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8 - Buio

Schivai la sua gomitata, e gli assestai uno schiaffo dietro la testa.

Prese la pistola e me la puntò alla faccia, ma un secondo dopo si trovava contro la sua. Si mosse veloce, attaccando con una raffica di pugni. Riuscì a colpirmi solo due volte: avevo parato tutti i suoi affondi.

Mi diede un calcione alla gamba e io mi abbassai a terra appoggiata su un ginocchio. Alzai lo sguardo e contemporaneamente la mano che impugnava ancora la pistola.

«Sei morto.» dissi puntandogliela sotto il mento.

Sbuffò, mentre mi aiutava ad alzarmi.

Ansimavamo entrambi.

«Nessun miglioramento?» chiese Ryan speranzoso.

Feci un sorrisetto. «Sei pronto. Ti ho insegnato tutto quello che sapevo.»

Sul suo viso apparvero diverse emozioni, ma ce n'era una che prevaleva sulle altre: soddisfazione.

Prese a pugni il cielo, e urlò dalla gioia.

Ryan era migliorato tantissimo. Era diventato veloce e più forte, avevo fatto in modo da sviluppargli di più i sensi. Gli avevo insegnato a seguire di più l'istinto, ad ascoltare il suo corpo. Imparava in fretta, e anche bene. Anche il suo corpo era cambiato, passando da sottile grissino a un robusto ragazzo. Gli avevo consigliato di continuare ad allenarsi per tener sempre svegli i muscoli.

Era bastato un mese per renderlo ciò che era adesso.

Ero soddisfatta del risultato che avevo ottenuto, di quello che avevo creato. Ma la vera soddisfazione era sapere che avevamo chiuso.

L'accordo prevedeva che io gli insegnassi a combattere e a sparare, e lui si dimenticava di me. A parte a fotografia.

«Bene. Ora, non farmi ripetere cosa hai promesso», nella mia voce c'era un filo di minaccia.

«Lo so», fu tutto quello che disse prima di fare una pausa, e prima di aggiungere un "ma".

«Oh, cazzo!» mi coprii gli occhi con la mano libera.

«Non sai neanche cosa voglio chiederti», fece spallucce.

«Le tue richieste portano sempre problemi, Ryan.»

«Festeggiamo», abbassò la testa di lato.

Aggrottai la fronte. Come al solito questo ragazzo riusciva a confondermi.

«Che?» fu l'unica cosa che riuscii a dire.

«Festeggiare!»

«E che cosa?» chiesi allargando le braccia.

«Andiamo, Carter. Ci beviamo due birre e poi torniamo a casa.» mi incitò con gli occhi a dirgli di sì.

Ci riflettei su. Infondo, quanto male potevano fare un paio di birre?

«Paige?» Babi bussò alla porta del bagno.

«È aperto, Babi», provai a dire con la bocca piena zeppa di dentifricio.

La porta si aprì, e Babi si fermò sulla soglia. Io tornai a spazzolarmi i denti.

«Esci di nuovo stasera?» chiese.

Annuii, poi sputai nel lavabo.

«Devi proprio? Ho ordinato la pizza. Mi piacerebbe passare una serata in..famiglia.»

Sputai ancora, e mi ripulii i residui di dentifricio agli angoli della bocca. «Scusami. È l'ultima sera, d'accordo?» abbozzai un sorriso.

Lei mi imitò, fece per andarsene ma si girò e mi disse: «Sei carina con la coda alta.» e il suo sorriso si caricò d'intensità.

Appena uscì, mi guardai allo specchio.

Spostai lo sguardo dalla coda bionda e alta, fermata da un codino nero. Indossavo i miei jeans grigi, e una t-shirt bianca.

Storsi la bocca.

Io non vedevo niente di diverso. Non era la prima volta che legavo i capelli.

Scesi a due a due le scale, e trovai Sean che giocava sul tavolo della cucina con dei robot.

«Ehi, mostro», lo chiamai giocosamente.

Lui si girò e scattò verso di me. Mi abbracciò forte.

«Torno tra un po'. Fa' il bravo, okay?» gli accarezzai delicatamente una guancia.

Lui annuì, poi mi tirò e mi sussurrò un ti voglio bene.

«Anch'io, tesoro. Non lo puoi neanche immaginare.»

Era strano. Sean non mi dimostrava mai le sue emozioni. Era molto chiuso su questo punto di vista.

Presi la giacca nera, e uscii di casa.

L'appuntamento era al Miami, un locale che distava un bel po' da casa mia.

Una volta fuori dal Miami, trovai Ryan appoggiato a un auto poco lontano dall'entrata del locale. Fumava una sigaretta o meglio, ci provava. Mi imitava o cosa?

Risi e lui si girò verso di me.

«Be'? Che c'è?» disse tra un colpo di tosse e l'altro.

Gli tolsi la sigaretta dalle dita e la gettai in terra. «Butta questa merda.»

Mi guardò come se avessi detto qualche eresia. «Tu fumi!» fece una risatina isterica.

«Questo non significa che fumare mi faccia bene.»

«E perché lo fai allora?»

E riecco il Ryan noioso e petulante di sempre. Sbuffai. Sembrava davvero un bambino di cinque anni.

«Okay, okay», alzò le mani. «Comunque, dovresti imparare a guidare.» aggiunse.

«So guidare, stupido! Non me la posso permettere un auto, però.»

Attraversammo dirigendoci verso l'entrata, ma mi bloccai in mezzo alla strada quando sentii le sue dita sulla mia schiena.

Mi girai e gli lanciai uno sguardo truce.

Lui sorrise. «Calma gli ormoni. Stavo solo controllando se avevi la pistola con te.» e lasciò cadere la mano.

«La porto sempre con me, pivello.»

Il locale era troppo affollato per i miei gusti, quindi optai per il banco - come mio solito -.

Ordinammo una birra per Ryan, e un mojito per me.

Dopo essersi scolato mezza bottiglia, e dopo aver guardato i culi infilati nelle minigonne delle ragazze, si girò a guardarmi.

«Vieni con me», esordì.

«Io non ballo.»

«Non voglio farti ballare, Carter.»

Si avviò verso l'uscita e io lo seguii. E ora che voleva?

Mi riportò alla macchina dove eravamo prima. Aveva ancora la birra nella mano, se la portò alla bocca e bevve.

«Perché?» chiese all'improvviso.

«Le tue mezze domande mi infastidiscono parecchio, lo sai?» il che era vero. Proprio non lo sopportavo.

«Perché lo fai? Cosa ti ha spinto a scegliere questo.. stile di vita?»

Mi immobilizzai. No! No! Perché ora? Non si era mai interessato a quel genere di cose, e non volevo che s'interessasse ora.

Mi accesi una sigaretta - dandogli le spalle -, e chiusi gli occhi.

Non volevo dirgli la verità, non potevo. Non avevo raccontato niente a nessuno di quello che era successo dieci anni fa. Perché dovevo dire tutto a lui? Non potevo fidarmi di nessuno. Avevo giurato a me stessa di non fidarmi di nessuno. E ora, ero combattuta: la voglia di dirgli come stavano le cose proprio non c'era, ma sentivo qualcosa dentro di me che mi diceva, anzi mi urlava, di parlare e sfogarmi. Ma con lui? Potevo fidarmi di un ragazzino troppo curioso?

«Lo so, Carter. Non ho voluto mai chiedere, ma ora..non lo so. Sento che lo devo sapere. Non prenderla come una pretesa, se non vuoi dirmelo non farlo. Ma dovevo chiedertelo ora.»

Mi girai, guardandolo dritto negli occhi. Stavo prendendo tempo, ma soprattutto coraggio. Respirai piano, cercando di calmarmi.

«Vuoi sapere come stanno le cose? Vuoi davvero condividere questo dolore con me?» ringhiai.

«Paige..»

«No! Ora sta' zitto! Parlo io!» strinsi le labbra così forte da farle diventare bianche.

«Dieci anni fa, vivevo con mia madre, mio padre e mio fratello piccolo. Eravamo felici. Andavamo al parco la domenica pomeriggio, e il sabato sera ordinavamo sempre la pizza. Una famiglia normale, insomma. Una sera, i miei genitori mi chiusero in camera insieme a Ray, mio fratello.» vidi la perplessità impossessarsi della sua faccia, ma lo ignorai. «Due uomini massicci entrarono in casa mia, e parlarono con i miei genitori. Cercavano qualcosa, ma mio padre si rifiutava di darglielo. Scocciati dai loro "no", iniziarono a minacciarli. La mamma, spaventata per noi, diede loro quello che stavano cercando.. una pennetta, credo. Non ricordo bene. Stavano per andare via, ma..» strinsi forte l'anello che portavo al dito, quello che mi aveva regalato mio padre. «L'uomo più grosso, che aveva una cicatrice sulla faccia, sparò prima a mio padre, poi a mia madre. Vidi tutta la scena, dalla mia camera. Due cose non le scorderò mai: lo sguardo pieno di dolore e poi vuoto di mia madre, e l'espressione soddisfatta di quei cani bastardi. La seconda, mi ricorda perché sono scappata, quella notte, portando con me mio fratello. Sono sopravvissuta per vendicare i miei genitori, a qualunque prezzo.»

Ryan aveva dilatato gli occhi. Era rimasto fermo, immobile e giurerei di aver intravisto una lacrima cadere dall'occhio. «È.. è.. orribile..» balbettò.

Io rimasi impassibile, non lasciai trapelare nessuna emozione, - anche perché non ne avevo più -.

«Mi dispiace..» disse.

«Non provare pietà. Più tosto, provala per quelli che pagheranno le loro pene una per una, e per mano mia!» mi spaventai io stessa del mio tono di voce. Era pieno di rabbia, di rancore. Reclamava sangue. Reclamava vendetta.

Restammo in silenzio per tutto il tragitto. Non so se l'avessi traumatizzato o peggio. Magari sarebbe corso dritto alla polizia a denunciarmi. Infondo, ero un pericolo. Questo lo sapevo anch'io.

Ma la domanda che mi rimbombava nella testa era "ho fatto bene a sfogarmi?" e non riuscivo a darmi una risposta. Ma ormai, quel che è stato fatto, è stato fatto. Dovevo subire le conseguenze.

«Grazie», sussurrò Ryan.

Si era fermato. Casa sua era vicina, mentre io avrei dovuto camminare per un po' e questo mi avrebbe aiutato a pensare.

«Per cosa?» lo guardai.

«Per tutto. Visto che be', ecco.. non ci frequenteremo più, volevo ringraziarti: per essere stata un'insegnante tosta e per aver accettato le mie stupide pretese. Ma soprattutto per stasera, per esserti fidata di me.» un debole ma sincero sorriso comparve sul suo viso.

Restai a guardarlo, incapace di parlare.

Mi fissò, anche lui in silenzio. Poi iniziò a camminare con le mani nelle tasche.

Era dispiaciuto per il mio passato, o perché da oggi lui non sarebbe più esistito per me?

«Ah. Puoi stare tranquilla. Il tuo segreto è al sicuro con me.» mi lanciò un breve occhiata e io aggrottai la fronte. Ma chi era? Che aveva di sbagliato? Quando credevo di sapere cosa pensasse, lui mi sorprendeva con qualcosa di totalmente diverso.

Allora capii, potevo fidarmi di Ryan Amnell. Anche se era strano, e a volte stupido.

Ma - per la sua sicurezza - era necessario che mi stesse lontano. Almeno fin quando tutta quella storia non fosse finita.

Scossi la testa, ritornando alla realtà. Ryan non c'era più.

Per la prima volta, ero davvero stanca; volevo andare a casa.

Provavo una sensazione strana. Mai provata. Mi sentivo come un contenitore che si era appena svuotato.

Camminando, mi imposi di non pensare più. Mi faceva male la testa. Così, mi concentrai sui rumori della notte. Non si sentiva quasi niente.

Mi avvicinavo sempre di più a casa, e sentivo dei suoni che non riuscivo a distinguere. Avanzai il passo, e sentii il rumore più chiaramente: erano pompieri. In quell'istante un'ambulanza in corsa mi superò. L'ansia prese possesso del mio corpo, e senza neanche pensarci iniziai a correre più veloce che potevo.

Fa' che non sia successo niente a Ray e a Babi, pregai più volte.

L'ansia diventò paura quando vidi i pompieri e l'ambulanza fermi davanti casa mia, e quest'ultima che sputava fumo ovunque.

Mi precipitai in casa. C'era un pandemonio, era totalmente sotto sopra.

Senti delle urla disperate provenire dal salone.

«Babi!» urlai.

«Signora, si calmi. Si calmi.» dissero più voci.

Trovai Babi sdraiata sul divano, che si dimenava per farsi lasciare.

Mi avvicinai e spinsi con forza le braccia che la trattenevano.

Sul suo volto c'era terrore puro. Insieme a dolore, e disperazione.

«L'hanno portato via! L'hanno portato via!» continuava a urlare.

La strattonai con violenza. «Che cazzo è successo? Dov'è Sean?» le gridai in faccia.

Mi prese il viso tra le mani. «L'hanno preso! L'hanno portato via!» piangeva e urlava.

Mi liberai dalla presa e mi allontanai dal divano. Il terrore prese anche me con se'.

«No! No!» la voce si era ridotta a un sussurro.

Mi pizzicavano gli occhi, ma lo sentii appena. L'unica cosa che sentivo era il terrore che si stava diffondendo per tutto il corpo.

«Sean! Sean!» iniziai a urlare e ad aprire tutte le porte. Si era nascosto, era ovvio. Sean amava giocare a nascondino.

«Sean esci fuori! Non è ora per giocare! Sean!» strillavo come un'ossessa.

Controllai in camera mia, in camera sua, in bagno. Niente.

«Sean!» mi precipitai in strada. Attorno a casa era comparso un gruppo di persone, curiose.

Iniziai a camminare per la strada, allontanandomi sempre più da casa. Urlavo e urlavo il nome di mio fratello.

Mi accasciai a terra, colta da tremori improvvisi. Mi rannicchiai, e rimasi lì non so per quanto. Minuti, ore, giorni. Non lo so. Respiravo a fatica, e i tremori non cessavano.

Tremavo e non riuscivo a pensare a niente se non a Sean. Nella testa avevo la sua immagine di felicità quando mi vedeva ritornare da scuola. Nelle mie orecchie riecheggiava la sua risata di quando gli facevo il solletico.

«Torna a casa, Ray.» sussurrai. «Dove sei? Ti vengo a prendere Ray. Ray. Ray.»

Poi qualcosa si fece strada tra i miei pensieri. I tremolii finirono, il respiro tornò regolare. Mi alzai.

"L'hanno preso", aveva detto Babi.

Non era possibile.. Era possibile? Ma come..?

Ci avevano trovati.

Iniziai a correre verso casa. La paura, il terrore erano stati sostituiti da rabbia e crudeltà. I medici stavano intorno a Babi, che non smetteva di piangere. Corsi di sopra nella mia stanza, e presi l'altra Glock che avevo. La nascosi nel retro dei pantaloni, dove si trovava anche l'altra. Scesi di corsa e mi fermai ad abbracciare Babi e le sussurrai: «So che questo ti provocherà altro dolore. Ma perdonami, Babi. Lo vado a prendere!»

Gli strilli ritornarono e più forti di prima. Uscii di casa a passo svelto, senza voltarmi.

Non potevo farlo da sola. Mi avevano trovata, sapevano che ero sopravvissuta per sterminarli. Per la prima volta nella mia vita, avevo bisogno d'aiuto.

Arrivai alla mia meta, e inizia a tirare sassi alla finestra, finché la luce non si accese.

Corsi alla porta d'ingresso e bussai il campanello. Venne ad aprirmi chi avevo desiderato.

«Devi aiutarmi», dissi.

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