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Capitolo 6: Funk Street

Stringo tra le mani la lettera che da tre giorni a questa parte non faccio altro che leggere e rileggere in continuazione, sperando che le parole, in qualche modo, prendano a trasformarsi in concretezza.

Scruto qualsiasi persona che mi si capiti davanti: una coppia di anziani che si stringono le mani, come a farsi forza l'un l'altra; un atleta che sfreccia via lungo il viale di ghiaia, controllando di tanto in tanto il cronometro che tiene tra le mani; un bambino che saltella con il suo gruppo di amici, leccando talvolta il cremoso gelato che rischia di sciogliersi completamente nell'arco di un paio di minuti.

Nel frattempo, la mia unica vera amica Roxelle, un boxer marroncino di un anno e mezzo, sventola all'aria la sua rosea lingua secca osservandomi con gli occhietti vispi, mentre si diffonde in me una sorta di gelosia nei confronti di quei bambini che non hanno alcun tipo di problema nel comunicare, nel relazionarsi con gli altri.

So per certo che non si farebbero il benché minimo scrupolo a dire la loro, nemmeno qualora nessuno l'avesse espressamente richiesto.
Loro si ritrovano, sin dalla tenera età, circondati da amici, mentre di persone con cui confidarmi, per me, non ve ne è nemmeno l'ombra.

''Parla, sfogati, vivi...'', leggo ancora una volta le parole di zio Fitz. Sì... Ma come?

***

Ed eccomi qui, costretto ad affrontare l'ennesima giornata scolastica, ad ascoltare le solite parole che un adulto, totalmente ignorante in materia di ragazzi, fa scorrere dalle sue labbra, senza un motivo ben preciso. Probabilmente giusto per riuscire ad ottenere il misero stipendio che consentirà loro di sostenere la loro famiglia sull'orlo del collasso.

Quando la mia amata campanella, un'altra delle mie più fidate compagne di vita, suona, mi precipito in mensa con lo stomaco che gorgoglia.

«Purea di zucca, oggi», mi comunica Dolores, la donna della mensa di origine messicana.

Non l'ho mai tollerata, quella burbera signora nerboruta dai capelli ricoperti da un ampio strato di unto, raccolti in una retina bianca.
Il velo di sudore che le imperla il flaccido avambraccio mi suscita un certo ribrezzo, mentre scaraventa la ridotta porzione melmosa ricoperta di intingolo nel mio vassoio lucido.

Mentre scruto nella stanza alla ricerca di un posto libero in cui consumare questa deliziosa pietanza, un gruppo scalmanato all'angolo attira la mia attenzione.

Aubree, Savannah e Benjo ridacchiano, mentre lanciano a destra e a manca cucchiaiate della sostanza appiccicosa.

«Mi hai mancata!», urla la ragazza dai denti separati a quella dagli occhi a mandorla, prima di incrociare i miei occhi.

Le guance mi si arrossano all'istante, mentre Aubree sventola la mano nella mia direzione.
«Qui, Wayne Connor!», urla Benjo portandosi una mano alla bocca, quando, titubante, mi avvicino per poi sedermi con loro.
Tasto con il cucchiaino la poltiglia, mentre gli altri si scambiano occhiate di assenso, prima di scrutarmi a fondo.
«Stasera. 21:15. Al negozio di musica in cui lavoro.», mi dichiara Benjamin sventolandomi davanti al naso un mazzo di chiavi differenziate.
«Come?», ribatto con un'aria interrogativa.
«Stasera, alle 21:15, vieni con noi al negozio di musica in cui lavoro. Non puoi mancare!», ripete lui, ancora più convinto.

Mi sforzo di tentare di accettare la loro proposta, tuttavia le parole non mi escono di bocca. Mi ritrovo, così, a scuotere insistentemente la testa, inventando una delle mie poco credibili scuse.
«Bé, pensaci...» si rivolge a me Aubree, che socchiude gli occhi, mentre Benjo rotea le pupille con disapprovazione.

Terminiamo il pranzo ed usciamo, liberandoci dalla folla che si precipita a fiotti aldilà della porta e ci fermiamo in fondo al corridoio.
«Noi andiamo un secondo al bagno!», ci comunicano le due ragazze, mentre Savannah fa la linguaccia, prima di darci le spalle.

Mi rigiro sui talloni, incerto sul da farsi.
E' Benjo a smorzare il silenzio: «Dai, devi assolutamente esserci!», insiste lanciandomi una pacca amichevole sulla spalla.
«Vedrò di liberarmi dai miei impegni...», tento di rassicurarlo.
«Ottimo! Fatti trovare al 22 di Funk Street, se non cambi idea», mi dice prima di darmi le spalle, lasciandomi impietrito.

***

I sedili del pulmino sui quali sono seduto risultano parecchio scomodi, mentre osservo dal finestrino i quartieri differenziati di Santa Barbara.
Mi ci è voluto un sacco di coraggio per riuscire a convincermi ad accettare l'invito dei ragazzi, persino a prenotare la fermata. Nonostante ciò, eccomi qua.
Il pullman rossastro frena di colpo, mentre un gruppo di ragazzi sulla trentina di etnie diverse si affretta a salire sui gradini del bus, accomodandosi di fronte a me.

Dopo essermi appisolato per un attimo, riapro gli occhi, e scopro con sorpresa di ritrovarmi in un particolare quartiere del quale non conoscevo l'esistenza.
Particolare, sì, ma di certo non in senso positivo.

Ammassi di edifici verticali che avrebbero bisogno di una bella verniciata, quasi tutti sui toni del grigio, si estendono lungo le strade di Funk Street, illuminate solo da qualche lampione malmesso, mentre gruppi di ragazzini con delle bottiglie trasparenti alla mano e delle sigarette tra le labbra scrutano attorno a loro, alla fermata dell'autobus davanti la quale il mio pullman si arresta.

Diamine, proprio qui? Penso tra me e me, mentre, completamente titubante, mi affretto a scendere.
Stringo i pugni mentre passo di fianco al gruppetto di ragazzi che mi fissa sogghignando, probabilmente per prendermi in giro, dato il mio aspetto totalmente differente dal loro.
Indossano, per l'appunto, dei larghi calzoncini e cappellini dai colori neutri, che gli oscurano buona parte del volto, creando su di esso una composizione di luci ed ombre decisamente inquietante. 

La mia andatura aumenta, mentre passo in rassegna con lo sguardo ogni singola casa trasandata che mi si piombi davanti, alla ricerca del numero 22.
Il mio cammino viene interrotto da una ragazza che potrei quasi considerare mia coetanea, con dei capelli chiari lisci come spaghetti, un trucco pomposo che le ricopre le labbra sottili e gli occhi verde smeraldo. La sua minigonna inguinale e la scollatura lampante mi lasciano ben poco all'immaginazione.

«Ehy, carino...» si rivolge a me dandomi una strizzata di guancia, lasciandomi di sasso. «Che ne dici... Ti va di fare un giro?». Il tono di voce provocante, mentre mette ancora più in mostra il prorompente seno chiaro, nonostante io non capisca come possa esserci riuscita.

La oltrepasso mentre cerca di infilare le sue dita tra i ricci che tempestano la mia testa, osservando il suo volto contrarsi in un cenno di disapprovazione.

Dopo all'incirca una decina di minuti di perlustrazione di viuzze buie peste, trovo finalmente il numero 22: una casa sverniciata, anch'essa decisamente malmessa, si impone in un giardino trasandato, ornato solamente da alcune piantine, ormai ingrigite dalla seccatura, al centro di esso.
Un urlo si divincola dal suo interno, prima che la porta si schiuda, lasciando intravedere un'esile donna di mezz'età dai capelli scuri e leggermente unti.
Barcolla su sé stessa impugnando una sorta di sigaretta, coperta solamente da un reggiseno bianco e da dei pantaloncini a vita alta... Ride, da sola a quanto pare.

Ma dove diavolo mi sono cacciato? Comincio a meditare sul fatto che possa essersi trattata dell'ennesima burla nei miei confronti.
Non mi stupirei, d'altronde... Chi mi assicura che io debba fidarmi di tre ragazzi appena conosciuti? Così strani, per giunta...

Faccio per andarmene, stanco ed affaticato, quando una voce familiare fa capolino alle mie orecchie.
Mi volto e scorgo Aubree fuoriuscire dalla porticina di quella stessa casa, rimproverando a voce alta la donna: «Mamma, torna in casa, cazzo... Ti guardano tutti!», urla in tono disperato la ragazza dagli occhi a mandorla, che per tutta risposta riceve, da quella che deve essere la madre, una provocatoria sbuffata di fumo dritta sul viso.

La donna, poi, esplode in una sonora risata, mentre il volto pallido di Aubree si corruga in preda al nervosismo, prima di prenderla con la forza e trascinarla in casa.
Una volta sola si prende il viso tra le mani, in fare esausto... Dopodiché il caos: i suoi occhi incontrano i miei, e la sua bocca si spalanca dallo stupore.

Uno stupore decisamente avverso. 

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