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57- 𝙍𝙪𝙞𝙣𝙨 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

🎵 Ruins, Tonal Chaos

🛼Programma di gara: Alex Chimetto, SP 2024



⭐NON DIMENTICATEVI DI LASCIARE UNA STELLINA AL CAPITOLO! ⭐

ormai sapete quanto aiutino le autrici 💜


Scivolata l'aveva chiamata la Cameron, dopo che mi aveva aiutato a togliere i pattini e convinta a seguirla al Fairwinds.

Un po' come quando ad allenamento cadi e ti rialzi nonostante la botta.

Succede spesso, giusto? Ogni volta che entri in pista sai che corri il rischio di cadere. Ci sono cadute leggere, disattenzioni che ti permettono di rialzarti alla velocità della luce e continuare come se niente fosse successo. Altre volte invece lo schianto è così imprevisto e dolente da costringerti a restare a terra. Nelle cadute peggiori, addirittura, per rialzarsi serve aiuto.

I miei giorni di digiuno erano stati una scivolata.

L'aveva definita così, e continuavo a ripeterlo a me stessa.

La Cameron diceva che era comprensibile e umano che la mia mente tornasse in dinamiche di quel tipo, perché per lungo tempo mi ero rifugiata nel digiuno solo per avere la sensazione di poter controllare qualcosa.

Quando stiamo male, anche se per cause diverse, tendiamo a ricadere sempre lì, in ciò che conosciamo. Anche se sappiamo che è sbagliato.

Quando avevo scoperto la bugia di Jordan ero stata in grado di reagire da sola, ma questo era un momento ben più critico.

Basandosi su quel che io avevo portato nella stanza, aveva detto che anche per Jordan lo schema si stava ripetendo: dopo l'episodio di bullismo si era rintanato per anni nell'isolamento, con la sola compagnia dei suoi pattini. Il suicidio della sorella lo aveva portato a ricadere nella stessa dinamica.

Reazioni comprensibili a un grave trauma: rifugio nel digiuno io, ricerca dell'isolamento lui. Era seguito un lungo discorso su quanto successo, ma avevo bisogno di calma e tempo per poter metabolizzare.

Sembrava tutto troppo.

Troppo difficile, troppo insopportabile, troppo oltre il limite del normale.

Rientrare al Fairwinds però, anche se solo per tornare nella stanza con la Cameron, mi aveva fatto provare vergogna. Vergogna per essere rientrata lì dopo solo qualche mese dalle dimissioni.

Il dottor Greg, quando aveva visto uscire me e la Cameron dallo studio, mi aveva invitata a fermarmi a pranzo con loro.

Erano giorni che non mettevo cibo sotto i denti.

Avevo così tanta fame che mi sentivo posseduta da un buco nello stomaco talmente pesante da appannarmi la vista. Camminavo solo grazie alla gratificazione che mi dava il senso di controllo.

Ma non volevo sedermi di nuovo a tavola con le pazienti, nonostante tra queste ci fosse Karmen. Lì ero rinata con Ellison accanto. Credevo l'avessimo fatto insieme. Sedermi con loro, poi, sarebbe stata la prova tangibile che ero tornata indietro nel percorso.

Non volevo fermarmi, ma quel briciolo d'istinto di sopravvivenza mi diceva di averne bisogno.

Come se lo avesse percepito, il dottor Greg non mi fece nemmeno accedere alla sala dove tutte le ragazze ricoverate erano pronte per il pranzo. Aspettai con la Cameron in salotto, e ingannammo il tempo sistemando un po' la libreria, ripercorrendo alcune delle pagine che mi avevano tenuto compagnia durante i mesi di ricovero.

«Una scivolata non ti rende di nuovo malata» cercò di rassicurarmi Ilenia. Aveva sempre quella voce fatata che da tempo camminava al mio fianco.

«È come se avessi fallito.» Mi costò un'enorme fatica ammetterlo ad alta voce, e sentii subito arrivare il nodo alla gola.

«Sei qui. Tu stessa hai riconosciuto il comportamento disfunzionale. Hai accettato il nostro aiuto.» Sistemò la montatura degli occhiali sul ponte del naso, e si fermò solo per una delle sue espressioni incoraggianti. «Non vuol dire che sei ricaduta. Fidati di noi e di te, di nuovo.»

Non sapevo se potevo fidarmi di me e della mia testa oberata di pensieri negativi, ma di loro sì. Mi avevano già rimesso in piedi una volta.

Quando le ragazze uscirono dalla sala mi accomodai con i medici al tavolo della cucina, già apparecchiato per tre persone, mentre le inservienti alle nostre spalle caricavano la lavastoviglie.

Mi sentii quasi crollare alla prima forchettata di riso, perché la fame si fece sentire il triplo, e con più cattiveria. Sembrava insaziabile, e per quanto i miei bocconi fossero grandi, nessuno sembrava soddisfarmi.

Mangiai con Greg e con la Cameron, che si comportarono più da amici che da medici. Chiacchierarono tra loro e poi pian piano trovarono il modo di coinvolgere anche me nel discorso. Il dietista mi ringraziò per avergli fatto scoprire Max Richter all'inizio del mio ricovero, perché aveva preso i biglietti per il suo concerto e sarebbe presto andato a New York.

Mangiare accanto a loro mi fu più facile.

Rallentai il ritmo, parlando di possibili musiche d'effetto per dei programmi di gara sui pattini. Lui stesso giunse alla conclusione che le musiche riarrangiate in chiave epica potevano essere più d'impatto a una gara di gruppo spettacolo, ma se il pattinatore fosse stato particolarmente energico e veloce avrebbero sortito un buon effetto anche a una gara di singolo.

Fu lì che riuscii a ripartire. Accanto a loro, che mi fecero promettere di tornare anche solo per un saluto, senza alcun obbligo. Probabilmente era contro le regole, ma in quel momento li vidi come l'unico appiglio alla mia salute e accettai di buon grado.

Dovevo andare avanti, in qualche modo.

A riprova del fatto che non ero più una paziente, fu il dottor Greg in persona a offrirmi del caffè vero.

Nessuno mi mandò via da lì, restarono con me entrambi finché fui io stessa a volermene andare. L'argomento Ellison non venne più toccato.

Ma se io avevo la Cameron ad aiutarmi, pensai a Jordan che non aveva nessuno.

Era andato via. Da solo.

E se era lui a dire che per me avrebbe distrutto il mondo, era anche vero che io in quel mondo lo avrei sempre voluto al mio fianco, e lo avrei cercato in ogni anfratto.

Volevo trovarlo, a qualsiasi costo, e per una volta sarei stata io a essere di aiuto a lui. Avevo bisogno di stargli vicino anche quando era a pezzi, avevo bisogno di sentirlo con me.

Anche se il risvolto di quella situazione sarebbe stato la rinuncia al mondiale.

Mi mancava terribilmente, e mi resi conto di preferire lui e la sua tranquillità a qualsiasi competizione. Passava tutto in secondo piano.

Il giorno successivo iniziai già al mattino a cercare di capire dove potesse essere Jordan. Il telefono era costantemente staccato e non ne potevo più di sentire la sua voce alla segreteria.

Ripresi il suo PC, navigai sulla cronologia a cercare qualche indizio.

Niente di niente. Andai di nuovo al molo. Non so se realmente mi aspettassi di trovarlo lì, ma sedermi sulla nostra panchina per sentirlo più vicino fu inutile.

Pensavo di raggiungere il Fairwinds per pranzo, quando saltai sulla panca alla vibrazione del telefono. Sul display, un numero che non avevo salvato in rubrica. Speravo davvero che fosse Jordan. Risposi piena di speranze.

«Signorina Reed?»

«Sì?»

«Ufficio alloggi del St. Petersburg college.» Le mie speranze crollarono alla stessa velocità in cui si erano accese. «La chiamo per la stanza undici. Capisco il momento, ma devo chiederle se a settembre ha intenzione di rinnovare il contratto per il suo appartamento.» Si prese una piccola pausa, e quando riprese a parlare la interruppi subito.

«No.» Non ci sarei più tornata lì. Non volevo saperne di avere attorno nuove compagne di stanza che non fossero Ellison. Non sapevo se sarei rimasta da Jordan o avrei trovato una stanza per conto mio, ma di certo non sarei più tornata al Solaris Key. Su questo ero inamovibile. «Non rinnovo il contratto.»

«Certo, preparo la disdetta. Riuscirebbe a liberarlo entro la fine del mese?»

🛼 🛼 🛼

La prima volta che avevo aperto la porta della stanza ero stata invasa da un misto di agitazione e felicità per quella che doveva essere un'avventura. L'ultima volta che mi trovai lì davanti ero invece terrorizzata all'idea di crollare sotto il peso dei ricordi.

Avevo voluto andarci il prima possibile.

Xavier mi aveva accompagnato senza dire nulla, e non si era nemmeno intromesso quando gli avevo chiesto di non salire ad aiutarmi, ma di aspettarmi giù. Non ci avrei messo molto. Volevo essere sola, e far trovare tutto pronto a Martina e William. Non se la sentivano di dover impacchettare le cose della figlia. Li avrei aiutati in ogni modo, lasciando gli scatoloni di Ellison all'ingresso, in modo che bastasse caricarli in macchina.

Sapevo che dopo la constatazione di suicidio da parte della polizia il bagno del nostro appartamento era stato pulito. Ogni traccia di quell'atrocità era scomparsa nel nulla, come se Ellison in quel bagno non avesse deciso di togliersi la vita.

Un respiro a occhi chiusi, presi coraggio e tornai in quello che era stato il nostro piccolo appartamento ignorando il tremolio alle gambe.

Nel tavolo all'entrata c'era ancora il mio peluche. La macchinetta del caffè reggeva le nostre scorte di capsule, lasciate in equilibrio precario.

Andai in camera cercando di essere più metodica possibile. Una volta aperta la mia valigia iniziai a infilarci dentro vestiti alla rinfusa, più veloce che potevo. Avevo portato al dormitorio poche cose, e tante erano già a casa di Jordan.

Sotto il letto di Elly erano ancora sistemate le sue valigie, e ripiegai con cura al loro interno tutti i suoi vestiti. Ogni sua maglietta, ogni body di danza, le mille calze smagliate, vestitini, jeans e i suoi pigiami dalle stampe improponibili.

Cercai di essere il più pragmatica possibile, perché se fossi crollata di nuovo non sarei riuscita a far trovare tutto fuori.

Aprii i cassetti del suo comodino, sistemando nella valigia il suo tablet e varie cianfrusaglie. Mi scappò un sorriso nostalgico quando, aprendo il cassetto inferiore, trovai il libro di poesie di Alda Merini. Lo stesso che aveva avvicinato me e Jordan, lo stesso in cui lei nascondeva il suo cellulare quando era ricoverata.

Ne tracciai i profili con le dita, come se il contorno ruvido della copertina la facesse sentire ancora con me. Come se fossimo ancora insieme a leggere le poesie dalla copia integra per riflettere o riderci su, in base alla giornata.

Quando lo aprii, nelle pagine intagliate, trovai tre tubetti arancioni. Ne presi uno, provando a muovere i confetti al suo interno e lo rigirai tra le dita per leggerne l'etichetta.

𝗗𝗮𝘃𝗶𝘀, 𝗘𝗹𝗹𝗶𝘀𝗼𝗻

RESILIENT

ʟɪᴛʜɪᴜᴍ, 83ᴍɢ

Take: 2cap o.d.

Date: 02/01/2019


Due gennaio. Quel tubetto era rimasto immacolato, il sigillo ancora integro.

Controllai la data sull'altra confezione: primo febbraio 2019.

Le mani presero a tremarmi e sentii i polmoni riempirsi d'aria fino a sospendere il respiro mentre poggiai a terra il libro e presi a spostare tutte le cianfrusaglie nel cassetto di Elly trovando altre confezioni tutte uguali:

Primo marzo 2019.

Primo aprile 2019.

Primo dicembre 2018.

Primo maggio 2019.

Primo giugno 2019.

Sette mesi dalle sue dimissioni.

Sette confezioni in tutto.

Ellison aveva smesso di prendere i farmaci appena uscita dal Fairwinds.

Il farmaco che lei aveva rifiutato negli ultimi mesi portava l'identico nome dell'incisione che ciondolava dal bracciale che lei stessa mi aveva regalato alle mie dimissioni.

Quella consapevolezza si fece strada in me in un modo che mi terrorizzò. Nessuna lacrima cadde dai miei occhi, tutte assorbite dallo sconcerto più puro.

Perché sapevo che Ellison programmava la sua fine da molto tempo, ma averne la prova concreta tra le mani era tutta un'altra cosa.

La realtà dei fatti mi piombò addosso lasciandomi un senso di incredulità senza eguali, perché lì capii che davvero non era stata colpa mia, che lei aveva studiato tutta quella messinscena così bene che non avrei potuto accorgermene. Nessuno avrebbe potuto farlo.

Eravamo stati tutti spettatori inconsci della sua finzione.

Non potevo controllare che prendesse le sue medicine, non avrei nemmeno mai frugato tra le sue cose senza il suo permesso. Allo stesso modo la Cameron, che l'aveva in cura, non poteva essersi accorta del suo stato reale se a ogni colloquio portava il più quieto dei sorrisi. Probabilmente nei test mensili, alla frase "penso spesso al suicidio" disegnava la crocetta sulla risposta mai con lo sguardo fisso su sempre.

«Ciao.» Alle mie spalle, mentre me ne stavo ancora in ginocchio davanti ai piedi del letto, sentii le voci di Martina e William.

Raccattai in fretta tutte le confezioni di medicine, infilandole sbrigativa nell'ultima busta rimasta. «Ciao», ricambiai il saluto consapevole che entrambi avevano visto i barattolini. Era tardi per nascondere quella novità.

Potevo fingere che fossero miei? No. Ero un'atleta di Martina. Sapeva che non prendevo alcun farmaco. «Ho subito finito. È tutto pronto.»

Se William restò in piedi davanti alla porta senza il minimo accenno a voler entrare, Martina mi raggiunse senza esitazioni e si inginocchiò accanto a me cingendomi le spalle con un braccio mentre con l'altro mi sfilò la busta dalle mani.

«Non ti preoccupare, Amelia. Aveva smesso di prendere le medicine, vero?»

Annuii e basta, rimasta senza parole.

«Pian piano riusciremo a riprendere a vivere, lo sai? Ne sono sicura. Anche se adesso ci sembra troppo difficile.» Abbandonai la testa sulla sua spalla per dare e ricevere conforto. Era una madre che aveva perso la figlia, ma aveva una forza invidiabile.

«Avrei solo voluto che mi desse qualche segnale. Riuscire a capirlo.»

Sospirò appena prima di rispondere, mentre William scarabocchiava su un foglio con la stilografica che teneva sempre nel taschino. «Se avesse voluto farlo capire si sarebbe lasciata sfuggire qualcosa. Non sono mai stata una madre curiosa, di quelle che si immischiano nella vita dei figli. Anni fa sapevo che teneva un diario, la vedevo scrivere, richiuderlo sempre con il piccolo lucchetto e nasconderlo. Una mattina però lo aveva lasciato aperto, con una penna nel mezzo. Lo lessi, perché era un chiaro invito a leggerlo. Non se lo sarebbe mai dimenticato lì. Era una sua richiesta d'aiuto, qualcosa che non riusciva a dirci a voce. Lo avevamo capito così, la prima volta. Solo Jordan riusciva a farla ridere un po'.»

Riflettei su quelle, mi incaponii cercando di incastrare i pezzi del suo discorso e tutte le riflessioni fatte con la Cameron, cui si erano aggiunti i barattolini pieni di medicine.

«Jordan ha staccato il telefono. Non so nemmeno se sta bene.»

«Non ha mai condiviso il suo dolore. Starà bene, Amelia. Ognuno a modo suo, staremo bene.»

William, che per tutto quel tempo se ne era rimasto appoggiato allo stipite, ripose la penna nel taschino della giacca e si avvicinò mentre io e Martina ci rialzammo in piedi. Mi prese la mano, solidale, e quando la lasciò, mi ritrovai in mano una carta di credito e un foglietto con un indirizzo che non era di certo americano.

«Jordan è all'indirizzo che ti ho scritto. Non ti sto chiedendo di andare, ma voglio che tu ti senta libera di scegliere.»

Non sembrò neanche lui, in quel momento. Ero così abituata alla sua versione frizzante che vederlo così serio e afflitto rese tutto ancor più triste.

Lo guardai scettica, perché non capivo come potesse sperare in me quando suo figlio mi evitava in ogni modo possibile. Se n'era addirittura andato dall'altra parte del mondo.

«Hai qualcuno che ti accompagna a casa? Vuoi un passaggio?»

«Xavier è giù che mi aspetta.»

«Allora vai. Finiamo noi qui.»

Ancora intontita, allungai il manico della mia valigia e imboccai la via d'uscita. «Amelia?» Mi voltai, dando attenzioni solo ai genitori di Jordan ed Ellison «Grazie. Sei parte della famiglia.»

Non avevo bisogno di dare un'ultima occhiata alla stanza o di controllare di aver preso tutto. Scesi le scale con un magone alla gola che non accennava a diminuire e che a ogni passo si faceva sempre più stringente. Crollai solo una volta caricate le valigie nel bagagliaio e richiuso lo sportello del lato passeggero.

Xavier non sapeva quasi come comportarsi, lo vidi protendersi verso di me, forse nel tentativo di confortarmi, con un fare decisamente impacciato per uno come lui. Alla fine si spostò solo per spegnere la musica della radio.

Tra le mani continuavo a stringere il biglietto con la calligrafia frettolosa di William. Lo distesi sul cruscotto, per mostrarlo a Xavier.

«Jordan è in Italia.» Dissi semplicemente.

«Ti lascio il tempo di fare la valigia. Poi voglio che ti levi quell'espressione dalla faccia e che vai a riprendertelo.»

Buon lunedì 💜

Vi aspettavate che questa storia prendesse il nome anche da un farmaco? 

Resilient è davvero un farmaco per il disturbo bipolare.

Io oggi sarò un po' occupata, quindi su instagram (amelieqbooks) trovate subito il box domande! Risponderò a tutto, anche agli ngl che dimentico spesso, al più tardi domani mattina!

A presto...vi ricordate in quale città italiana si va? 

💜 

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