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Capitolo 10: Che la caccia abbia inizio

Riprendo fiato da quanto appena accaduto. 

Non posso credere di averlo anche solo pensato, di aver concesso ancora una volta alla mia mente di delirare in tal modo, dopo così tanto tempo. 

Ricordo l'aria tirata dei miei genitori, ogni qualvolta tornassi a casa con il volto contuso in una valanga di lividi, da quelli più rossastri, a quelli più temibili, sui toni di un viola spaventoso. 

 «Non dirmi che sono ricominciate...», le parole di poche ore fa di mamma ruggiscono imperterrite nella mia mente, mentre la sua espressione sconvolta dall'apprensione sembra non avere la benché minima intenzione di dissolversi dai miei pensieri. 
Forse sarebbe stato meglio... Forse avrei dovuto farlo. Buttarmi giù da quello stramaledetto cornicione, farla finita. Sarebbe stato tutto più facile, questo è poco ma sicuro... 
Mi accorgo di stare vaneggiando solamente quando un fremito di orrore e disgusto mi tormenta la schiena. 
Ma che diavolo sto blaterando? Come posso pensare a tutte queste idiozie, dopo tutto il discorso studiato a tavolino da zio Fitz? Io devo andare avanti, in un modo, o nell'altro. Per lui.
Mi costringo a rientrare in casa, schiaffeggiandomi qualvolta il volto impallidito, che percepisco raggelare ulteriormente sotto i miei fievoli colpetti. 
La cucina è esattamente come la ricordavo: le pareti piastrellate in ceramica, un piccolo tavolino quadrato in legno, una sedia ad esso abbinata, un bancone metallico contenente il lavello e un imponente frigorifero argentato. 

Con uno stolto sorrisino stampato sul volto, afferro l'impugnatura del congelatore, per poi aprirlo e scoprirci, all'interno, una decina di birre, ancora sigillate. 
Ne afferro una: è scaduta da un paio di mesi. 

Titubante, la stappo a fatica tramite una forchetta scovata all'interno di uno degli innumerevoli scaffali sopra la mia testa. 
Una non farà poi così male, penso tra me e me. E poi , ora come ora, è proprio ciò che mi ci vuoleIngurgito una sorsata: la mia prima sorsata di birra della storia della mia esistenza. 
 «Alla tua, zio», brindo alzando la bottiglia dal vetro verde all'aria, increspando il volto in una smorfia involontaria dovuta al sapore amaro della sostanza, che tuttavia non trovo affatto male. 

Mi siedo sulla seggiolina solitaria, abbandonandomi ai ricordi e immedesimandomi nel mio adorato zio. 
Quanto deve essere stato difficile per lui, vivere tutto solo per all'incirca un cinquennio, senza l'unica donna in grado di placare i suoi tormenti? 
Zia Scarlett era davvero la donna più dolce che io abbia mai conosciuto: Quando tornavo a casa da scuola distrutto per via di quegli scellerati, lei mi coccolava, accarezzandomi con le lunghe dita morbide i miei folti riccioli scuri, fino a che i miei singhiozzi strozzati non si trasformassero in sospiri idilliaci. 
Zio Fitz, con lei al suo fianco, era un altro: Gli occhi gli si illuminavano e le guance gli si arrossavano lievemente, ancor di più di quando era sbronzo. 

Tento di buttar giù un altro sorso, ma, perso nei meandri dei miei ricordi, solo ora mi accorgo del fatto che la bottiglia sia ormai completamente vuota, e chissà da quanto tempo, per giunta. 
Mi appropinquo al frigorifero, con la vista lievemente offuscata, ma non abbastanza da frenarmi. 
Afferro un'ulteriore Heineken, quando un foglietto svolazza nell'aria, precipitando ai miei piedi. 

Mi mordo il labbro ancora gonfio, aspettandomi il peggio. 
Raccolgo il foglio da terra completamente tentennante, mentre percepisco un nodo alla gola, che si aggroviglia su se stesso. 
Strabuzzo gli occhi per mettere a fuoco una scritta a me indecifrabile, probabilmente a seguito dell'alcol appena consumato. 
Dopo un secondo, qualcosa appare: ''Che la caccia abbia inizio'', leggo, riconoscendo all'istante la gravosa scritta rossa, mentre uno sconvolgente senso di paura mi attanaglia, impedendomi di deglutire. 

Caccia? Quale caccia?
Qui c'è lo zampino di Leroy e Abel, me lo sento... Quei disgraziati... 

Queste birre non mi daranno mai l'effetto di cui necessito... Ho bisogno di qualcosa di più forte, ragiono da solo prima di appropriarmi di un altro paio di bottigliette e precipitare giù per le scale del condominio. Mi getto poi sulla strada, barcollando di tanto in tanto, accartocciando il foglio e nasconderlo nella tasca posteriore dei jeans. 

***

Dopo aver gettato a terra le altre due birre consumate fino all'ultima goccia, faccio il mio ingresso nel primo bar che mi si piombi davanti: non ha importanza di che cosa si tratti. 
Tasto con il palmo della mia mano uno degli sgabelli liberi di fronte al bancone, ignorando le occhiatacce indiscrete di alcuni anziani che si gustano il loro Brandy, o qualsiasi altra cosa sia. 

Alcune vecchie megere, sedute al tavolo del ''pettegolezzo'', parlottano tra loro sussurrando e coprendosi le loro fetide bocche con la mano, guardando senza scrupoli nella mia direzione. 

Un ragazzo dai capelli ramati e dagli occhi verdi mi accoglie sorridendo.
  «Cosa posso portarti, ragazzino? Un succo di frutta può andare?», domanda senza alcun alone di scherno. 
Scuoto la testa insistentemente. «Uno di quelli», biascico appena appena, indicando con il pollice i bicchierini pieni di alcol dei signori che mi affiancano, che nel frattempo esplodono in un boato di risate. 

Gli angoli di bocca del ragazzo in camicia di fronte a me cambiano direzione, scagliandosi verso il basso. Una goccia di sudore gli si forma sulla fronte, per poi scivolargli lungo le guance. 
  «Amico, io non...», comincia, in preda al panico. «Ma quanti anni hai?», strabuzza gli occhi di fronte alla mia inusuale indifferenza.

Sto per rispondere, arrendevole, quando qualcuno ci interrompe. 
  «Josè, caro!», strilla una voce fin troppo familiare alle mie spalle. 
Al ragazzo, sulla ventina, si illuminano gli occhi. «Aubree, tesoro... Quanto tempo!», ricambia il saluto con un entusiasmo decisamente troppo enfatico.

Ci risiamo... Ma questa Aubree è come il prezzemolo, mi costringo a pensare.
Si rivolge a me non appena scorge la mia figura, ormai slavata e probabilmente maleodorante di luppolo scaduto. 
 «Wayne? Ma che...?», comincia lei con l'aria sbalordita. 

La ignoro, alzando gli occhi al cielo. 
  «Allora... Questo Brandy?», mi rivolgo al cameriere aumentando il tono di voce, stupendo più me stesso che il ragazzotto, che nel frattempo trasalisce. 

  «Brandy?», continua ad immischiarsi Aubree. «Ti rendi conto che sono solo le undici di mattina, non è così?», mi sbeffeggia schiaffeggiandomi una spalla.   «Me ne rendo conto, e allora?», ringhio incontrando i suoi occhi, mentre le sue labbra si trasformano in un cenno di disgusto dovuto al mio alito fetido, ma al tempo stesso divertito. 

Dopodiché fa spallucce, strizzando l'occhio al suo apparente amico. 
  «E Brandy sia, allora...», sussurra nel tentativo di non attirare l'attenzione dei vecchiacci su di lei.
Il cameriere, Josè, sembra captare qualcosa, mentre un ghigno malefico gli compare sul volto. «Mi farete andare nelle grane, ragazzacci!», fa lui sghignazzante, mentre ci versa uno strano liquido trasparente. 

Osservo poi Aubree, domandandomi quale assurdo potere abbia questa ragazza sulle persone. 
 «Alla tua», brinda lei acchiappando uno degli shottini allineati di fronte a noi, facendo schioccare il vetro contro il mio bicchierino. 

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Eccoci qui con un altro capitolo. 
Che ne dite? 
Vi è piaciuto? Vi ha fatto pena? 

Sono ben accette critiche o consigli :D
  








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