare, e quando. Soprattutto si chiedeva se, un giorno o l'altro, il professore le avrebbe svelato la ricetta miracolosa che gli consentiva di essere già tanto lucido, attivo e accelerato a quell'ora del mattino.

Sospirò e si rassegnò ad andargli dietro, obbediente come un Basset hound e solerte come una vestale.

"Che faccio se le schede non sono pronte?", azzardò in uno dei rari e fugaci attimi di silenzio che si aprivano nel lungo monologo del suo responsabile.

"Chiami un taxi e le vai a ritirare di persona. Ci avevano assicurato che sarebbero state pronte, non possiamo permetterci altri ritardi".

La ragazza cercò di star dietro la lunga falcata del suo tutor mentre si sforzava di appuntare ogni parola sul taccuino che stringeva in mano, con l'unico risultato di apparire mediocre sia nell'una che nell'altra operazione. 

"Ma... e la squadra tecnica?", farfugliò, con la penna che sgusciava via dalle dita sudate.

"Trova il modo!"

Quella risposta lapidaria troncò la discussione. Elettra annuì, anche se lui non poteva vederla, e decise di non protestare. D'altra parte, era solo una stagista.

Il fatto che il professore le avesse offerto l'opportunità di seguire da vicino i preparativi della grande mostra che stavano allestendo era già di per sé una fortuna che non capitava tutti i giorni. Sarebbe stata davvero una sciocca a non approfittare della preferenza e della fiducia che lui le aveva dimostrato.

Sarei potuta finire a preparare caffè o a spillare fotocopie!

Se lo ripeté ancora una volta, e scacciò via la fastidiosa tentazione di sentirsi sopraffatta da quella mole di richieste.

Il suo improvviso silenzio, tuttavia, sembrò attirare l'attenzione dell'uomo. Hubert, infatti, aveva rallentato il passo finché Elettra non gli fu accanto.

"So che ti sto chiedendo più di quello che dovrei", disse con tono più pacato. "Ma penso che tu abbia le capacità e il giusto entusiasmo. E, detto tra noi, non ho intenzione di affidare nessuno di questi compiti a quei Kinder ohne Initiative dei tuoi colleghi!"

La ragazza sorrise. Era l'ombra del professore da due mesi, ormai: ogni volta che qualcosa lo infervorava o lo infastidiva, iniziava a mescolare il tedesco all'inglese. Era l'unico segno tangibile di emotività.

L'uomo si attardò un istante a fissare la lunetta del Della Robbia che sovrastava una delle uscite della sala e lei gli si fermò al fianco. A dispetto di tutto, si ritrovava spesso a guardare con simpatia al suo capo. Sotto la dura scorza della sua austerità, intuiva un amore palpabile e vivo verso i quadri, le statue, perfino le monete e i medaglioni, tra i quali aveva scelto di trascorrere oltre metà della sua vita. Quella dedizione le trasmetteva una profonda commozione.

"Avremo la responsabilità di centocinquanta opere in prestito, e almeno una cinquantina di musei sparsi in tutta Europa ci staranno con il fiato sul collo... mein Gott, faremmo meglio a non pensarci!"

"Sarà sensazionale!", si permise di osservare lei sulla scia di quell'emozione che, in qualche modo, la faceva sentire sua complice.

"Sarà un inferno!", chiosò il professore. "E adesso andiamo. Devo incontrare una persona, questa mattina".

Si diresse verso la galleria che sovrastava l'ingresso dell'edificio e che fungeva da raccordo tra le due ali del museo. Elettra lo seguì, lasciandosi avvolgere dal biancore marmoreo dell'atrio, che abbagliava ancora di più nella luce di quel mattino di giugno. Al centro del passaggio, appoggiata alla balaustra, si allungava la sagoma di un uomo. Era intento a fissare l'imponente statua equestre del Grande Elettore che troneggiava al centro dello spazio sottostante.

"Oh, sei già qui!", esclamò il professore con accento allegro in direzione dell'unica altra persona che, in quel momento, popolava quella parte del museo, ancora non aperto al pubblico.

Elettra rivolse al suo tutor uno sguardo sorpreso: quell'affabilità era del tutto inconsueta per lei. Pungolata dalla curiosità, allungò il collo per sbirciare chi fosse il nuovo venuto. Quello, all'udire il saluto, sembrò perdere interesse nell'ingombrante figura di bronzo che aveva di fronte e si rivolse verso di loro.

"Il mattino ha l'oro in bocca", replicò in risposta, mentre allungava la mano a stringere quella del professore.

"Elettra, ti presento Leo Fournier, uno dei nostri consulenti per la mostra".

La ragazza riuscì a stento ad annuire. Il fiato le era venuto meno di fronte alla bellezza vibrante di quel ragazzo. Non era molto più alto di lei, ma le linee del suo corpo erano asciutte ed eleganti. Aveva grandi occhi azzurri e lunghi capelli di un castano chiaro, che teneva legati con estrema cura sulle spalle.

Il suo aspetto affascinante, però, non era il solo elemento ad averla folgorata. C'era qualcosa di indicibile, nel modo in cui le aveva rivolto lo sguardo o forse nel modo in cui la stava osservando, che le aveva fermato il cuore. Quell'emozione, incerta e disordinata, aveva lo stesso sapore dolciastro di un ricordo che esplode in testa all'improvviso, di qualcosa che si è conosciuto ma di cui ci si è dimenticati.

"Spero che voi due avrete modo di chiacchierare, nelle prossime settimane", proseguì il professore. "Leo mi dà il tormento perché il mio italiano non è ancora abbastanza buono".

Le ultime parole del suo capo, condite da una risata affettuosa, scivolarono nelle orecchie di Elettra e si trasformarono in un suono indistinto, come lo scroscio d'acqua di una fontana. Per quel che la riguardava poteva anche aver parlato in sanscrito o in mandarino: era del tutto rapita dal sorriso che aveva illuminato il viso di Leo. Un sorriso che rivelava un immediato, istintivo interesse, e che era senza dubbio rivolto a lei.

"Conoscerti è un vero piacere", scandì il ragazzo con voce musicale e in perfetto italiano.

Le tese la mano e lei la strinse di rimando, poi mise insieme una smorfia che doveva somigliare a un sorriso e annuì in maniera meccanica.

"Sarò lieta di collaborare con te".

"Sembra che, da queste parti, tutti siano lieti di fare qualcosa con qualcuno che nemmeno conoscono", osservò lui indecifrabile.

Elettra non riuscì a stabilire se fosse infastidito dallo scarso entusiasmo che era stata in grado di dimostrare o se avesse solo voglia di prenderla in giro. Non si era aspettata una replica così poco conforme ai convenevoli che si sfoggiavano in simili circostanze.

Si sforzò di articolare una frase di senso compiuto che potesse farla sembrare meno che stupida, ma non le venne in mente niente di utile. Di fronte alla sua esitazione, lui sembrò perdere interesse. Si rivolse all'altro interlocutore e spostò l'argomento su alcuni documenti di cui Elettra non sapeva niente di niente.

Se non fosse stata troppo impegnata a scansionare quel tipo da capo a piedi, si sarebbe sentita delusa e frustrata al pensiero di essere stata tagliata fuori dalla discussione. In quella circostanza, invece, stava ringraziando il fatto che nessuno dei due uomini le stesse prestando attenzione. Poteva prendersi tutto il tempo per concentrarsi su Leo e scandagliarne con avidità ogni dettaglio.

Quel ragazzo aveva dei modi piuttosto singolari. Parlava un inglese semplice e pacato, e si intuiva che non si trovava a proprio agio con quella lingua. Quanto agli abiti, anche in quel campo sembrava avere gusti parecchio strani. Vestiva con ricercata noncuranza un lungo cappotto scuro dalla foggia rétro, avvitato e pieno di bottoni, e si permetteva il lusso di sfoggiare una sciarpa leggera e dai colori vivaci, che gli girava più volte attorno al collo.

"Quasi dimenticavo... ho appuntamento al piano di sotto con i ragazzi della Numismatica", mormorò il giovane, cambiando argomento con fare repentino. "Ci vediamo più tardi al Café?"

"Temo che non sia possibile", rispose Hubert. "Questa giornata sarà frenetica".

Il ragazzo non sembrò accogliere bene la replica, come se una dilazione non potesse entrare a far parte dei suoi piani.

"Abbiamo ancora in sospeso quella discussione", obiettò. "Quella datazione errata".

"Può raggiungerti Elettra", stabilì l'altro. "Riferisci a lei".

La ragazza sobbalzò all'udire quella proposta e si sentì obbligata, suo malgrado, ad abbandonare l'estatica ammirazione di Leo per tornare con i piedi per terra, a occuparsi di problemi più urgenti e tangibili di un paio di occhi azzurri e di mani ben fatte.

Lui? A me? Dev'essere uno scherzo.

Ammesso che fosse riuscita a condurre una conversazione di senso compiuto su una qualsiasi opera medievale di dubbia origine, poi, dove diavolo avrebbe trovato il tempo per fare tutto il resto?

Stava per protestare e avanzare una scusa, quando Leo si girò a fissarla e la immobilizzò con un sorriso.

"Volentieri".

Le sembrò che avesse indugiato su quella parola, quasi a prolungarne l'esistenza. Rispose al suo saluto di congedo e lo seguì con lo sguardo finché non fu inghiottito dall'ombra della scala.

Elettra non era mai stata una di quelle ragazze che svengono di fronte al primo maschietto affascinante che tagli loro la strada. Di solito era così presa dallo splendore dei quadri e dalla perfezione delle statue con cui lavorava che tutto il resto le appariva noioso e normale.

Quel tipo, però, aveva qualcosa di magnetico che non aveva potuto fare a meno di avvertire. Qualcosa di indecifrabile, che non sarebbe riuscita a spiegare a parole e che non aveva nessuna fondata motivazione, dal momento che si erano scambiati appena qualche frase di circostanza.

Il suo sesto senso le suggerì che avrebbe fatto meglio a stargli alla larga. Aveva tutta l'aria di uno capace di condurre il proprio interlocutore dove desiderava con una manciata di sorrisi affabili e di parole cortesi. Non proprio il tipo di distrazione di cui lei aveva bisogno, certo, ma quel pensiero razionale non fu sufficiente per mettere a tacere la sua crescente curiosità.

"Chi è?", chiese al professore appena fu certa che fossero rimasti soli.

Si era sforzata di modulare la domanda con la massima indifferenza e il più professionale distacco. Sapeva che, pronunciata da lei, quella richiesta poteva suonare davvero come una semplice curiosità.

Il suo capo, in effetti, non diede segno di sorprendersi né di insospettirsi. Si limitò a proseguire verso l'altro lato della galleria, senza curarsi del fatto che lei non riuscisse a stare al suo passo, e le rispose didascalico come sempre.

"Madre italiana, padre francese, famiglia disastrata. Facoltosi ed eccentrici. Lui è cresciuto girovago, con un'educazione tanto vasta quanto disordinata".

La ragazza sbatté le ciglia. Quelle scarne informazioni snocciolate da Hubert con fare distratto erano servite solo ad accrescere il suo desiderio di saperne di più.

"E a noi perché interessa tanto?", balbettò.

"Per la sua collezione privata e la sua conoscenza del Rinascimento italiano. Non so come sia entrato in possesso dell'una o dell'altra, e francamente non lo voglio sapere, ma posso dirti che la sua consulenza finora è stata molto preziosa. Te ne accorgerai presto", ridacchiò l'uomo, come se avesse ricordato qualcosa di molto divertente che lei non poteva conoscere. "Resterai molto sorpresa".

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