8- 𝙎𝙘𝙚𝙣𝙩 𝙤𝙛 𝙮𝙤𝙪 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
«Spiegami il trucco del telefono, Elly» chiesi curiosa.
«Che trucco?» C'erano volte in cui sembrava cadere dalle nuvole, e questa era una di quelle.
«Quello del cellulare, me l'hai accennato l'altra sera, quando sono stata male.» Spiegai.
«Oh, quello. Nulla di che in realtà, mio fratello ha da poco cambiato telefono. Così io ho il mio cellulare tutto il giorno, e consegno in infermeria quello vecchio di Jordan, senza nessuna scheda dentro. Mi ha anche comprato una cover uguale alla mia, così le infermiere non se ne accorgono.» Disse come se nulla fosse.
«E nessuno ti ha mai beccata?»
«No, ho costantemente la modalità silenziosa e lo tengo nascosto. Conosci Alda Merini?»
«Negativo capo.» dissi scuotendo la testa, confusa da quell'improvviso cambio di argomento. In risposta, mi porse un libro dalla copertina rigida, quello che teneva sempre sul comodino. Le poesie di Alda Merini, riportava il titolo, e aprendolo mi accorsi che il suo interno era stato perfettamente ritagliato fino a creare un buco nel mezzo. Ellison aveva minuziosamente creato un perfetto nascondiglio per il suo cellulare: quando la si credeva immersa nella lettura, era in realtà impegnata a chattare con il mondo esterno. Ed il fatto che il libro fosse sempre vicino al suo letto, in bella vista, rendeva Ellison un genio assoluto.
«Davvero nessuno se n'è mai accorto?» Domandai.
«Greg lo troverebbe in due nanosecondi, ma non può entrare nelle camere delle pazienti. Quel libro esce dalla stanza solo nei weekend, quando lui non c'è.» disse in un sorrisetto furbo.
«Sei geniale.» ammisi esterrefatta.
«Ne vuoi uno anche tu? Sono certa che Jordan te ne procurerebbe uno.» Propose gentile.
Ci manca solo che gli chieda favori, pensai. «No, grazie.» Risposi.
«Quando vuoi, basta chiedere.» Ellison era pensierosa. Eravamo da poco rientrate dalla terapia di gruppo con il dottor Greg, ed avevamo il cervello liquefatto. Durante le sue sedute si parlava di cibo, materia in cui eravamo tutte esperte. Ma il dialogo non era improntato su numeri, calorie, peso. Riguardava piuttosto la sana alimentazione, il valore dei pasti e l'importanza di fornire al nostro corpo tutti i macronutrienti per far sì che muscoli e organi collaborassero tra loro in modo che l'individuo potesse dedicarsi a vivere secondo i suoi interessi. La convinzione che i miei metodi di sostentamento mi garantissero un rendimento massimale sui pattini cibandomi di riso, petto di pollo e qualche mela verde, venne cestinato alla fine dell'incontro.
«Elly, ma questo libro non è in inglese.» dissi notando qualche parola spezzata che non riuscivo a ricostruire. «Che lingua è?»
«Italiano!» disse, come se fosse ovvio.
«Parli italiano?!» chiesi stupita.
«Certo, i miei nonni materni vivono lì! Tutti in famiglia lo parliamo» disse orgogliosa. «E' rimasta solo la nonna Gina in realtà, ed è la mia persona preferita al mondo! E' stata lei a far conoscere la Merini a me e Jordan..ma sul serio non la conosci?» Scossi la testa in risposta, mantenendo lo sguardo su di lei per invitarla a continuare.
«Alda Merini era una poetessa italiana, fumatrice incallita e dotata di una mano d'oro. Aveva una capacità di trasformare i pensieri in parole scritte che noi comuni umani possiamo solo sognare. Sai, anche lei è stata ricoverata in un istituto psichiatrico. Negli anni cinquanta, in italia si chiamavano manicomi.»
«Era anoressica anche lei?»
«Oh no. Lei niente disturbi alimentari. Era bipolare. E' un disturbo dell'umore in cui periodi di depressione si alternano a periodi di euforia con episodi maniacali. Viviamo in un turbinio di emozioni a ritmi difficili da prevedere. Pensa che Alda, nei periodi down, se ne stava per ore alla stazione dei treni, a piangere per il semplice fatto che questi partivano. Al contrario nei periodi up, rubava quel che le capitava a tiro. Una volta si è addirittura fatta fotografare nuda, pubblicando le foto, convinta di placare così le sue pulsioni sessuali.» disse quasi divertita.
Ignoravo il fatto che gli sbalzi d'umore potessero diventare una malattia vera e propria. E metabolizzando le sue parole, mi accorsi di un probabile errore.
«Elly?»
«Si?»
«Hai detto...viviamo.» Dissi cautamente.
«Corretto, ragazza mia. Ma per me niente elettroshock, monitoriamo la situazione con gli psicofarmaci e tanta terapia.»
«Non lo sapevo, Elly.» Non sapevo se fosse giusto o meno addentrarsi nel territorio per me inesplorato del suo io interiore, era difficile trovare parole adatte che non la facessero sentire nè pazza, nè compatita. Ma lei continuò a spiegarsi, nella sua tranquillità invidiabile.
«Sono le medicine che mi hai visto prendere in infermeria l'altro giorno, a darmi l'equilibrio.»
Fu strano venire a conoscenza che la mia compagna di stanza portasse addosso un tale malloppo. Cosa si prova a vivere guardando sempre il mondo attraverso un paio di occhiali dalle lenti scure? E se queste venissero periodicamente sostituite da lenti formate da un mosaico di vetri di diversi colori? La montatura resterebbe sempre la stessa, ma l'oggetto osservato cambierebbe ruotando leggermente la testa. Quanto può essere fuorviante la realtà? Pensai che fosse come se le mancassero le comuni lenti trasparenti che permettono di ammirare la realtà nella sua concretezza. E immaginai che fossero proprio le medicine, a darle quella trasparenza di cui tanto avesse tanto bisogno per vivere un'esistenza dignitosa.
«Guarirai mai?» Azzardai.
«Oh, no. Ci si convive. Si guarisce l'episodio acuto, depressivo o maniacale che sia. Ma il disturbo bipolare si ripresenta ciclicamente perchè ci sono scompensi di dopamina e serotonina, alla base. Sono due neurotrasmettitori che il mio cervello produce così, un po' come cazzo gli pare.» disse gesticolando.
Rimasi sconvolta dalla sua confessione, ma non lo diedi a vedere.
«Sai» continuò «quello che mi piace di Alda Merini è che mi ci rispecchio sempre, in quello che scrive. C'è una frase particolare: "ogni giorno cerco il filo della ragione, ma forse non esiste o mi ci sono aggrovigliata dentro". Questa frase descrive perfettamente la malattia.»
Come se il tempo della vita fosse rappresentato da un semplice filo da cucito lasciato sopra un tavolo. Se per i più il filo poggia in curvature naturali, per le persone bipolari lo stesso filo è a momenti ingarbugliato, a momenti teso al massimo, tiranneggiato dai due estremi opposti della malattia.
«E' una frase stupenda, Elly. Come ti gestisci?» chiesi dando via libera all'indiscrezione.
«Ho imparato a riconoscere i segnali che precedono le fasi altalenanti, e chiedo aiuto. Restringo la mia alimentazione nei periodi bui, lì mi è troppo difficile reagire e finisco qui. Ma c'è sempre la Cameron, dietro. Come doma lei i cervelli umani, nessuno mai!»
«E' vero, è una meraviglia quella donna. Sei brava, Elly, dico davvero.» E lo pensavo sul serio. Ci voleva una grande forza di volontà, a soli diciotto anni, per capire l'importanza dell'introspezione e, soprattutto, nel saper chiedere aiuto.
«Niente di che» disse, sminuendosi un poco. «Dai, è ora di prepararci. Ci aspetta la piscina zen.» Scrisse un'ultimo messaggio dal libro segreto, lo ripose nel comodino, e ci preparammo.
Quando nominò la piscina, immaginai si riferisse all'attività di ginnastica dolce che aveva spinto mia madre farsi altre otto ore di auto il giorno dopo avermi consegnata alle porte del Fairwinds. Ma la piscina zen, non sapevo cosa fosse. Indossai l'unico costume che mia madre mi aveva portato, mi coprii con una felpa over presa in prestito da Ellison, e andammo all'entrata della clinica, dove le altre ragazze ci stavano già aspettando con Florence, che ci avrebbe accompagnate.
Seguendo il marciapiede che accostava il perimetro del Fairwinds, vidi per la prima volta la famosa piscina. Ci sarei arrivata anche al buio, a occhi chiusi, semplicemente seguendo l'intensificarsi dell'odore di cloro che infestava l'area relax: un semplice patio, abbellito con qualche ombrellone e qualche sdraio, che affacciava su una modesta piscina dalla forma classica. Ad accoglierci fu Hailey, una presunta educatrice dall'aria svampita e un sorriso forzato stampato sul volto. Ma fu quando aprì la bocca per parlare, che la pena ebbe inizio.
«Buon pomeriggio, mie belle ragazze, come stiamo oggi?» disse con voce estremamente mielosa. «Tu devi essere Amelia, tanto piacere!» Speravo di essere invisibile? Si. Ci ero riuscita? Assolutamente no. Hailey mi si avvicinò con passo dritto, testa alta e scapole esageratamente strette, quasi a voler esaltare, sotto la larga t-shirt con il logo del Fairwinds, la prominenza del suo seno. Dopo avermi stretto la mano, senza mai mollare il suo sorriso ebete, ricongiunse le mani intrecciandone le dita, e ricominciò a parlare:
«Allora tesoro, in questa attività l'obiettivo è rilassare il corpo e la mente, per permettergli di entrare in sintonia e raggiungere uno stato di pace interiore. Ricorda che l'acqua è nostra amica, permettile di aiutarti. D'accordo?» Disse con la testa inclinata di lato, scandendo le parole in maniera esagerata, senza mai oscurare nemmeno un millimetro del suo sorriso obbligato.
Ellison mi aveva accennato alla piscina zen, senza dirmi che di zen c'era solo il falso approccio dell'istruttrice. Sembrava la classica bambolina dei film horror, quella con il volto monoespressivo e la vocina infantile che quando meno te lo aspetti ti accoltella tra le scapole. Non ero abituata ad educatori di questo tipo, ero cresciuta tra le grinfie severe e decise di Audrey. Hailey era l'esatto opposto, eppure risultavano entrambe spaventose.
In risposta, guardai le ragazze strabuzzando gli occhi, e le scoprii a ridere sotto i baffi. Poggiai la felpa sulla sdraio, ammucchiandola con le altre, e mi avvicinai al gruppo di sadiche che godevano nel vedermi per la prima volta alle prese con quella che, scoprii dopo, soprannominavano Hailey PaloInCulo. E, ben osservando la sua postura tirata e quel sorrisetto artefatto, non potei dargli torto.
«Forza ragazze, entriamo piano in piscina, oggi iniziamo dalle circonduzioni con le braccia.» disse mimando i movimenti con le sue, guardando negli occhi ognuna di noi, restandosene in piedi a bordo piscina.
«Ha una paresi facciale oppure è così di natura?» chiesi a Lisa, vicino a me.
«E' falsa come le sue tette, fidati.» rispose, in vena di confidenze.
«Ragazze non chiacchieriamo. Usiamo questo momento per noi stesse, su!» ci interruppe Hailey mantenendo quell'espressione prestampata. Le circonduzioni divennero torsioni del busto, poi lievi sforbiciate delle gambe e, dulcis infundo, esercizi di respirazione.
«Possiamo fare qualcosa di diverso dalla ginnastica antalgica, Hailey? Gli amici di mia nonna fanno cose più difficili» chiese ironica Ellison, suscitando un mare di risate che coinvolse anche Florence. Se l'educatrice si offese per la battuta, non lo diede a vedere. Al contrario, ci lanciò una palla per lasciarci svagare prima del rientro, e iniziammo a passarcela con dei palleggi.
C'era un motivo preciso se in vita mia avevo solo pattinato: ero completamente imbranata in qualsiasi altro tipo di sport che non includesse delle rotelle sotto i piedi. Con una coordinazione occhio-mano che rasentava lo zero, miravo a passare la palla a Julie e puntualmente finiva qualche metro più in là.
«Ringrazia tua madre per averti messo i pattini, Amy!» mi prese in giro Elly. Risi di gusto, non tanto perchè avesse ragione, ma perchè quello fu un altro momento spensierato da aggiungere alla lista. E percepivo che, un poco alla volta, il contenitore vuoto che sentivo essere il mio corpo iniziava a riempirsi con qualche goccia di emozioni positive. Il mio desiderio era quello di far sì che non evaporassero.
Quando Florence disse che era ora di rientrare, presi la felpa e me la misi sulle spalle, asciugandomi bonariamente. Le temperature erano ancora calde e appena rientrata in clinica mi sarei fiondata in doccia. Quando passammo vicino all'accettazione del Fairwinds, l'infermiera venne però fermata dall'addetto alla sorveglianza. Intenta a capire quale fosse il problema, non diedi importanza alla sagoma del suv nero tirato a lucido parcheggiato oltre l'accesso auto.
Il sorvegliante passò a Florence quello che sembrò un libro, additando la persona che lo aveva portato. Seguii la direzione indicata dall'uomo in divisa scura, e trovai a destinazione due occhi color miele già pronti a ricevere il mio sguardo.
Jordan Davis, nei suoi jeans strappati e nella tshirt bianca che lasciava intravedere l'addome scolpito, se ne stava appoggiato al suv che poco prima avevo guardato a stento. E, di nuovo, non mi toglieva gli occhi di dosso.
«Grazie del libro, fratello modello!» Gridò saltellando Ellison, dietro di me.
Ma lui, non la degnò di un'occhiata, perchè teneva i suoi occhi calamitati ai miei. Distolse lo sguardo dal mio solo per farlo scorrere lungo la mia figura, che prontamente nascosi cercando di chiudere la felpa. Le mie gambe, prese da chissà quale moto di coraggio, iniziarono a muoversi dritte verso di lui, incuranti che il cervello cui rispondevano appartenesse ad un corpo ancora in costume.
Non mi ero preparata nessun tipo di discorso, volevo solo avvicinarmi per fargli in privato la domanda che tenevo pronta sulla punta della lingua da giorni. Occhi negli occhi, diretti e sinceri. Una volta per tutte, pronta ad affrontare la verità.
«Amelia fermati. Non sono ammesse visite oggi.» mi fermò severa Florence.
«Due minuti, per piacere. Ci metto poco.» avvisai, fermandomi a pochi passi da Jordan.
«Amelia, ti chiedo io per piacere. Le regole sono regole, e oggi non è domenica.» disse convinta.
Mi fermai, e chiusi gli occhi, nervosa. Ero sempre stata ligia alle regole che mi erano state imposte, ma in quel preciso istante sentii di volerle infrangere. Un primo desiderio di ribellione ad una delle tante regole del Fairwinds.
E fu mentre me ne stavo lì, in piedi, con i capelli gocciolanti e gli occhi chiusi, che la sentii arrivare. Una decisione forte e chiara, che qualcun altro aveva preso al mio posto. Le mie sinapsi si arrestarono, ipnotizzate dall'improvvisa ondata di profumo al bergamotto e ambrossido, così nobile e selvaggio, dolce e sensuale allo stesso tempo.
«Ci vediamo domenica, Amelia.» soffiò sul mio orecchio la voce più profonda che avessi mai sentito. Aprii gli occhi spaventata e vidi Jordan indietreggiare, mantenendo il contatto con i miei occhi fin che non arrivò alla sua macchina per andarsene.
«Bella felpa, a proposito. Fai come se fosse tua.» Disse prima di chiudere la portiera, facendomi avvampare. Non si accorse dei brividi che la sua voce chiamò sulla mia pelle, nè udì il mio cuore iniziare a battere prepotentemente.
«Dentro Amelia. Le altre sono già rientrate.» Mi ordinò Florence in un cipiglio di rabbia.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro