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Capitolo 29: Un punto di svolta

La mattina dopo saluto i miei genitori e lascio la mia abitazione, senza avere la benché minima idea di cosa la giornata avrà in serbo per me.

Mia madre, dopo avermi colto in castagna con Aubree nella mia camera, quella dannata sera in cui è fuggita senza darmi modo di giustificarmi, mi ha ridotto il coprifuoco.
O meglio, lo ha definitivamente abolito: le mie fughe sono ora limitate a questioni scolastiche, il che significa ''niente più feste'' e ''niente più ragazze in casa''.

Alzo gli occhi al cielo mentre scalcio via qualsiasi ciottolo mi ritrovi sul mio cammino, ripensando alla fermezza con cui mamma ha imposto queste assurde regole.

Penso, inoltre, a come reagirebbe Leroy, qualora dovesse beccarmi tra i meandri della scuola.
Mi eviterà? Mi pregherà di non pubblicare le prove schiaccianti della sua omosessualità? O sarà il solito sbruffone di sempre?
Se l'ultima opzione dovesse avere la meglio, le cose si farebbero davvero molto interessanti.

Emetto un respiro profondo quando mi ritrovo di fronte l'imponente edificio della District, come a voler espellere dal mio animo tutta la tensione accumulata in questo dannato periodo.
Sono successe davvero troppe cose: la rivelazione di Leroy, il bacio e l'attrazione nei miei riguardi da parte di Cara...

Ma ciò che mi turba in particolar modo è tutt'altro: Aubree. Non ho ancora avuto modo di riappacificarmi con lei.

Non c'è più tempo, ora o mai più.
Mi dirigo a passo spedito all'interno della struttura per poi cominciare a scrutare attorno a me.
Nel corridoio principale, di lei nessuna traccia.
Attendo una manciata di minuti fuori dalla porta del bagno delle ragazze, guadagnandomi così qualche occhiataccia indiscreta da chi ne fuoriesce, ma Aubree non si fa viva.

Poi un lampo di genio: il mio posto preferito. Il nostro posto preferito: il cornicione.
Corro su per le scale alla velocità del suono, fino a quando, finalmente, la luce del sole non oltrepassa la porticina malridotta e si abbatte contro le mie iridi dorate.

Lascio che la vista si abitui al chiarore, quando finalmente la vedo: è sorridente, e chiacchiera con qualcuno.
E' la mia occasione, probabilmente l'ultima. Quella che non posso assolutamente lasciarmi scappare.
Sto per percorrere l'ultima scalinata che mi rimane, quando qualcuno mi afferra il polso da dietro.
Sussulto, temendo si tratti di Leroy, ma mi rilasso non appena, voltandomi, scopro trattarsi di Cara.

E' la stessa di sempre, sorride smagliante e mi scruta con quello sguardo delicato e dolce, che nessuno ha mai riservato per me.
«Ti ho visto che correvi come un matto, laggiù», fa con il fiatone. «Ho pensato di seguirti per assicurarmi che tu stessi bene.»
Annuisco. «S-Sto bene...», balbetto impacciato, riportando alla mente il bacio così estraneo a me stesso che ho vissuto ieri.

«Bene, allora dovrai convincermi di fronte ad un cornetto alla crema e un buon cappuccino.», propone lampante, lasciandomi interdetto.
«Solo un...», lascio la frase a metà, saltando su per altri due gradini.
Il tanto che basta per riuscire a scorgere la persona con cui Aubree sta parlando. O meglio, con cui Aubree sta amoreggiando senza alcun pudore. Non può che essere Brown. Nel nostro posto... Un posto che ora non vedrò più allo stesso modo, di cui non vorrò nemmeno più sentir parlare.

Un'ulteriore crepa si intaglia nel mio petto, ormai squarciato dalle innumerevoli delusioni che nessuno si risparmia di offrirmi.
Lei si è consolata in così poco tempo? Forse dovrei fare lo stesso.
Dimenticare. Dimenticare tutto nel tempo più rapido che mi è concesso.

«Andiamo», stupisco Cara prendendo la situazione in pugno e trascinandola via con me.
«Finalmente!», esclama lei, ignara delle lame che mi stanno scorticando mente e cuore.

Una volta giunti al bar, Cara ordina per me, probabilmente perché lo stato caotico in cui mi trovo è lampante persino per lei.
Si avvicina con un vassoio traboccante di croissant differenti, glasse a scelta, un paio di muffin e i nostri cappuccini.
«Tutto si sistema sempre, con una buona colazione!», prorompe lei, facendomi sbuffare in una risatina.
«Sembri mia madre...», la sbeffeggio io guarnendo il mio cornetto con la glassa ai lamponi, per poi inzupparlo nel cappuccino e dargli un morso.
Lei mi imita, optando tuttavia per la glassa al cioccolato. «Bé, tua madre deve essere una donna saggia, allora.», sogghigna.
«Ah, tutt'altro!», faccio io con un tono esasperato. «Squilibrata è il termine più adatto»

Mi tira un calcio nello stinco, da sotto il tavolino metallico.
«Ahi!», sbotto, intingendo il dito nella prima glassa che trovo sotto mano e sporcandole il nasino delicato. Tutti ci guardano, ora, e non posso fare a meno di sentirmi a disagio.
Il suo sguardo, però, si colma d'ira, ed è pronta per la vendetta, quando un gruppo di ragazzotti fa il loro ingresso, così da distogliere l'attenzione da noi.

Li riconosco subito: Leroy, Abel e la restante squadra di basket.
Spostano rumorosamente le sedie d'acciaio per raggiungere il bancone. Chiunque si trovi sul loro cammino si fa da parte per lasciarli passare.
Tutti quanti qui sembrano intimoriti da loro.

Tutti quanti tranne Cara, ovviamente, che alza la mano nella loro direzione per richiamare l'attenzione di qualcuno.
Quando Mark, il ragazzo del falò, incrocia il suo sguardo, si precipita da noi.
«Guarda chi c'è... La mia cheerleader preferita!», si avvicina per stamparle un bacio sulla guancia.
«Ruffiano!», fa la finta offesa. «Lo sanno tutti che quella è Tris!», poi mi indica. «Ti ricordi di Wayne?»

Annuisce e mi porge la mano, che stringo in una stretta amichevole.

Nel frattempo gli altri stanno ordinando la loro colazione.
«Ragazzi, che ne dite... Ci uniamo a loro?», propone lui ai suoi amici, urlando, noncurante di disturbare alcuni ragazzi in fondo al locale che tentano di ripassare per un eventuale compito in classe.
I ragazzi ci stanno. Bé, tutti fuorché Leroy, che si limita a scuotere la testa e allontanarsi, per poi sgusciare fuori dalla caffetteria, lasciando tutti interdetti.

Io però, sono tutto tranne che interdetto: un misto di stupore e appagamento mi sferza lo stomaco.
La cosa è certa: ho il coltello dalla parte del manico.
Addio torture senza pietà, addio scherni, addio oppressioni, timori o rinunce.

Finché avrò in pugno Leroy Johson, tutto andrà bene. Lui è il capo del gruppo. Non ho idea con quale criterio le sue selezioni avvengano, ma in qualche modo, spetta a lui scegliere le prede da fare ammattire.

E ora, sono al tavolo con tutti i suoi amici, più tranquillo che mai.
Nessuno stato d'ansia, nessuna preoccupazione. Mi sento... Invincibile.
E' una sensazione così nuova anche a me stesso...

«Ma che gli prende?», domanda Mark ad Abel, distogliendomi dai miei pensieri.
Abel si scompiglia i capelli massaggiandosi la nuca, poi fa spallucce. «Che vuoi che ne sappia?», sbotta come suo solito. «Cara, tu ne sai qualcosa?», domanda.
Cara si asciuga con un tovagliolo la schiuma del cappuccino dalle labbra. «E' piuttosto taciturno da ieri sera, a cena.», ammette con un'aria sinceramente preoccupata. «Pensavo che voi poteste darmi delle risposte. Non me la sono sentita di disturbarlo, sapete... Non sono ancora in una situazione di confidenza ottimale».

Cerco di ignorare lo sguardo inquisitorio di Abel, immergendomi a pieno in ciò che dice Cara, ma lui sembra non voler cedere.
«Frequenti questo, ora?», domanda lui come se non ci fossi, mentre un amico del gruppo tenta di consolare Cara con una pacca flebile sulla spalla.
Alzo gli occhi al cielo, mentre percepisco la rabbia immagazzinata in questo periodo ribollirmi dentro. «Questo ha un nome, e tu lo conosci benissimo, Abel Patterson.», sputo fuori le parole come se si trattasse di veleno, lasciando così tutti interdetti. Io compreso.

Cara, invece, si limita a nascondere il suo sorrisino soddisfatto dietro la tazzina del cappuccino.

Sì, ho decisamente il coltello dalla parte del manico.

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