Prologo
Dopo due settimane agonizzanti, eccomi di nuovo qui, sul punto di catapultarmi all'interno di quella struttura da me definita ''Ade'', o il ''regno dei morti'', o ancora il ''punto di non ritorno''.
Mi chiedo come sia possibile essere in grado di definire ''la scuola'' come uno dei luoghi sociali più sicuri sulla faccia terrestre, un posto di apprendimento, dove nessuno possa mai farti del male. Bella stronzata.
Marzo è come ogni anno un mese parecchio caldo, nonostante siamo solo al principio della primavera, qui a Santa Barbara, in California. I ciliegi che ornano il cortile della ''School District'' consentono alle foglioline rosee di svolazzare nell'aria, spinte dalle rare folate di vento che mi donano una sensazione di freschezza, in netto contrasto con il sottile strato di sudore che mi impregna la pelle.
Osservo l'entrata dell'imponente edificio color panna, in stile rinascimentale, che mi si piomba di fronte, sospirando. In me si sta propagando una lotta feroce, spietata, tra il rifiuto e la costrizione sul fatto di fare il mio ingresso.
La seconda opzione ha la meglio, ovviamente: Nonostante il mio efferato odio nei loro confronti, non ho mai saltato una lezione dall'inizio della mia carriera scolastica, salvo quella dannata mattina in cui ho vomitato sul tappeto indiano di mamma le frittelle di zio Fitz.
Ricordo che mamma si era portata le mani alla bocca alla vista del liquido giallastro che le macchiava il suo prezioso tappeto indiano, di ogni colore, per poi maledirmi con lo sguardo mentre lo sfregava con prepotenza con una spugnetta imbevuta di sapone. Il mio maldestro zio Fitz, invece, era esploso in una fragorosa risata, osservandomi giacere sul pavimento freddo, in preda a delle convulsioni dovute ad una serie di terribili fitte che mi colpivano dritte nello stomaco.
Mio zio materno, un uomo di quarantatré anni, con capelli e un lieve accenno di barba brizzolati e degli occhi verdi identici a quelli di mamma Ingrid, è sempre stato un burlone.
Tutti lo conoscevano, qui a Santa Barbara, per la sua maledetta affinità con l'alcol. Ogni volta che percorrevamo insieme il centro città, non mancavano mai le occhiatacce indiscrete della gente... Una volta, addirittura, sono quasi certo di aver udito una signora sull'ottantina sussurrare ad una delle sue amiche ciarlone qualcosa come: «Eccolo, l'ubriacone...»
Sono sicuro del fatto che il fratello di mia madre si accorgesse di tutti questi pregiudizi nei suoi confronti, eppure se ne è sempre fregato bellamente.
«Godiamoci questa vita!», urlava sempre alzando all'aria il suo bicchiere di Tequila, rivolgendosi a me, il suo nipote preferito, come mi definiva lui.
Le vecchie megere che, ogni mattina, scrutavano tra la folla alla ricerca della prossima preda su cui sparlare, raccontare, o spesso inventare i fatti più intimi, sembrano avergli lanciato una sorta di maledizione, dato che due settimane fa lo zio Fitz, l'unica persona di cui io mi sia mai fidato, l'unico che mi desse un qualche stimolo ad osare, a cogliere il momento, mi ha lasciato a seguito di una cirrosi epatica.
[...]
Mi dirigo in bagno, ancora scosso dalla serie di ricordi, alcuni in grado di riempirmi il cuore e altri di demolirlo nel giro di qualche secondo, con l'intento di riprendermi, per affrontare al meglio la mia prima lezione dopo un paio di settimane di assenza.
Lascio scorrere l'acqua fredda nel lavello, prima di sciacquarmi con degli innocui schiaffetti il viso, che nel frattempo sembra essere diventato di cera - o meglio - di ceramica, dato il biancore che ne deriva.
La porta del bagno dei ragazzi si schiude, e delle risate ripugnanti che riconosco all'istante riempiono l'aria, rimbombando nel ristretto spazio.
Mi fingo incurante, continuando a sfregare le mani che sento raggelare sotto la spinta dell'acqua, mentre con la coda dell'occhio scorgo, nel riflesso dello specchio di fronte a me, la divisa bordeaux di un ragazzo della squadra di basket, che tiene saldo tra le sue mani l'arnese che si ritrova tra le gambe pelose senza nemmeno degnarsi di chiudere la porta.
Lo scroscio del piscio che fa capitombolo nella tazza riempie l'aria, mentre il suo accompagnatore mi affianca, continuando a rivolgersi all'amico.
«Ieri sera te la sei fatta, quella... Come si chiama?», domanda sistemandosi il ciuffo vaporoso che si ritrova su quella testa vuota, senza degnarmi nemmeno di uno sguardo.
«Qualcosa tipo Ashley, e sì, ovviamente...», sogghigna mentre sgocciola i residui, come denoto dallo specchio.
Il ribrezzo mi riempie le vene ma le mie mani prendono a tremare al ricordo dell'ultimo nostro incontro: Abel e Leroy, i capitani della squadra di basket, un paio d'anni fa mi hanno preso di peso di fronte a tutta la classe del corso di matematica, sollevandomi dai passanti per la cintura dei miei jeans. Ricordo il dolore, nascosto in parte dalla consapevolezza di essere deriso derivante dagli scherni dei compagni, che nel frattempo esplodevano in boati di risata privi di pudore.
«Oh, guarda guarda chi abbiamo qui. Quanto tempo, Wayne». La voce aspra di Leroy, che nel frattempo ha raggiunto il compare, mi punge l'orecchio come se si trattasse di spine.
I due mi scrutano, scambiandosi sorrisetti maliziosi, mentre io mi aspetto il peggio.
Cerco di mascherare l'ansia che si sta diffondendo nel mio corpo con dei sorrisini tirati, rivolti ad entrambi, mentre Abel continua a stuzzicarmi. «Ho saputo del povero Fitz, quanto mi dispiace...», afferma in una finta cantilena, senza avere la decenza di porre fine, almeno per un attimo, a quell'espressione da schiaffi che sfrutta per provocarmi.
Leroy, nel frattempo, finge di essere colpito da un improvviso attacco di tosse, ma, tra un colpo e l'altro, percepisco chiaramente dove vuole parare. «Alcolizzato», ride fuori convinto che io non abbia sentito, quando in realtà non è affatto così.
Tuttavia, continuo a non reagire, consentendo loro di proseguire con i loro giochetti, mentre prendono a pizzicarmi le guance con quei loro sorrisetti malevoli.
«Basta, dai!», sorrido, cercando di mascherare il nervosismo, fingendo di stare allo scherzo.
Quando i loro sguardi si incupiscono, però, mi ritrovo a deglutire il grumo di saliva che mi si forma, restando impalato sulla lingua.
I due si guardano, prima di avanzare verso di me, opprimendomi ancora di più.
«Come?», domanda Leroy in tono minaccioso, sputando le parole con una tale rabbia da scuotermi l'intero corpo in un fremito.
Porto automaticamente le mani in avanti, come a proteggermi da quello che sono convinto succederà a breve. E non mi sbaglio, ovviamente.
In un attimo mi ritrovo disteso a terra, sul pavimento più sporco della School District, ad incassare calci e pugni che piombano, brutali, da ogni direzione, fino a che smetto di dimenarmi, chiudendo gli occhi, abbandonandomi al mio destino.
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