Capitolo 32
I've been looking through my mirror
With somebody else's eyes
You broke me down
You fixed my blood-stained pride
You came and saved me
You saved me
From myself
You saved me
[Skunk Anansie]
~~~
Harry's POV
Avevo da poco compiuto dieci anni quando avevo picchiato qualcuno per la prima volta.
Si trattava di un mio compagno di scuola, che si era divertito a prendermi in giro perché i miei genitori si erano separati; all'epoca ero io stesso troppo infantile per rendermi conto che si trattava di una provocazione degna solo di un moccioso, e la rabbia sommata allo spaesamento di un ambiente ancora troppo nuovo e troppo estraneo era stata sufficiente per farmi scagliare contro quel ragazzino e tempestarlo di pugni.
Ero stato sospeso per due giorni e quel bastardo si era beccato due punti di sutura poco più in alto del sopracciglio sinistro. Quando mia madre l'aveva saputo il suo viso era diventato una maschera di pietra; ricordavo di essere rimasto seduto su quello stesso divano per più di mezz'ora con lei accanto, che non muoveva un muscolo.
Potevo chiaramente percepire che fosse furiosa: ogni suo respiro era venato di collera, i muscoli del viso erano rigidi e le mani erano strette a pugno. Mentre aspettavo che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, sentivo il mio cuore battere all'impazzata dalla tensione, e mai prima di allora avevo desiderato che mi urlasse contro e mi insultasse piuttosto che tenermi prigioniero di quel silenzio nervoso ed opprimente.
Dopo aver concluso il resoconto dell'ultimo decennio a Londra mi sentivo più o meno allo stesso modo, anche se in quel momento lei sembrava più demolita che incazzata.
Il suo sguardo faticava quasi ad aggrapparsi agli oggetti su cui si posava, come se non ne avesse nemmeno le forze; la sua espressione sgomenta stava diventando sempre più insostenibile, tantopiù che diversi minuti dopo che avevo finito di parlare non aveva ancora aperto bocca.
Le avevo detto dei ragazzi di Brixton, di come avevo incontrato Ri due mesi prima ed anche della morte di Zayn; tuttavia non avevo avuto il coraggio di dirle di Parker. Era così sconvolta dal mio racconto che non me la sentivo di aggiungere altra carne al fuoco, ed aspettavo una sua reazione con trepidante timore.
«Io non... non so nemmeno cosa dire, Harry» ammise dopo un tempo che mi parve infinito, il tono flebile ed incerto. «Non riesco a capire come sia possibile che un ragazzo di così buona indole come te sia scappato di casa per poi trasformarsi in un criminale»
Abbassai la testa, con un'aria contrita che non avevo addosso da anni.
«Mi hai raccontato così tante cose terribili, ma ancora non mi hai detto perché l'hai fatto» mormorò, tentando di non assecondare il pianto incombente che le faceva tremare appena la voce. «Ti prego, Harry. Ho bisogno di sapere perché ho perso mio figlio per dieci anni»
Quelle parole mi trafissero come una coltellata, ed i sensi di colpa tornarono a bruciarmi prepotentemente nel sangue. Serrai la mascella, deglutendo a vuoto come a voler ricacciare indietro la verità disgustosa incastrata nella mia gola; eppure quella si ostinava a restare lì, come a ricordarmi che il momento di farla uscire era ormai imminente, come a volersi godere quei miei ultimi istanti di sofferenza prima di vomitarla fuori.
«Parker» riuscii infine a pronunciare, con un filo di voce. Mia madre mi guardò sgomenta, ma non fui in grado di sostenere quello sguardo per più di un istante.
«Che significa, Harry?» domandò in un sussurro, facendomi sentire tutta la sua apprensione nonostante avessi gli occhi inchiodati altrove. «Parker ti ha fatto del male?»
Un brivido involontario mi percorse la schiena a quella domanda, e mi presi il viso tra le mani appoggiando i gomiti alle gambe. Mi vergognavo di quella mia improvvisa debolezza; mi sembrava di essere tornato bambino, incapace di avere il controllo di me stesso, e se da un lato avrei voluto ancora scappare dall'altro qualcosa dentro di me mi pregava di liberare tutta la rabbiosa sofferenza che ancora mi artigliava le viscere.
Sentii le braccia di mia madre avvolgermi con dolcezza e premura, la sua testa poggiarsi sulla mia spalla ed un lieve sospiro uscire dalle sue labbra.
«Harry, bambino mio» mormorò, ed il mio cuore sprofondò a quell'affettuoso appellativo. «Non avere paura di parlarmi di ciò che ti fa stare male; sei mio figlio, ti voglio un bene infinito e te ne vorrò sempre. Nulla di quello che potresti raccontarmi cambierà mai tutto questo»
Repressi un singulto con tutte le mie forze; non volevo piangere, odiavo sentimi – e mostrarmi – così vulnerabile. Significava cedere al dolore, farmi schiacciare e calpestare da esso, e liberare di nuovo quel cumulo di sofferenza mi terrorizzava. Solo Riley mi aveva visto in quello stato, negli ultimi dieci anni, ma d'altronde lei riusciva a dissotterrare lati di me che credevo non esistessero più da tempo.
D'altra parte, però, mia madre aveva il diritto di sapere. L'avevo abbandonata senza una spiegazione, da un giorno all'altro, ed ero semplicemente sparito nel nulla per un intero decennio; inoltre non potevo sopportare che lei piangesse la morte di un individuo così disgustoso.
Mi sfregai gli occhi, come nel tentativo di racimolare qualche briciolo di coraggio, ed intrecciai le dita in grembo giocherellando nervosamente con uno dei miei anelli.
«Parker mi ha... mi ha violentato per più di tre anni» confessai infine, a voce talmente bassa che in un primo momento pensai che lei non mi avesse sentito. Non riuscivo a credere di averlo detto ad alta voce, di averle rivelato quel segreto orrendo che avevo sigillato dentro di me insieme ad ogni lacrima che avevo versato ed al disgusto che provavo nei confronti di me stesso.
La sentii irrigidirsi nell'abbraccio in cui mi stava avvolgendo, abbraccio che sciolse immediatamente per potermi guardare in viso con uno sguardo inorridito che sentii bruciarmi le guance ma che non riuscii a ricambiare.
«Harry, guardami» mi impose, la voce però tremante. Serrai con forza le palpebre, prima di riaprirle lentamente ed alzare gli occhi verso i suoi; vi lessi un orrore incredulo che mi lacerò, se possibile, ancora di più.
«È la verità?» domandò quasi implorante, piegandosi in avanti verso di me e stringendomi l'avambraccio sinistro con entrambe le mani. «Parker ti ha davvero fatto questo?»
Annuii appena, distogliendo poi lo sguardo per non vedere le lacrime velare le sue iridi. Sapevo che ne stava soffrendo spaventosamente, come solo una madre avrebbe potuto fare, e questo non faceva che decuplicare i miei sensi di colpa.
«Bambino mio» sussurrò, deglutendo a vuoto per nascondere i singhiozzi che tentavano di uscire. «Oh, tesoro, non avevo idea... non avevo idea...»
Posò la mano destra sulla mia guancia, accarezzandola con il pollice, mentre un primo singulto si liberava dal suo petto. In quel momento i miei occhi si spostarono quasi automaticamente sul suo viso, come se questo potesse interrompere il pianto sul nascere, ma quando il suo sguardo incontrò il mio qualcosa dentro di lei sembrò spezzarsi e le lacrime iniziarono a percorrerle le guance.
Pianse nascondendo il viso contro la mia spalla, il mio braccio stretto tra le mani, le spalle che tremavano per i singhiozzi. Era straziante vederla soffrire in quel modo, ed era ancora peggio se pensavo a tutto il dolore che le avevo causato nel corso di quei lunghi anni.
«Mamma...» mormorai disperato, senza la minima idea di come rimediare a quel casino. Lei scosse appena la testa, prendendo un profondo respiro spezzato nel tentativo di smettere di piangere.
«Perdonami se non mi sono mai accorta di nulla, Harry» replicò, premendo ancora di più la fronte contro la mia spalla. «Non mi sono mai accorta di nulla e tu sei dovuto scappare...»
Serrai le palpebre, maledicendomi da solo per averla addirittura portata a caricarsi di sensi di colpa. Quanto ancora doveva sopportare a causa mia?
«Mamma, io... ho deciso di andare alla polizia» confessai, non riuscendo più a tenermelo dentro. «Per... costituirmi. Non ce la faccio più ad andare avanti così»
Il suo viso si sollevò di scatto fino a fronteggiare il mio, gli occhi spalancati dalla sorpresa ed ancora umidi.
«Harry... ne sei sicuro?» chiese con un filo di voce, scrutandomi con un'intensità tale che credetti quasi potesse leggermi nell'anima. «Potresti semplicemente tornare qui, da me, e dimenticare tutto»
Una morsa impietosa mi strinse il petto, mentre combattevo contro me stesso per non lasciarmi tentare da quella possibilità così idilliaca.
«Non posso» risposi, scuotendo la testa ed avvolgendo le braccia intorno al mio busto. «Ho bisogno di chiudere questo conto con me stesso. Non riuscirei a vivere in pace, mi sentirei un fuggitivo... un maledetto codardo»
Lei premette le labbra tra loro, asciugandosi le guance umide con il dorso della mano, quindi annuì appena.
«Posso capire perché desideri farlo, tesoro. Però pensaci, pensaci bene... potresti comunque lasciarti tutto alle spalle. Nessuno ti obbliga a costituirti, non hai accuse a tuo carico, e butteresti via anni della tua vita in prigione»
Distolsi lo sguardo, passandomi nervosamente una mano tra i capelli.
«Non riuscirei a ricominciare... e poi Ri ha la sua vita a Londra, non posso chiederle di abbandonarla per venire qui»
Il silenzio di mia madre mi confuse, e mi portò a spostare di nuovo gli occhi sul suo viso.
«Tu e Riley... state insieme, Harry?»
Mi diedi mentalmente dell'idiota per essermi dimenticato quel dettaglio così banale; lei non aveva idea del rapporto che avevamo in realtà io e Ri, dal suo punto di vista eravamo solo due amici d'infanzia che si erano ritrovati per caso a Londra.
Liberai un piccolo sospiro mentre mi mordevo il labbro inferiore, improvvisamente insicuro su cosa rispondere.
«Ecco, noi non... non ne abbiamo mai parlato davvero» ammisi, consapevole che in larga parte ne ero responsabile io stesso. «Però sono sicuro di quello che proviamo l'uno per l'altra. Più che sicuro»
Lei sorrise, un sorriso materno e sincero che riuscì a scaldarmi almeno un po' il cuore nonostante la conversazione decisamente pesante ed impegnativa che avevamo appena avuto.
«Questo mi rende davvero felice, tesoro» rispose, accarezzandomi affettuosamente un braccio. «Ho avuto modo di accorgermi quanto lei tenga a te, prima, e non potrei sperare di meglio per mio figlio»
Un moto di orgoglio mi smosse, senza neppure che ne capissi il motivo, ma in quel momento non mi importava.
«Riley sa che vuoi costituirti?» chiese cautamente poi, osservandomi per monitorare la mia espressione. Annuii, tornando a giocherellare con i miei anelli, mentre l'ormai familiare cappa di angoscia tornava a pesarmi sullo stomaco.
«Sì, gliene ho parlato» replicai piano, un ennesimo sospiro che lasciava i miei polmoni. «Lei cerca sempre di essere così... comprensiva, ultimamente, e mi sento uno schifo al pensiero che tutto quello che stiamo costruendo probabilmente andrà a puttane per il mio egoismo»
Mia madre si morse l'interno della guancia, pensierosa, quindi si strinse nelle spalle.
«Vuole solo ciò che è meglio per te, bambino mio» spiegò con dolcezza, piegando la testa di lato. «È molto coraggioso e maturo da parte sua rispettare la tua decisione ed incoraggiarti a portarla avanti. Per questo dovresti prendere in considerazione anche questo aspetto nel valutare cosa sia meglio fare; con lei saresti felice, tesoro, ed averla accanto ti aiuterebbe ad andare avanti più facilmente»
Lo sta già facendo.
Mi sfregai nervosamente gli occhi con entrambe le mani, torturato dalle sue parole così tentatrici. Avevo tra le mani la possibilità di tornare ad una vita tranquilla con la mia famiglia, con Riley... e stavo inseguendo quella che era probabilmente solo un'illusione di redimermi, di ripulirmi la coscienza, che mi avrebbe portato via anni preziosi e avrebbe rischiato di allontanarmi dalla ragazza di cui mi ero innamorato.
Tuttavia come potevo voltare le spalle a Zayn e sputare sulla sua morte in quel modo, ignorando le voci nella mia testa che mi urlavano di riparare ai crimini che avevo compiuto? Quando avevo dovuto abbandonare il suo corpo Big Shade mi aveva detto che farmi catturare dagli sbirri sarebbe stato uno spreco del suo sacrificio, ma mai come in quel momento fui convinto che la sua morte sarebbe stata davvero sprecata solo se non avessi colto questa opportunità di rimediare agli errori che avevo commesso.
«Non posso» ripetei, mentre un nodo insopportabilmente stretto mi bloccava la gola. «Devo pagare per quello che ho fatto, solo così potrò davvero ricominciare. Devo assumermi le mie responsabilità ed evitare di scappare, per una volta nella mia vita»
Mia madre abbassò lo sguardo, riflettendo sulle mie parole, quindi prese le mie mani tra le sue e tornò a guardarmi negli occhi.
«Tesoro, sarò sempre al tuo fianco qualunque sia la tua scelta» affermò, facendo del suo meglio per rivolgermi un sorriso incoraggiante. «Lunedì chiamerò Fred per chiedergli se ha un legale da raccomandarmi per il tuo caso»
Fred Durston era stato l'avvocato divorzista che aveva assistito mia madre durante la separazione; era un tipo alla mano ed estremamente competente nel suo lavoro, da quel che ricordavo. Lui e mia madre erano diventati buoni amici, era anche venuto a trovarci a Manchester dopo che ci eravamo trasferiti.
Aggrottai le sopracciglia, colto alla sprovvista, quando sentii quel nome.
«Non avrò bisogno di un legale, mamma» replicai, incrociando le braccia al petto. «Sarò in grado di difendermi da solo»
Lei scosse con forza la testa, piegandosi in avanti verso di me.
«Non dire stupidaggini, Harry» mi rimproverò con voce ferma. «Voglio che tu abbia qualcuno che ti assista, visto che non ti sei mai trovato in una situazione del genere. Certo, verrai sicuramente condannato dal momento che sarai tu stesso a costituirti, ma perché non tentare di ridurre il più possibile la pena?»
«È una spesa che non mi posso permettere» protestai, ignorando i suoi cenni di diniego. «Mal che vada posso farmi assegnare un legale d'ufficio, ma non ho intenzione di spendere nemmeno un centesimo per questo»
«Che tu ti costituisca senza un valido avvocato è fuori discussione» dichiarò, enfatizzando le proprie parole con un gesto secco della mano. «Delle spese non dovrai preoccuparti, ti ho detto che ti avrei aiutato e ho tutta l'intenzione di farlo»
Non ho decisamente preso la testardaggine da mio padre.
Sbuffai, premendo le labbra tra loro mentre constatavo che non sarei riuscito a spuntarla di fronte alla sua insistenza.
«Non è giusto che tu butti via cifre folli per un figlio che ti ha abbandonata» mugugnai duramente, al che sentii la sua mano abbattersi sulla mia coscia in uno schiaffo leggero ma inaspettato che mi fece trasalire.
«Se provi a dirlo un'altra volta mi arrabbierò sul serio» mi ammonì, puntando l'indice contro di me. «Pensare al passato non ha alcun senso, ora. Sei qui con me, è questo l'importante»
Le sue parole mi rimescolarono, e non potei evitare di farmi schiacciare da un cumulo di sentimenti contrastanti. Da un lato mi sentivo uno schifoso ipocrita perché la stavo moralmente costringendo a a farsi carico di una spesa di quel calibro dopo tutto quello che le avevo fatto passare, ma dall'altro ero così felice che stesse dimostrando di tenere ancora a me che faticavo ad impedire ad un sorriso enorme di emergere sul mio viso.
«Suppongo di non avere voce in capitolo, a questo punto» sospirai, guadagnandomi un luccichio trionfante negli occhi di mia madre. «Va bene, farò come vuoi. Ma prima o poi ti restituirò tutto, fino all'ultimo penny»
Lei roteò gli occhi, ma sorrise con calore e mi avvolse in un mezzo abbraccio che ricambiai con lo stesso trasporto. Era ancora così surreale per me trovarmi in quella situazione, ma ero incredibilmente a mio agio. Era casa.
Fummo riportati alla realtà dal vibrare del mio telefono, rimasto nella tasca dei miei jeans neri. Sciolsi l'abbraccio e recuperai il cellulare con uno sbuffo annoiato, lanciando un'occhiata al display.
Laz.
Ebbi un brivido involontario nel leggere quel nome; non avevo detto nulla ai ragazzi sul fatto che ero a Manchester, perché Big Shade non avrebbe mai permesso che tornassi dalla mia famiglia. Sarebbe stato compromettente e pericoloso, e se fosse venuto a saperlo mi sarei probabilmente ritrovato un buco in fronte prima ancora che me ne rendessi conto.
Mia madre dovette cogliere la mia inquietudine perché mi squadrò con aria preoccupata.
«Che succede, Harry?» chiese, lo sguardo ansioso che percorreva il mio viso. «Chi è che ti sta chiamando?»
«Uno dei ragazzi» mormorai, continuando ad osservare il nome che campeggiava insistente sullo schermo. «Scusami, devo rispondere»
Annuì appena, il labbro inferiore stretto tra i denti, ed io mi alzai dal divano dirigendomi a passo svelto verso l'ingresso. Quando fui uscito di casa ed ebbi richiuso la porta alle mie spalle accettai la chiamata, portandomi il telefono all'orecchio.
«Pronto?»
«Ciao, Harry. Come te la passi a Manchester?»
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