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Capitolo 3: East Beach

Ci sediamo sul cornicione della District, proprio fuori dall'ingresso, con l'intento di parlare, mentre la osservo addentare una mela.
«Vedi...», comincia lei, masticando piuttosto rumorosamente. «Fino a qualche tempo fa lavoravo al NewMarket, il supermercato di fronte al King Palace ed incontravo spesso Fitz...».

La osservo, tentando di capire dove abbia intenzione di andare a parare. «E...?», domando, mentre la voce prende ad incrinarsi.

«E niente. Era davvero un brav'uomo», ammette, gettando il torsolo giù per il cornicione, osservandolo precipitare giù nel prato ben curato del cortile. «Spesso ci fermavamo a chiacchierare davanti ad un bicchierino... Si sentirà, la sua mancanza.»

Mi torna alla mente, con la sua barba arruffata brizzolata, gli occhi chiarissimi, i capelli ingrigiti arruffati sulla sua testa simili ad un nido di rondine. Non posso fare a meno che pensare a quanto mi manchi, anzi... A quanto mi mancherà, non appena l'idea di non averlo più al mio fianco si concretizzerà in me.

Lei mi osserva, facendosi improvvisamente seria, probabilmente captando il susseguirsi di ricordi che mi si intrufolano nella mente senza darmi un attimo di tregua. La sento armeggiare con qualcosa, all'interno della tasca dei suoi jeans scuri, nel tentativo di estirparne qualcosa di indefinito.

Tira fuori una piccola lettera stropicciata, scrutandola con un'espressione assorta, tenendola salda con il pollice e l'indice.
Cerca di eliminare le pieghe che si formano ai suoi lati, prima di porgermela. «Mi dispiace, avrei dovuto tenerla meglio...», mi comunica, incurvando le sopracciglia in un'espressione preoccupata.

Dire che non ci sto capendo nulla è dire poco. Cosa sta succedendo, esattamente? Qual è il contenuto della lettera?
La afferro pronto a fare domande, volenteroso di capirci di più...
«Chi te l'ha d...», tento di chiedere, ma una voce rauca proprio alle mie spalle mi interrompe sul più bello.

«Aubree Houston!», esclama qualcuno.
Mi volto all'istante, ritrovandomi di fronte una ragazza alta suppergiù un metro e sessanta, che indossa una felpa larghissima sui toni del senape, dei pantaloni di lino altrettanto larghi di ogni colore e delle semplici Converse nere. I capelli crespi, del colore del caffè, le incorniciano il volto tondeggiante, caratterizzato da dei grandi occhi scuri, da un naso all'insù e da delle sottili labbra, aperte in un sorriso reso particolare dal fatto che, proprio in mezzo agli incisivi, ci sia una finestrella abbastanza ampia.

E' accompagnata dal ragazzotto dalle spalle larghe con i rasta biondi che ho incontrato oggi nella sala d'attesa dell'ufficio del Miller, che nel frattempo contempla lo scenario del cortile dondolando su sé stesso, ignorando completamente chiunque.
Ne approfitto per nascondermi la lettera all'interno della tasca dei miei bermuda beige.

«Ragazzi!», urla Aubree correndogli incontro. Dopodiché si rivolge a me: «Wayne... Lei è Savannah», dice indicando la ragazza dai denti separati. «Mentre lui...», continua, puntando il dito nella direzione del capellone... «Lui è Benjamin».
Il ragazzo la interrompe: «Chiamami Benjo», mi avvisa portandosi alla fronte l'indice e il medio.

Annuisco, limitandomi ad alzare la mano in cenno di saluto, sforzandomi, perlomeno, di accennare ad un sorriso.
La ragazza, però, mi stringe la mano con forza mentre lui si volta, schiudendo le labbra in segno di stupore.

«Oh, stai meglio?», mi domanda, indicandomi lo zigomo con un dito.
Annuisco silenziosamente mentre alla ragazza, decisamente strana, si illuminano gli occhi. «Fico!», urla, attirando l'attenzione di alcuni passanti dietro di lei, che nel frattempo si scambiano un'occhiata esilarata. «Posso toccare?», mi chiede avvicinando il suo indice al mio corpo, prima che Aubree possa allontanarla con una stretta di spalle amichevole. 

Benjamin - voglio dire... - Benjo si porta le mani sui fianchi, divaricando le gambe.
«Che giornata oggi...», esclama ispirando a pieni polmoni l'aria fresca. «Pensavamo di fare un giro in spiaggia, oggi pomeriggio. Tu ci stai?», mi invita penetrandomi con i suoi occhi di ghiaccio.

Sono deciso a rifiutare, tanto che mi porto le mani davanti, pronto ad inventare qualche scusa. «Mi dispiace non p...», tento di giustificarmi, in qualche modo, ma la sua pacca sulla spalla, troppo pesante per il mio fisicino esile, mi interrompe bruscamente.
«Forza! Abbiamo le birre!», tenta di convincermi indicando con il pollice un furgone malandato, di un giallognolo scrostato, proprio di fronte a noi, nel parcheggio della scuola.

Sposto lo sguardo verso Aubree, che fa spallucce. «Che ci vuoi fare... Ha le birre!», squittisce prima di sprofondare in una risata omerica, unendosi all'amica Savannah.

[...]

Il motore del furgone gorgoglia, prima di accendersi.
Le ragazze mi hanno concesso di accaparrarmi il sedile del passeggero, mentre dietro, sul cassone, sono adagiate Aubree e Savannah, accomodatasi su dei morbidi cuscini colorati, che si godono il paesaggio che Santa Barbara ci offre e l'aria fresca, stappandosi una birra ciascuno.

Il conducente, durante la corsa, scocca un'occhiata sul retro tramite lo specchietto retrovisore e, fulminandole con uno sguardo colmo di sfida, accelera di colpo, prendendo in pieno un dosso ben pronunciato, facendo sobbalzare in aria le due malcapitate, là dietro.

«Idiota! Mi si è rovesciata la birra addosso!», grida una voce più decisa, probabilmente di Savannah, che sbatte insistentemente i pugni sul tettuccio, mentre Aubree non riesce a trattenere le risate, come denoto dal finestrino che separa le due parti del veicolo.

[...]

Il camioncino fatica ad arrestarsi, una volta giunti nelle vicinanze della East Beach.
Saranno passati per lo meno sette anni dall'ultima volta che sono stato qui, penso tra me e me sbattendo la portiera, prima di scendere dal catorcio scolorito, che pare sul punto di cadere in pezzi.
Ricordo quando zio Fitz mi portava sulle sue spalle fino a riva, per poi scaraventarmi giù nell'acqua gelata, ancora con i vestiti addosso, e farmi travolgere dalle onde, incuranti della mia presenza.

Aubree, con un balzo atletico, piomba giù dal cassone, mentre Savannah, leggermente più in carne, deve essere aiutata da Benjo.

Ci dirigiamo verso la spiaggia, oltrepassando il vialetto delimitato da palme che compone il lungomare, dove un ragazzetto sfreccia via con il suo skateboard, donandoci un'esibizione a prova di campione.
Gruppetti di ragazzi sono adagiati sulla morbida e bianca sabbia, ascoltando a tutto volume una delle canzoni commerciali più in voga, incuranti del panorama mozzafiato che li circonda.

«Andiamo sugli scogli!», propone Benjamin, sorseggiando la sua Beck's e appropinquandosi nella loro direzione.
Le ragazze annuiscono, esaltate, mentre lo seguono sprofondando i piedi nudi nella sabbia, che tra un paio di mesi diventerà talmente calda da ustionarti i talloni. 

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