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Capitolo 13: Costellazioni

Esamino la zona attorno a me, prima di rivolgermi ai ragazzi. 

 «Ma ci guardano tutti!», li avviso indicando la folla che, effettivamente, li squadra da capo a piedi come se soffrissero di un qualche strano disturbo mentale. 
Aubree fa spallucce, dando una sorsata alla sua Heineken. «E con ciò?», domanda con estrema noncuranza. «Non facciamo nulla di male. E poi la metà di loro è strafatta!», commenta puntando l'indice contro un ragazzo inondato di sudore intento ad intraprendere un discorso con la sua ombra. 

Mi hanno convinto - si fa per dire - dunque decido di distendermi sull'erba ispida, che mi pizzica la schiena ogni qualvolta riesce ad oltrepassare il tessuto di quest'odiosa camicia. 

  «Guardate là...», si interpone Benjo ammirando il cielo, tempestato da una valanga di stelle, una più luminosa dell'altra. «Quanto può essere incantevole?», domanda a nessuno in particolare. 
«Già...», fanno Aubree e Savannah in una cantilena conforme.
«''Se guardi il cielo e fissi una stella, se senti dei brividi sotto la pelle, non coprirti, non cercare calore, non è freddo ma è solo amore'', diceva il mio caro e vecchio amico Khalil Gibran.», Benjo scandisce ogni sillaba in maniera teatrale. 
Le due ragazze si osservano per un paio di secondi, prima di esplodere in un boato di risate. 
 «Oh, abbiamo un poeta tra noi!», commenta sarcasticamente Savannah, mentre Benjo le ignora beatamente proseguendo la sua perlustrazione dell'immensità di fronte a noi. 
Sorrido anche io, in effetti, ma non posso di certo negare il fatto che l'aforisma mi abbia colpito, e non poco.

Provo a concentrarmi più a fondo sull'esorbitante cupola scura che si piomba di fronte i miei occhi... Dopo un tempo a me indefinito, mi accorgo del fatto che attorno a me è come se fosse calato il silenzio, e distogliere lo sguardo da quegli infiniti asterischi risulta quasi difficile da quanto sono catturato dalla loro appariscenza. 
Il cuore prende a battere più velocemente, il mio corpo si abbandona completamente alle emozioni, la mia schiena viene invasa quasi interamente da delle scariche elettriche. 

Tutto attorno a me è ovattato: siamo solo io e quella valanga di scintillii ai quali finora non avevo mai dato troppo peso. Le davo per scontate. 

Di scatto mi metto seduto, poggiandomi sul terreno con i palmi delle mani solleticate dai fili d'erba, respirando improvvisamente in maniera affannosa. 
«Va tutto bene?», si allarma Aubree, mettendosi a sedere a sua volta. 
Annuisco, mentre con un sorriso tirato indico il colletto della camicia, che rischia di strozzarmi da un momento all'altro. Tento di sbottonarla, tuttavia le mie dita appaiono scivolose, poiché leggermente imperlate dal sudore dovuto al momento magico appena vissuto. 

Aubree strabuzza gli occhi, trattenendo a stento una risatina. 
«Lascia, faccio io», si avvicina con la sua solita sicurezza stampata sul volto e io ne approfitto per scrutarla a fondo: le fossette, ovviamente, sono il primo aspetto che cattura la mia attenzione. 
Le lentiggini, invece, rendono il suo volto ancora più infantile di quanto già possa essere; gli occhi, profondi quasi quanto due pozzi senza fine, scrutano il mio collo mentre percepisco il mio pomo d'Adamo tremolare su e giù in preda al panico. 
E infine quegli scuri capelli a caschetto, lisci come spaghetti, leggermente scompigliati nella zona nei pressi della nuca, che fino a poco tempo prima era poggiata al terreno sotto di noi. 
Come sempre, una spessa ciocca nera, sistemata proprio dietro l'orecchio, lascia intravedere il luccicante piercing sulla zona anteriore del padiglione. 

In un gesto agile, mi libera dalla trappola alla quale mamma mi ha sottoposto, per poi tornare alla postazione iniziale, proseguendo le insolite conversazione con gli altri, ignorando completamente il fatto che probabilmente mi sarò tramutato in un peperone.

 «Vado a prendere un'altra birra», avverto gli altri, con l'intento di riprendere fiato dal cumulo di sensazioni provate. 
Salgo i gradini che conducono al porticato e, oltrepassandolo, mi faccio strada tra la marea di persone che si accalcano nell'atrio di casa di Trevon. 
La metà delle persone presenti sembrano sull'orlo di una crisi di nervi: chi urla, chi solleva all'aria bottiglie trasparenti dalle dimensioni spropositate, chi lancia oggetti a destra e a manca improvvisando una sorta di pallavolo alcolico. L'altra metà, nel frattempo, sembra sull'orlo del collasso: un ragazzo è disteso sulle scale marmoree, circondato dagli apparenti amici che lo schiaffeggiano in pieno volto nel tentativo di riportarlo ''in vita'', una ragazza in preda alle convulsioni, che rimette in un vaso in ceramica decorato a mano. 

Osservo la scena di sottecchi, colpito improvvisamente da un'ondata di ribrezzo. 
Opto per trovare un posto il più appartato possibile: impresa più ardua che mai, dal momento che ogni singola stanza sembra straripare di persone. 

Un lampo di genio mi attraversa la mente: salgo le scale, oltrepassando il poveretto che presumibilmente domattina si risveglierà nel lettino di un ospedale, dirigendomi verso quello che deve essere il bagno. 

Giro la manopola dorata di una porticina in legno, ma non appena scorgo una figura femminile dalla schiena nuda adagiata su un ragazzo, di cui intravedo il glabro petto possente, spalanco gli occhi dall'imbarazzo. 
  «Chiudi quella dannata porta!», urla il tipo dai folti capelli biondi ritti sulla sua testa, lanciando un cuscino nella mia direzione. Nel frattempo, la sua donzella non si è nemmeno scomodata a coprirsi con un lenzuolo. 

Richiudo la porta di scatto. «Scu-scusate!», balbetto dandomi degli innocui colpetti sulla fronte, rimettendomi alla ricerca di questo stramaledetto bagno. 

Dopo una buona dozzina di minuti, dopo essermi assicurato dell'assenza di adolescenti con gli ormoni in subbuglio, mi chiudo a chiave all'interno di quello che pare essere uno sgabuzzino, più che una sala da bagno. 
Mi sciacquo insistentemente il volto con dell'acqua gelida, per poi aprire una piccola finestrella e affacciarmici, inspirando a pieni polmoni l'aria fresca della notte. 

Da qui, la vista non è niente male: la massa di persone non sembra essersi attenuata, nonostante l'orario ormai tardivo, le luci di ogni colore sfavillano, illuminando i volti di chi si scatena. 
Scorgo una chioma castana intenta a chiacchierare con un gruppo di ragazzette senza pudore, dati i loro top succinti e le loro mini inguinali: Savannah, potrei scommetterci. 

Qualche metro dopo, un caschetto nero attira subito la mia attenzione: l'esile corpo latteo, la canottiera bianca, i pantaloncini di jeans stretti sulle gambe snelle, le semplici sneakers in tela fungono da calamita per i miei occhi. 
Le morbide spalle vengono talvolta illuminate dalla fioca luce proveniente dalla pista da ballo. 

Tiene saldo tra le sue mani un bicchiere allungato, nel quale intravedo qualche fogliolina di menta. Sorseggia la bevanda dondolandosi su sé stessa in movimenti caparbi, in grado di far posare ulteriori occhi indiscreti su di lei. Oltre ai tuoi, mi ricorda la mia coscienza.

Poco dopo, viene raggiunta da un ragazzo alto e spallato, con dei folti capelli biondo platino rasati ai lati: Brown, lanciatore della squadra di football.
Con un gesto incontrastabile la avvicina al suo petto, prima di fiondare le sue labbra su quelle carnose e ben formate di Aubree, continuando a ballare imperterriti. 

Il petto sussulta, alla vista di questo scempio.
Dio, quanto sono ridicolo, mi ritrovo a pensare, apparendo ai miei stessi occhi come un codardo stalker da quattro soldi. 

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