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Capitolo 15: L'undicesima piaga

L'ora di educazione fisica potrebbe considerarsi come l'undicesima piaga d'Egitto, per quanto io non la tolleri.

Tralasciando il fatto che sono scoordinato quasi quanto un bradipo tridattilo e che sono negato praticamente in qualsiasi tipo di attività sportiva, ritrovarmi nel bel mezzo di una massa di corpulenti diciottenni dai busti prorompenti nella stessa stanza non fa proprio al caso mio. 

Come mio solito, trovo l'angolo più appartato di tutto lo spogliatoio, per poi prelevare dal borsone che ho adagiato sulla panchina dalle travi in legno una semplice t-shirt sui toni del grigio e dei larghi calzoncini. Una volta spogliatomi dei miei indumenti, rimanendo così in boxer, tento in ogni come di ignorare i fischi che provengono dalla parte opposta di questa opprimente stanza. 
 «Caspita, Connor...», richiama la mia attenzione Brown, che sbuca dal retro degli armadietti... «Che fisicaccio!», mi deride avvicinandosi per poi sganciare un leggero colpo di palmo sul mio petto esile, suscitando le risa della moltitudine di idioti presenti. Mi domando come possa Aubree essere interessata ad un tipo del genere. 
Mi vesto alla velocità della luce per poi sgattaiolare fuori dallo spogliatoio dall'aria viziata, evitando i continui sbeffeggiamenti a me rivolti. 

Dopo una decina di minuti di stretching ed esercizi relativi alla respirazione, il coach Bennett, uomo sulla cinquantina dai capelli ingrigiti, un lungo naso aquilino e la tonda pancia ben pronunciata, ci comunica che dovremo affrontare una staffetta competitiva. 

Perfetto, nella corsa sono ancora più schiappa del solito, penso tra me e me.
Il professore ci fa predisporre in riga lungo la linea gialla ai margini della palestra. 
Il primo gruppo di persone, affiancati uno dall'altro, attendono il via del coach, e una volta dato l'ok questi sfrecciano come saette fino alla parete opposta dell'edificio scrostato sui toni verdastri. 

Quando è il mio turno mi sento il cuore in gola. 
  «In posizione!», esclama il coach Bennett, portandosi il fischietto tra le labbra mentre i ragazzi - io compreso - ci abbassiamo su noi stessi poggiandoci su un solo ginocchio, che raspa contro il pavimento decisamente pungente.
Ce la puoi fare, Wayne... Ce la puoi fare, continuo a ripetermi cercando di infondermi forza.
Qualcuno, posizionato di fianco a me mi distoglie dalla mia concentrazione. 
  «Toglile gli occhi di dosso, chiaro?», dichiara il lanciatore Brown con un ghigno malevolo impresso sul volto. Sgrano gli occhi in aria interrogativa nella sua direzione. 
Ma che sta blaterando?

  «Aubree Houston. Pensi che non abbia notato come la guardi?», fa in tempo a domandare, prima che il coach soffi all'interno del fischietto, dando così il via alla furia dei partecipanti. 
Io, tuttavia, troppo concentrato su quanto appena rivelato, sono partito con un secondo di svantaggio. 
Tento di recuperare, correndo il più veloce possibile. 
Per un secondo riesco a raggiungere Brown, ma questo, mantenendo il sorrisino inquietante, con una spallata mi scaraventa a terra, facendo strisciare la guancia contro il terreno. 

Le risate dei compagni mi riempiono i timpani, mentre con una smorfia dolorante tento di rialzarmi a fatica. 
Brown, nel frattempo, segna il traguardo, guadagnandosi così il primo posto tra tutti e venendo acclamato dalla marea di ritardati che ora lo circondano, ignorandomi completamente. 
Il coach Bennett si appropinqua, per poi porgermi la mano e squadrarmi con aria allarmata. 
«Forza, torna allo spogliatoio», mi invita, facendomi rimettere i piedi per terra. «Prenditi pure tutto il tempo che vuoi», mi concede, avendo probabilmente captato il mio stato d'animo incagliato.

Obbedisco, ringraziandolo silenziosamente. 
Una volta giunto nello spogliatoio, prelevo una salvietta pulita dal mio borsone blu, per poi dirigermi verso il minuscolo bagno rivestito di maioliche bianco latte, e tamponare, con l'aggiunta di acqua fresca, lo sfregamento sulla guancia, che nel frattempo si è arrossata leggermente. 

Terminata anche questa operazione, ormai praticamente abitudinaria, ripongo l'asciugamano umido dove l'ho trovato, e comincio a frugarvici dentro alla ricerca di una bottiglietta d'acqua all'interno che sia in grado di placare questa sete snervante. 
Della bevanda dissetante non ve ne è nemmeno l'ombra: Devo averla scordata nel frigorifero, prima di uscire. 
Tuttavia, scovo qualcosa di ancor più inspiegabile: l'ennesimo foglio occulto.

Le mani, come da rito, prendono a tremare mentre sulla fronte compaiono le prime goccioline di sudore dovute al timore di cosa riserverà per me quanto scritto. 
Mi rilasso leggermente solo quando apro il foglio: ''Vivi. Lucy 27'', posso leggervisi. 
Sgrano gli occhi, confuso come poche volte nella mia vita... Questo è ancor più indecifrabili degli ultimi ricevuti.

Per quale assurdo motivo Abel e Leroy dovrebbero scrivermi qualcosa come ''vivi''? E cosa diavolo sta a significare quella composizione di leggere e numeri? Che si tratti di Brown?

Tento di sforzarmi a mettere insieme i pezzi: Lo specchio, la caccia, vivi, Lucy 27... Niente ha un senso!
Poi un'assurda idea mi balena nella testa... Zio Fitz? 

***

Dopo aver scartato una valanga di ipotesi su chi possa esserci dietro queste misteriosi arcani, sono deciso a ritrovare i ragazzi per confidare tutto quanto. 
Sono stufo di scervellarmi da solo, e inizio anche a preoccuparmi che possa trattarsi dell'ennesima presa in giro nei miei confronti. Non credo sarei in grado di reggerla. 

Inoltre, comincio a sentirmi davvero un idiota per come mi sto comportando: li ignoro senza motivo, o per qualche ragione che ancora non sono in grado di spiegarmi. 
Certo, siamo diversi ma... Non sono forse stati loro i primi a volermi includere nella loro strampalata combriccola? 

Vago nei meandri dell'imponente edificio in stile rinascimentale alla ricerca di quegli screanzati, ricordandomi automaticamente di stare infrangendo una delle minacce più dirette alle quali io abbia mai assistito: Toglile gli occhi di dosso, chiaro?
Deglutisco, deciso a non pensare troppo alle conseguenze, una volta tanto. 

Ed eccoli là, a sghignazzare seduti ad uno delle tavolate sul portico dell'edificio, gustandosi un panino a testa. 
Mi avvicino lentamente, incerto su come agire. 
I profondi occhi di Aubree incontrano i miei, prima degli altri, mentre la sua bocca si schiude in un'espressione stupita, per poi aprirsi in uno di quei fantasmagorici sorrisi. 
 «Guarda guarda chi è tornato con la coda tra le gambe...», mi sbeffeggia amichevolmente, riportando alla mente il suo discorso intrapreso con la tutor Julienne, al corso di problem-solving. 
Allora forse.... Si riferiva a me? 

Nel frattempo, Savannah mi scruta con aria indiscreta.
  «Ma dove diavolo sei sparito?», domanda biascicando, con ancora il boccone di pane che le ingombra buona parte della bocca, facendo piombare ai miei piedi un'infinita quantità di briciole. 
Trattengo una risata, mentre ascolto cosa ha da dirmi Benjo, che mi fa cenno di sedersi di fronte a lui, affiancando la ragazza della fossetta. 

  «Per festeggiare, tutti all'East Beach, dopo scuola!», esclama scoccandomi una gomitata sull'avambraccio.
  «Ci sto», acconsento senza esitazioni. Evento più unico che raro a quanto pare, date le occhiatacce di sbigottimento che i tre si scambiano tra loro. 
D'altronde... Devo raccontare una marea di cose!



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