41- Resilient -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
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Questo è il secondo capitolo pubblicato oggi!
Assicuratevi di aver letto prima il capitolo 40- Voices of change
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Una stellina prima di iniziare me la lasciate, vero?
Dicono che i sogni siano quelli che ci fanno alzare dal letto al mattino. Che bisogna osare, per realizzarli.
E io, che fino a quel ventotto settembre mi ero trascinata in un'esistenza dilaniante per un sogno impossibile, avevo osato davvero. Mi ero buttata a capofitto in una lotta contro i miei demoni interiori, gli stessi che mi avevano ammaliata per poi gettarmi in breve tempo nell'oblio dei desideri irraggiungibili.
Durante quel cammino li avevo sconfitti incespicante uno a uno, giorno dopo giorno, con l'aiuto di professionisti. Le loro carcasse erano tutte alle mie spalle. Mi avevano fatto male, ma decisi di voltarmi un'ultima volta per imprimerle tutte nella mia memoria e avere sempre il ricordo di quello che ero stata e quello che non avrei più voluto essere.
A piccoli passi, avevo davvero ripreso in mano il libro della mia vita.
E nel primo pomeriggio di quel venerdì, dopo la stesura di un prologo che narrava di battaglie impensabili contro me stessa, ero ufficialmente pronta a prendere in mano la penna per scrivere nuovi capitoli.
Nell'ufficio della Cameron c'era anche il dottor Greg. Aveva voluto essere presente nell'esatto istante in cui la lettera che avevo già visto nelle mani di Ellison e Lisa uscì dalla stampante per apporre personalmente la sua firma in calce.
Aspettò giusto il tempo che fosse la Cameron a piegarla con cura e inserirla nella busta candida con il logo del Fairwinds.
«Mi raccomando, per qualsiasi cosa, noi ci siamo sempre.»
Non fece nemmeno in tempo ad allungarmela che il dottor Greg gliela sfilò dalle mani in uno dei suoi soliti scatti, per essere lui stesso a consegnarmela mosso da un cipiglio di fierezza.
Aspettò che mi rendessi conto della scritta in basso a destra:
FAIRWINDS PSYCHIATRIC CENTER,
𝚌𝚘𝚖𝚞𝚗𝚒𝚝à 𝚝𝚎𝚛𝚊𝚙𝚎𝚞𝚝𝚒𝚌𝚊 𝚛𝚎𝚜𝚒𝚍𝚎𝚗𝚣𝚒𝚊𝚕𝚎
𝚙𝚎𝚛 𝚍𝚒𝚜𝚝𝚞𝚛𝚋𝚒 𝚊𝚕𝚒𝚖𝚎𝚗𝚝𝚊𝚛𝚒
𝙰𝚕𝚕'𝚊𝚝𝚝.𝚗𝚎 𝚍𝚒 𝙰𝚖𝚎𝚕𝚒𝚊 𝚁𝚎𝚎𝚍
𝚘𝚐𝚐𝚎𝚝𝚝𝚘: 𝚕𝚎𝚝𝚝𝚎𝚛𝚊 𝚍𝚒 𝚍𝚒𝚖𝚒𝚜𝚜𝚒𝚘𝚗𝚎
Continuavo a guardare quei caratteri ordinati impressi nero su bianco: la prova concreta che il mio percorso lì dentro era davvero giunto al termine. Non mi interessava nemmeno il contenuto della lettera. Il mio nome e il mio cognome, così vicini alla parola dimissioni, mi trasportarono subito in una galassia di orgoglio ed euforia.
Ma non c'era nessun mondo parallelo.
Quella era finalmente la mia realtà.
Alternavo lo sguardo tra Greg e la Cameron, increduli nel vedermi di nuovo senza parole.
Fu il dietista a spezzare quel silenzio:
«Sei entrata che eri un bruco strisciante e ora esci che sei una splendida farfalla.»
Se non fossi stata presente, mai avrei creduto che il dottor Greg Spence, il dietista tanto severo quanto ironico, mi rivolgesse delle parole talmente emozionanti e cariche di significato che me le sarei ricordate per tutta la vita.
Lacrime di commozione presero ad annebbiarmi la vista e scivolare lungo le guance, e la Cameron mi passò la scatola di fazzoletti solo dopo averne preso uno per lei.
Tamponai gli occhi mentre la dottoressa che mi aveva aiutata a sconfiggere il mostro dell'anoressia mi si avvicinò cauta e mi alzai ad abbracciarla, fregandomene della deontologia professionale a cui era tanto legata.
La mia Ilenia mi strinse forte tra le sue braccia, a suggellare la riuscita di un obiettivo comune: la mia salute, il mio ritorno alla vita. Profumava di fiori, di dolcezza e della competenza che lasciò un po' andare per vivere tutte le emozioni del momento.
«Lo so che ti rivedrò ancora, ma mi dà una soddisfazione enorme sapere che non entrerai più in questo ufficio.»
Aveva ragione. L'avrei rivista ancora, ai controlli mensili, nel suo studio privato. Ma al Fairwinds, giurai a me stessa che non ci avrei più messo piede.
«Andiamo giù, miss Reed. La stanno aspettando.»
Seguimmo il dottor Greg, tornato il solito restio alle smancerie, lungo le scale. E una volta arrivati in salotto, il cerchio dei saluti era pronto per me.
Mia madre, che per l'occasione aveva attraversato la Florida per l'ennesima volta, se ne stava in disparte con gli occhi lucidi e le labbra strette tra i denti, sempre attenta a non far trasparire troppo le emozioni.
C'era Ellison, lasciata entrare in clinica per l'occasione come ex paziente in visita.
Mancava solo Lisa, volata a Los Angeles per sbrigare alcune pratiche inderogabili.
Le altre ragazze mi si avvicinarono subito, in un via vai di abbracci più o meno conosciuti. Tante delle pazienti presenti al mio ingresso al Fairwinds erano state dimesse, e le nuove, seppur poco conosciute, non si risparmiarono i saluti.
«Ti chiedo scusa per come ho reagito mesi fa, quando ti hanno fatto saltare la piscina con HaileyPaloInCulo. Ero solo invidiosa della velocità con cui hai iniziato a star meglio.» ammise al suo turno la stessa ragazza che mi aveva tenuto il broncio per mesi.
«Non ti preoccupare, Emily.»
«Sì sì, meglio tardi che mai», si intromise Ellison con poca grazia. «Spazio! Tocca a me ora!»
Si fece largo tra me ed Emily e mi porse la scatolina turchese che teneva tra le mani legata da un elegante fiocco in raso bianco. Sotto quel nastro, un biglietto piegato in due aspettava di essere aperto.
«Aprilo! Questo è un mio rene. Valido come regalo per il Natale appena trascorso, per le dimissioni di oggi, e per il tuo prossimo compleanno. Su, aprilo!»
Era solo lei, e nessun altro, a saper smorzare situazioni di quel tipo. Tra le risate generali, sfilai quel rettangolo di carta dalla filigrana spessa.
«No! Prima il regalo, poi il biglietto.» Mi fermò subito Ellison.
«Non è il contrario?»
«Il galateo non fa per me, Reed. Aprilo!»
Tirai delicatamente il nastro e sollevai il coperchio, trovando al suo interno un sacchettino dello stesso turchese della scatolina. Per l'ennesima volta mi tornarono le lacrime agli occhi: dentro scoprii un bracciale composto da una fila luccicante di piccole palline d'argento, legate insieme da un elegante moschettone. Nel mezzo era infilato un ciondolo a forma di cuore con una incisione dal carattere raffinato:
Resilient
Non resistetti più e prima ancora di indossarlo, aprii il biglietto:
Lo sai? Il concetto di resilienza nasce come la capacità di risalire dal fondale, dopo che una barca si è rovesciata in mezzo a un mare in tempesta. Poi, si è evoluto verso un concetto più astratto: il saper affrontare le difficoltà, rimettendosi in piedi a testa alta. Nonostante tutto.
Sei tu, Amelia.
La resilienza sei tu.
Elly
«Ricordati sempre quello che sei riuscita a fare.» Mi disse con gli occhi lucidi, pizzicandomi le guance tra i pollici e gli indici. «Puoi tutto.»
«Grazie.» Non riuscivo a guardare la mia migliore amica commossa, perciò la strinsi nel più significativo degli abbracci di quel giorno. «Non so come avrei fatto senza di te.»
«Ti saresti rotta i coglioni, ovvio.»
Dopo aver rischiato di annegare nel mare dell'autodistruzione, potevo dire di avercela fatta.
Avevo provato il desiderio di lasciarmi andare. Ma poi era scattato qualcosa in me, e lì era iniziata la mia risalita. Bracciata dopo bracciata, boccheggiando in alcuni tratti, ero di nuovo al timone della nave della vita.
Conoscevo ancora a memoria tutte le calorie degli alimenti.
Vedevo ancora i difetti del mio corpo riflessi allo specchio.
Talvolta, i pensieri disfunzionali venivano ancora a bussare alla mia mente.
Forse, sarebbero stati con me ancora per molto tempo.
Ma cosa cambiava sapere che una pizza margherita contava 790 kcal? Niente, era solo un numero che non mi avrebbe cambiato né la vita, né lo stato d'animo.
Cosa cambiava sapere che avevo ancora quel lieve gonfiore sotto l'ombelico? Niente. La perfezione non esiste. Tutti abbiamo dei difetti.
Una vita programmata al minuto, in balia delle scelte di altri volte a un obiettivo comune. Mi ero ritrovata ad assecondarle tutte: lo studio, l'abbandono del singolo in favore della coppia artistico, il peso, l'alimentazione, le musiche di gara e persino i costumi. Tutto. E così, mentre il controllo della mia vita era nelle mani di altri, mi ero ritrovata a cercare quel controllo sull'unica cosa che sarebbe sfuggita alla loro vista: il cibo.
Ma se c'era qualcosa che il Fairwinds mi aveva donato, erano i mezzi per affrontare il tutto e agire di conseguenza. Quella clinica sarebbe rimasta un porto sicuro in cui tornare, nel caso in cui le cose si fossero fatte di nuovo troppo difficili.
Era lì, la differenza tra salute e malattia: saper reagire, con la consapevolezza che i problemi fanno parte della vita, e non devono mai essere il biglietto d'ingresso al castello dell'autodistruzione. Si affrontano, sempre.
E quando sembrano così grandi da essere insormontabili, si chiede aiuto.
Non è da deboli farlo. Mia madre mi aveva costretta al ricovero, e nonostante le maledizioni che le avevo mandato all'inizio, alla fine si era rivelato la mia fortuna più grande.
Andai da lei, che se ne stava ancora in disparte nell'angolino accanto al divano. Noncurante della sua anafettività, le gettai le braccia al collo.
«Grazie» sussurrai.
«Sapevo che ce l'avresti fatta.» Catherine Reed in persona prese a singhiozzare sulla mia spalla, sfregando vigorosa la sua mano sulla mia schiena. «Ho odiato essere così impotente di fronte a una malattia così grande.»
Non riuscivo a immaginare cosa volesse dire per una madre single portare la propria figlia dall'altra parte della Florida per tentare il tutto e per tutto nella consapevolezza di stravolgerle la vita e i sogni. Nonostante i suoi difetti, non mi aveva mai fatto mancare nulla e mi aveva sempre messa nelle condizioni di poter seguire la mia passione, senza dover mettere in mezzo un padre che aveva dimostrato che di noi non ne voleva più sapere.
«E' tutto finito, mamma.»
Salutai tutti, prima di lasciarmi alle spalle per l'ultima volta le porte scorrevoli del Fairwinds e percorrere il vialetto d'ingresso.
Furono Greg e la Cameron ad accompagnarmi all'uscita, forse per un gesto più simbolico che di reale utilità.
Arrivata al cancello pedonale, con la lettera di dimissione quasi stropicciata per quanto forte la stringevo forte tra le dita, tirai un sospiro di sollievo cercando di mettere in ordine la festa di emozioni positive che mi facevano tremare.
Ero ufficialmente fuori.
Sollevai lo sguardo, e dall'altra parte della strada, appoggiato al suo suv con le braccia conserte e le iridi mielate pronte ad aspettarmi, c'era Jordan.
Quel giorno, si era addirittura vestito elegante per i nostri standard: una camicia bianca dal taglio sportivo, con le maniche arrotolate a scoprirne gli avambracci, e un paio di cargo verde militare. Non c'era niente di più bello al mondo.
Iniziai a correre verso di lui, incurante delle costanti battute del dottor Greg sul DDT.
Me ne fregai di mia madre in dirittura d'arrivo alle mie spalle, distratta dalle chiacchiere di Ellison e dei medici. Tanto, forse l'aveva intuito che il rapporto tra me e Jordan andava oltre il pattinaggio.
Gli corsi incontro, saltandogli in braccio con il solo desiderio di baciarlo.
Mi appropriai delle sue labbra facendo mio il suo sorriso e, tra uno schiocco e l'altro, mi resi conto che quel giorno davvero non riuscivo a contenere le lacrime. Non avevo mai provato una gioia così grande in tutta la mia vita.
«Ce l'hai fatta, mia piccola Reed!»
«Sei qui.»
«Non mi sarei perso questo momento per nulla al mondo.»
Quasi ringraziai le regole del Fairwinds, che permettevano l'ingresso solo a pazienti e familiari. Trovarlo lì fuori e vedere quel suo sorriso candido di fronte al mio stupore fu un dono unico.
Infilò la mano tra i miei capelli, per tenermi stretta a lui.
«Avevo in mente un bel regalo per te, sai?» sussurrò sfiorandomi le labbra. Mi riportò con i piedi a terra senza permettere che mi allontanassi. Mi appoggiai con la testa al suo petto, e potei giurare che anche il suo cuore batteva a mille.
«Sei già qui fuori.» Mi schioccò un bacio sulla tempia, prima di rispondere.
«Ellison mi ha proibito di farti regali materiali. Dice che altrimenti il suo passerebbe in secondo piano, come a Natale»
«Certo. Oggi conto di più io.» ci raggiunse Ellison saltellante.
«Posso offrirvi un caffè, ragazzi?» mia madre sembrò quasi intimidita dal nostro rapporto. Non era mai stata una persona da chiedere il permesso. Se voleva offrire un caffè a qualcuno, lei lo faceva. Punto e basta.
«Al volo, mamma. Abbiamo allenamento tra un'ora.» e mi feci coraggio. «Vuoi venire a vederci?»
Forse, venire in pista prima della gara le avrebbe permesso di rendersi conto del nostro livello effettivo, e non si sarebbe scandalizzata nel vedermi la settimana successiva fare i salti doppi davanti ai giudici.
«Se non disturbo...volentieri.»
Per una volta, sentii che tutti i pezzi del puzzle si stavano incastrando nel modo giusto. Nuove persone che consideravo famiglia, sentimenti crescenti verso qualcuno cui avrei dato la mia stessa anima e soprattutto... il primo dei tre desideri che avevano fluttuato nel cielo infuocato di Clearwater, si era avverato.
Dichiarata sana e rispedita nel mondo.
Ufficialmente dimessa.
Non mi era mai capitato di commuovermi mentre scrivevo un capitolo, ma qui c'è stato un punto in cui davvero non ce l'ho fatta: la frase del dottor G.S., quella che ho riportato in corsivo, è stata reale. Due volte, mannaggia a me. (Poi mi ha minacciato per una eventuale terza, ma per fortuna non c'è mai stata)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e che il messaggio sia arrivato...
metto subito il box domande/ngl su instagram (amelieqbooks), mi piacerebbe raccogliere le vostre emozioni a caldo 💜
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