Capitolo 31: Click
Se nemmeno quelli che consideravo amici sono in grado di capirmi, penso che dovrò contare esclusivamente su me stesso.
Come ho sempre fatto, d'altronde.
Mi dirigo a passo lesto verso l'ufficio del preside, ove dovrò comunicare le mie dimissioni dal tanto valido corso di Problem Solving. Non ne ho più bisogno, ormai.
La sala d'attesa è, come da copione, gremita di gente: una coppia di ragazzi si scruta in cagnesco a vicenda, mentre una terza figura, stavolta femminile, alza gli occhi al cielo per questo atteggiamento decisamente infantile. Un'altra ragazzina, fin troppo gracile, ignora bellamente il tutto, sfogliando rumorosamente le pagine di una rivista che pare sul punto di cadere in pezzi da un momento all'altro.
Decido di sedermi proprio di fianco a quest'ultima, poiché di fare da guarda del corpo ad uno dei due ominidi non se ne parla proprio.
Mentre mi osservo le punte dei piedi, coperte dalle sneakers nere ammaccate sui lati, penso a quanto sia assurdo che in così pochi mesi io mi sia ritrovato più volte in questa dannata sala, rispetto a cinque interi anni.
Penso anche al primo incontro con Benjo, proprio qui. A quando, dopo averle prese di santa ragione, lui mi aiutò inconsapevolmente, ricambiando il favore a quell'idiota di Leroy Johnson per poi, conseguentemente, finire proprio qui.
La porta dell'ufficio si spalanca e la medesima signorina dell'ultima volta fa il suo ingresso.
E', come suo solito, vestita di tutto punto: un tailleur scuro, un paio di calze velate ed un paio di lucidi tacchi a spillo.
Consulta il tabellone degli orari, e proprio mentre uno dei ragazzotti rissosi si sta facendo largo per entrare nello stanzino, io mi avvento, prima di lui, verso la porta.
La segretaria mi ferma, posandomi una mano sul petto: «Nome?», domanda con un sorriso a denti stretti.
«Wayne Connor...», affermo, mentre lei annuisce, sistemandosi gli occhialoni sul naso. «E no, non sono su quella lista», continuo, lasciandola impietrita e leggermente in imbarazzo.
Mentre posso percepire l'ira funesta del omuncolo alle mie spalle per avergli soffiato il posto sotto il naso, tento di oltrepassare ancora una volta la donna, che pare però non voler cedere.
«Signor Connor!», si para lei proprio di fronte a me, ostacolando il mio passaggio. «Il precedente appuntamento del signor Miller non è ancora terminato...», sbotta.
Alzo gli occhi al cielo, ma sono davvero stufo di aspettare.
D'altronde si tratta esclusivamente di una stupida comunicazione!
Approfitto del momento di distrazione della donna, che spunta tutti i presenti nella sala sul tabellone che ora stringe un poco più forte tra le sue mani, per valicare la sua figura.
Riesco a sfuggire, finalmente, alla sua presa, ed apro prontamente la porticina in legno di quercia.
Il preside Miller non è cambiato di una virgola: gli stessi occhi allungati, la stessa barba brizzolata, la stessa aria sofisticata che lo caratterizza alla perfezione.
E come lui, nemmeno il suo studio pare aver subito modifiche... I faldoni colorati sono sparsi ovunque sulla superficie legnosa di fronte a lui, e la cornice argentata ritraente lui in compagnia della figlia è ancora in bella vista.
E' intento a parlare con un ragazzo che, purtroppo, non mi è concesso intravedere, poiché nascosto dall'enorme sedia in pelle sul quale è adagiato.
Quando concretizza il mio ingresso, però, si arresta di colpo e acquista un'aria severa, e comincio a pentirmi di essere entrato senza preavviso.
La segretaria mi raggiunge con aria mortificata. «Mi dispiace, ha insistito così tanto!», si rivolge al signor Miller con aria esasperata, cercando di trascinarmi fuori dallo studio.
Mi libero ancora una volta. D'altronde, ormai il guaio è fatto.
«Voglio solo comunicare le mie dimissioni dal corso di problem solving...», butto fuori di colpo, ansimando ancora per la faticaccia degli ultimi minuti.
Dal momento che non ricevo risposta, proseguo da solo. «Non ne ho bisogno. So cavarmela da solo, io...».
Annuisce, ma ancora niente. Le orecchie cominciano a scaldarsi, a ribollire di rabbia. «Oh, e la prego... La prossima volta eviti di prendere decisioni per conto mio. Ciò che voglio o non voglio fare io, non la riguarda», sbotto, lasciando stupefatto persino me stesso.
La segretaria si porta una mano alla bocca, ma nemmeno lei osa emettere fiato.
Il preside, invece, ha un'aria davvero tranquilla. Fa schioccare, di tanto in tanto, il tappino retrostante alla sua penna, scrutandomi con aria assorta. Come se stesse meditando sulle conseguenze delle mie azioni.
La cosa, comunque sia, non mi preoccupa particolarmente.
Do le spalle a tutti quanti, e apro la porta, con l'intento di andarmene.
Tuttavia, mi blocco non appena la voce profonda e seriosa del preside giunge alle mie orecchie, sicuramente paonazze.
«Solo un secondo...», dichiara cauto, facendomi voltare una volta ancora nella sua direzione. «Dato che è stato così educato da interrompere la mia conversazione con il signor Johnson, sarà il caso di rimandare questa riunione», continua con la fronte aggrottata.
Solo un secondo... Johnson?
Fa che si tratti di un qualsiasi altro Johnson, ma non di...
«Leroy, mi dispiace...», si rivolge ora alla persona incognita - o forse non più - sprofondata nella sedia, facendogli cenno di uscire.
Posso scorgere la sua testa castana annuire, per poi alzarsi e voltarsi nella mia direzione.
Deglutisco stordito quando i suoi occhi incontrano i miei...
«Arrivederci...», saluta il preside.
Che scherzo è questo?
Lo precedo e me ne esco da questo dannato studio, sotto lo sguardo minatorio della segretaria.
Una volta fuori anche dalla sala d'attesa, posso finalmente respirare.
«Ottima sceneggiata», commenta sarcastico qualcuno dietro di me.
Ho detto ''qualcuno''? No, so esattamente di chi si tratta.
«La cosa non ti riguarda», rispondo senza nemmeno la necessità di voltarmi.
«No, dico sul serio. Ora che non sei più iscritto al corso di problem solving», stenta a trattenere una risata, «direi che potrai prendere in considerazione quello di teatro».
Mi volto di scatto, e mi ritrovo a un palmo di naso dalla sua faccia.
Indietreggio leggermente e riacquisto il mio equilibrio, prima di minarlo con lo sguardo.
«Non ti conviene giocare con me, Leroy.... Lo sai meglio di me», lo minaccio apertamente.
Il suo sguardo muta in un secondo: dal sorrisino beffardo che non tollero minimamente, si passa ad una smorfia di rabbia, che tuttavia sta tentando in ogni come di reprimere.
«Avanti, sì... Prendimi a pugni, ribellati, fammi quel che vuoi...», lo provoco, e ovviamente non se lo lascia ripetere due volte.
Mi afferra per lo scollo della t-shirt e mi catapulta contro il muro del corridoio, come è solito fare.
«Forza, sferra uno dei tuoi pugni da...», non riesco nemmeno a finire la frase, che effettivamente obbedisce.
Le sue nocche di pietra si fiondano contro la mia guancia destra, lasciandomi di sasso.
Mentirei se dicessi che me lo aspettavo. Cazzo, se era imprevedibile.
La rabbia sul suo volto ora lascia spazio al pentimento, ma ovviamente, non vuole darlo a vedere.
Non si pente per avermi fatto del male, perchè non gli interessa minimamente.
No, si pente solo perché teme una reazione da parte mia.
E dopo questa sua mossa azzardata, non può che aspettarsela.
Approfitta del mio smarrimento per darsela a gambe, ma non prima di aver biascicato qualche parola incomprensibile, dato il fischio che da un paio di secondi sta tormentando il mio povero orecchio destro.
Mi prendo un secondo di pausa sprofondando a terra e massaggiandomi la guancia ammaccata, meditando sulla migliore vendetta per quella testa di cazzo.
Un lampo di genio, poi, varca la mia mente: mi fiondo nell'aula di informatica, fortunatamente non troppo distante da dove mi trovo.
La fortuna, ovviamente, non è dalla mia parte, poiché una classe intera sta facendo lezione proprio in quest'aula.
Tutti quanti ridono, quando mi fiondo all'interno di essa per poi bloccarmi non appena noto il professore alla mia sinistra.
«Scusi... P-potrei usufruire del computer libero?», domando gentilmente indicando il computer in fondo alla sala. Il computer malmesso, quello che tutti tentano di evitare come la peste.
«E a cosa ti servirebbe, scusa?», inarca un sopracciglio.
«Il signor... Miller mi ha chiesto se potessi stampargli alcuni documenti», sorrido stringendo un poco di più il bracciolo dello zaino sulle mie spalle, stupendo anche me stesso per il mio progresso con le bugie.
Annuisce, e ringraziandolo, mi fiondo al pc.
Mi siedo sulla seggiola girevole e comincio a smanettare con il codice per accedere, poi litigo con questa tastiera preistorica, poiché alcuni tasti sembrano essere saltati.
Dopo un periodo a me interminabile, riesco ad aprire Internet, ed accedo al sito della scuola.
Vado nella sezione ''Giornalino della Scuola'', ovvero una sorta di blog in cui chiunque può, anche in forma anonima, lasciare un messaggio, condividere una foto, far circolare notizie o mettere in luce gli eventi clou della District.
Io, ovviamente, invierò un messaggio anonimo.
Collego l'USB dal mio telefono al computer e in un attimo - per così dire - la foto è caricata.
Non mi resta che premere invio, e il gioco è fatto.
Perdonate la lunghezza.
Se trovate che sia davvero troppo lungo, provvederò ad eliminare qualche parte.
Fatemi sapere :*
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