10 - Dubbi e insicurezze
Stare da sola in quella casa piena di ricordi faceva male. Più di quanto avessi pensato. E il non chiudere occhio non aiutava, ovviamente.
Il sole penetrava dalle finestre da già un paio d'ore e Ryan non accennava a svegliarsi. E come biasimarlo? Aveva passato la mezz'ora più brutta della sua vita!
Nell'istante stesso, in cui avevo tolto il cucchiaio bollente dalla sua pelle, lui era caduto in un sonno profondo. Ed era stato ancora più difficile bendarlo. Avevo anche provato a sollevarlo per farlo riposare sul divano, ma con scarsi risultati, e quindi l'avevo lasciato dormire sul tavolo.
La notte era stata troppo lunga, e avevo finito per fumare l'intero pacchetto di Marlboro. Ne avevo ancora un paio, però. Per l'appunto, me ne accesi una.
Ero al terzo tiro quando sentii dei gemiti provenire dalla cucina. Vari rumori vi susseguirono, e poi dei passi.
«Ti fa male?» domandai senza neanche voltarmi.
«Molto», disse tra un lamento e l'altro.
Non riuscii a trattenere un sorriso.
«Ti diverte il fatto che mi abbiano sparato?» disse mentre si sedeva accanto a me sul divano. Non aveva perso quel suo tono giocoso, anche se era evidente che provava dolore.
«No», continuai a sorridere. «Pensavo al Ryan che ho conosciuto quella sera in quel vicolo, tutto cagato sotto, e questo Ryan; quello che ieri sera sparava a tutto quello che gli passava davanti.»
Ridemmo entrambi, il che fu strano in quelle circostanze.
«Sì, devo dire che un po' di progressi ne ho fatti.»
«E che progressi! Ti sei fatto sparare nel fianco. Ora è come se tu fossi battezzato!»
Le risate continuavano, ma ebbi una strana sensazione. Come se quel momento giocoso stesse comprendo un discorso che io, principalmente, volevo evitare.
«E, a te? Ti hanno mai sparato?»
La domanda mi sorprese a dismisura. Non mi aspettavo affatto che in quel momento l'unica cosa che gli venisse in mente fosse sapere se ero mai stata sparata.
Feci un altro tiro di sigaretta, e la lasciai sospesa tra le labbra.
Mi toccai la coscia destra. «New Mexico. Quattro punti. Estrassi la pallottola da sola, e mi ricucii la ferita.»
«Da sola?» sgranò gli occhi.
Annuii piano, poi questa volta toccai la spalla sinistra. «Seattle. Nove punti. Sempre da sola. Ma mi prese di striscio.»
Mi tolsi la sigaretta dalla bocca, ma prima feci un altro tiro.
Indicai la schiena. «Dodici punti. Ma questa volta dovetti andare in ospedale. Dissi che mi avevano aggredita, e che era partito un colpo di pistola.»
L'espressione di Ryan era impagabile. E a dire il vero mi inquietava un po'. Mi guardava come se fossi il suo idolo, un modello da seguire.
«Tanto di cappello», disse infine.
D'un tratto il sorriso svanì dal mio viso, e mi sembrò di ritornare a poche ore prima: angosciata e pensierosa.
Pensai a mille cose, cercando di trovare le parole giuste per dirgli quanto mi dispiaceva. Alla fine, optai per un semplice «mi dispiace», e un «è colpa mia.»
A quel punto non ce la facevo proprio a guardarlo in faccia. Così mi alzai e iniziai a bere quel poco di Grappa che era rimasto sul fondo della bottiglia.
«Ehi, ti sei fatta perdonare curandomi e medicandomi. Per non parlare del cucchiaio bollente», ed ecco che ritornò quel suo lato stupido e giocoso.
«E non scordiamoci che ho dovuto subirmi il tuo continuo russare», ricambiai il sorriso che c'era anche sulle sue labbra, ma che poi sparì.
«Non hai dormito?» chiese.
Scossi la testa, e bevvi un altro sorso di Grappa.
«E perché?»
«Perché non ci riuscivo», dissi mentre ritornavo sul divano. «Ecco, mi sentivo.. in colpa per te e..» sospirai con la testa abbassata e le mani tra i capelli.
Lui esitò, poi mi chiese: «Carter, cosa è successo fuori da quella fabbrica? Quando sei corsa dietro il tipo biondo!» il suo sussurro diventò un urlo nella mia mente.
Mi girai di scatto a guardarlo, per poi abbassare di nuovo la testa.
Ingoiai il nodo che avevo nella gola e sospirai ancora.
«Era uno degli uomini che uccisero i miei genitori», dissi tutto d'un fiato.
Ryan arretrò leggermente, mentre io continuavo a sfregarmi le mani come un'ossessa. Erano diventate caldissime.
«John», sputai quel nome con odio e disgusto.
Vidi le sue mani serrarsi in dei pugni, e aggrottai le sopracciglia. Sembrava fosse incazzato e non poco, come se li avesse persi lui i genitori per mano di quel bastardo.
«Stava scappando, e io l'ho rincorso fuori la fabbrica. Non potevo lasciarmelo scappare. Capisci?» mi agitai leggermente sul divano.
«E allora perché ne parli come se ti stessi scusando?» domandò. Era bravo lo stronzo.
Mi inumidii le labbra e mi aggiustai il sopracciglio con un gesto nervoso.
«Mi aveva riconosciuta. Aveva detto il mio nome. Gli ho sparato più volte, ma solo per fargli del male. Gli ho urlato contro di dirmi il nome dell'uomo con la cicatrice. Ho urlato ancora, e lui..», mi scappò un lamento dalla bocca. «mi ha sorriso in faccia. Non c'ho visto più. L'ho ammazzato prima che potesse darmi qualche informazione.»
Mi massaggiai la faccia con le mani. Non sopportavo più quella sensazione, la stessa che avevo avuto per tutta la notte.
Ryan non parlò ma tese la mano verso di me, esitò, e poi l'appoggiò sulla mia spalla.
Lo guardai fisso. Non avevo, però, lo sguardo di sempre; il mio solito sguardo omicida. Non era spiacevole, ma era.. strano. Non ero abituata a ricevere carezze e consolazioni.
«Non è che io mi sia pentita, anzi. É solo che..», sospirai esausta. Non riuscivo ad esprimermi. A tradurre a parole quello che avevo dentro. Mi sforzai di più.
«Mi sento inutile», feci spallucce. «La mia vita è sempre stata una programmazione. Io devo seguire i piani che stabilisco. Non posso seguire l'istinto. Ed è quello che ho fatto stanotte: mi sono fatta sopraffare dalle emozioni, e ho lasciato che decidessero loro per me. E cosa ho ottenuto? Un cazzo di niente! È stato inutile anche che tu ti sia preso una pallottola nel fianco.»
Volevo sprofondare nel divano. Per la prima volta mi sentivo vulnerabile. Non era bello aprirsi con gli altri, no di certo! Preferivo starmene buona buona all'interno del mio guscio. Duro e indistruttibile. Ma avevo da poco scoperto, che in fondo non era così duro come pensavo.
«Sei umana. Non sei una macchina, Carter. Per quanto tu voglia programmare tutto, non puoi evitare di provare emozioni, buone o cattive che siano», esordì dopo qualche minuto di silenzio.
Era strano. Sembrava ci fosse un doppio senso nel suo discorso. Ma non riuscivo ad arrivarne a capo.
Mi fissava, e io feci lo stesso aggrottando lievemente le sopracciglia.
Mi accorsi che c'era qualcosa che non andava; l'aria era cambiata. Era sceso uno strano e imbarazzante silenzio, come quello che si vedeva in quei film odiosi e strappalacrime.
«Ti devo cambiare le bende», dissi in tono grave. Quasi come se lo stessi sgridando.
Mi alzai e mi avviai nella cucina. Strappai la busta che conteneva delle bende nuove e pulite, e aspettai che Ryan - imbambolato a fissare il vuoto - si decidesse di alzare quel culo.
«Ryan!» strillai.
Lui sembrò svegliarsi da un ipnosi, si voltò verso di me, e annuì. Dopodiché si alzò e mi raggiunse.
«Non avrai intenzione di mettermi ancora quel cucchiaio sul fianco, vero?» scherzò.
Dapprima risi, poi mi bloccai e mi portai un dito alla bocca imitando un 'sh'.
«Lo senti?» chiesi allarmata.
«Che?»
«Questo rumore. È un bip. Sembra un telefono.»
Tirai dalla tasca dei pantaloni il mio cellulare, ma non suonava. Ryan mi imitò, ma sembrò deluso nel vedere che nemmeno il suo suonava.
Mi spostai in base alla provenienza del rumore, e mi ritrovai davanti una delle valigette che avevo preso nella fabbrica.
«Che sono quelle?» chiese dietro di me.
«Erano nella fabbrica. Cercava di scappare con queste.»
Mi abbassai e sporsi l'orecchio per capire da quale delle due provenisse quel bip.
Presi la valigetta d'acciaio più grande e la posai sul tavolo.
Me la rigirai tra le mani, squadrandola.
«Come cavolo si apre questa cosa?» sbottai.
«Carter..», Ryan si sporse oltre me, posando entrambe la mani sulla valigetta.
Arretrai, lasciandolo fare e alzando un sopracciglio.
Poco secondi dopo la valigetta vibrò e si aprì. Ryan mi guardò soddisfatto, e facendo un gesto teatrale. «Dopo di te», sussurrò.
Sbuffai e mi sforzai di non prenderlo a calci. Mi avvicinai al tavolo e aprii piano la valigetta, desiderosa di sapere cosa ci fosse lì dentro.
«È un computer!» strillò Ryan.
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