PROLOGO
Ero rannicchiata dietro la porta della mia camera, nella speranza di sentire qualche parola in più.
La mamma mi aveva detto di non muovermi, di non fare nessun rumore e di badare a Ray. Poi mi aveva dato un bacio sulla testa, ripetendomi più volte quanto mi volesse bene, e uscì per andare da papà.
Mi voltai verso la culla accanto al mio lettino, dove giaceva beato il mio piccolo fratellino. Ray non piangeva. Dormiva, supposi.
Appoggia di nuovo l'orecchio sulla porta bianca e fredda, concentrandomi per captare quante più parole potevo.
«Non ti darò un bel niente!» disse papà con lo stesso tono che usava quando mi sgridava.
«Allora non hai capito», disse una voce roca e profonda. «Se non ci dai quei codici di tua spontanea volontà, prima tu ucciderò e poi mi metterò a cercarli. Ci vorrà più del previsto, ma di tempo ne ho in abbondanza.» aggiunse.
Sussultai a ogni singola parola, ma mi ricordai di non fare rumore.
«Allora ti consiglio di iniziare da subito, la ricerca potrebbe essere davvero lunga.» rispose papà.
«Non provocarmi Shoe!» urlò la voce.
Lottai contro la voglia di piangere, e piano aprii la porta. Non tutta, ma quanto bastava da farmi vedere cosa succedeva in soggiorno.
Mamma e papà erano di spalle e non riuscivo a vedere i loro volti. Ma vedevo benissimo le facce dei due uomini grossi e massicci. Uno era biondino, più basso dell'altro, ma pur sempre enorme. Aveva occhi scuri e un ghigno sulla faccia.
Spostai lo sguardo e mi fermai ad osservare la gigantesca cicatrice presente sul volto dell'uomo più alto. Era enorme, la cicatrice. Partiva dal sopracciglio sinistro, e scendeva su tutta la guancia, per poi fermarsi poco al di sotto del mento. Era orribile.
Aveva capelli neri, rasatissimi. E aveva uno sguardo truce. Lo accostai a un leone pronto a uccidere la sua preda.
Sussultai ancora rendendomi conto che la preda era il mio papà.
«Ve l'abbiamo detto in tutti i modi: abbiamo chiuso con con Paul e il suo clan. E non vogliamo avere problemi.» papà era calmo, ma sapevo che era arrabbiato.
«Gary, Gary.» esordì il biondino che continuava ad avere un ghigno malefico. «Perchè ci rendi le cose difficili? Noi non vogliamo mica farti del male, vogliamo solo che tu ci restituisca cioè che è nostro. Cioè che quei cani bastardi dei tuoi amici ci hanno rubato tempo fa'.»
«Non vi è stato rubato niente! Quei codici non sono mai appartenuti a voi. Li ho verificati io stesso. Nessuno era a conoscenza della loro esistenza, eccetto Paul, io e voi, a quanto pare.» la voce di papà si era alzata di un paio di tacche.
Il sorriso malvagio sul volto del biondino si allargò, mosse il capo in direzione dell'altro uomo. Questi scattò in avanti, afferrando il braccio di papà, per poi girarlo tanto da portarlo dietro la schiena. Sentii uno strano rumore, come qualcosa di duro che si spezzò.
Papà tremava dal dolore, ma non urlò e non si dimenò per liberarsi dalla presa.
L'uomo biondo avanzò piano, toccando i mobili a uno a uno, verso la porta della mia stanza. Tutti lo seguivano con lo sguardo, e vidi sul volto della mamma un misto di terrore e angoscia. Mi faceva male vederla così.
Mi immobilizzai, senza emettere alcun suono, nell'attesa che l'uomo malvagio entrasse. L'avrei morso. E sarei corsa tra le braccia della mamma. Si, era una buona idea.
«John, aspetta!» urlò la mamma.
«Kate!» ringhiò mio padre. Aveva la voce rotta, probabilmente per il dolore che provava al braccio.
Mamma non lo degnò di uno sguardo, continuava a guardare John, che si bloccò a pochi passi dalla porta.
«Cara Kate, hai forse qualcosa da dirmi?» disse.
«Se ti do quello che stai cercando, mi prometti che smetterai di farci visita e ci lascerai in pace?» domandò la mamma con voce tremante.
«Non chiedo altro.» John avanzò di nuovo verso di loro mentre parlava.
La mamma sparì dal mio campo visivo, per poi tornare. Aveva tra le mani un oggetto piccolo e nero. Una chiavetta USB, immaginai.
Vidi papà corrugare la fronte, e guardare la mamma con fare interrogativo.
La mamma non era più spaventata, sul suo volto non vidi emozioni. Fissò papà per qualche secondo, poi tornò a guardare John, e gli porse la chiavetta.
Papà si dimenò, contorcendo la faccia dal dolore.
«Che diavolo fai, Kate?» urlò furioso.
«La cosa giusta.» sussurrò mamma.
Strinsi forte il mio portafortuna: l'anello che qualche tempo prima papà mi aveva regalato. Mi disse che desiderava con tutto il cuore che lo avessi sempre con me, per ricordarmi di lui.
John allungò la mano ossuta per prendere la chiavetta. La mamma esitò, poi gliela posò nella mano.
«Hai promesso.» disse con le lacrime agli occhi.
John guardò la chiavetta, se la rigirò tra le mani. Poi si rivolse alla mamma, e sorrise. Ancora quel ghigno malefico.
Fece un cenno all'uomo con la cicatrice sulla faccia, che lasciò subito papà.
Ritornarono alla posizione iniziale: i miei genitori di spalle, e i due uomini ben visibili ai miei occhi.
Si guardarono per un breve secondo. John fece un sorriso strano, poi disse: «È stato un piacere, signore e signora Shoe.» si girò e si avviò verso la porta.
Se ne andavano, finalmente!
Stavolta fu l'uomo con la cicatrice a sorridere.
Successe tutto in un secondo. Sentii un suono sordo, e vedi papà portarsi la mano sana al ventre, per poi cadere a terra.
La mamma diede un urlo straziante, tanto che mi fece tappare le orecchie con le mani. Le lacrime incominciavano a salirmi su per gli occhi.
Poi di nuovo quel suono sordo. La mamma sussultò, e cadde anche lei su papà.
Respirava a fatica, e piangeva. Appoggiò la testa sulla schiena di papà e l'abbracciò. Poi si bloccò e rimase lì immobile come papà.
L'uomo sorrise ancora, e andò da John che si era fermato per osservare la scena.
Si girarono entrambi e aprirono la porta d'ingresso per andare via.
Mi scappò un singhiozzo di dolore, vedendo i miei genitori in una pozza di sangue.
I due uomini girarono di colpo la testa guardando nella mia direzione.
Sussultai e corsi per prendere tra le braccia il mio fratellino.
Dovevo andare via di lì.
Aprì la finestra, e saltai attenta a non farmi male. Inizia a correre più veloce che potevo, senza girarmi per vedere se mi stavano seguendo. Non avevo paura per me, ma per Ray.
Conoscevo abbastanza bene le vie di Seattle, per una bambina di 10 anni come me.
Girai l'angolo che portava al ponte vicino alla casa della mia amica di scuola.
Saltai veloce sull'erba e mi avviai sotto il ponte, cercando di non svegliare Ray.
Era quasi notte, e non c'era nessuno per la strada che potesse aiutarmi. Mi nascosi veloce sotto il ponte. Faceva abbastanza freddo, e mi maledissi per non aver portato una coperta. Fortunatamente Ray era avvolto caldo e al sicuro nella sua copertina.
Sentii dei passi sopra la mia testa. Qualcuno camminava su per il ponte. Strinsi più forte Ray a me.
Dio, fa che non pianga. Dio, fa che non pianga, pregai tra me e me.
Il rumore dei passi non c'era più, era andato via lasciando spazio ai rumori della notte.
Non riuscii a dormire, né a piangere, né a gridare, a disperarmi.
Restai impietrita, cullando piano Ray.
Non ero una stupida, sapevo che i miei genitori non c'erano più. Che non sarebbero corsi in mio aiuto. Ero rimasta da sola e dovevo proteggere il mio fratellino.
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