39- 𝙍𝙪𝙣 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
Fa caldo, quindi...
Gelato pan di stelle per iniziare al meglio questo lunedì
e ricordarvi di lasciarmi una stellina per supportarmi ⭐
Buona lettura!💜
I giorni a seguire furono una corsa contro il tempo.
Avevo ripreso a frequentare il Fairwinds per le terapie, sia di gruppo che individuali e, il resto del tempo, lo trascorrevo all'Arhena.
Dovevamo arrivare preparati alla gara di fine gennaio. Non era una gara di qualifica e, nonostante questo, Martina voleva che partecipassimo a tutti i costi. Non apparteneva nemmeno al circuito federale, ma ci sarebbe stata utile per conoscerci come coppia sulle rotelle. Soprattutto, serviva a capire come aiutarci l'un l'altro durante una competizione, quando l'errore è sempre dietro l'angolo e non c'è il tempo materiale di ragionare su come rimediare allo sbaglio. Spesso era addirittura impossibile.
Quando facevo singolo trovare rimedio a questo era più facile: tutti gli atleti di alto livello conoscevano i regolamenti a memoria e, se in gara mi capitava di sbagliare il primo di una combinazione di salti, era quasi semplice recuperarla prima della fine della musica. Ad esempio, potevo attaccare i salti che prima non mi erano riusciti ai salti singoli, quelli che di solito lasciavo alla fine del programma lungo, quando la stanchezza si faceva sentire. Rischiavo il tutto e per tutto per portare a casa il miglior punteggio possibile e scalare i posti in classifica.
Ma in coppia era diverso. Non dovevano essere sincronizzati solo i due pattinatori, anche le loro menti dovevano esserlo. Per raggiungere quell'obiettivo, alla fine delle ore di allenamento, ci riservavamo del tempo per pianificare situazioni di errori ipotetici e relative correzioni.
In poco tempo avevamo memorizzato decine di schemi, e avevo il terrore che con l'ansia della gara li avrei dimenticati tutti al primo errore. Quanti atleti avevo visto, negli anni, dimenticare parte della coreografia di fronte all'occhio severo dei giudici.
Martina ci faceva provare dischi su dischi, per assimilare il più possibile tutti i passi dei due programmi di gara e soprattutto per riuscire a chiudere tutti gli elementi tecnici dopo le transition, una serie di passi coreografici che terminavano nel momento in cui staccavamo un salto o un sollevamento e che ci avrebbero aiutato a racimolare qualche punto in più.
La pista dell'Arhena era tra i parquet più belli di sempre, dava un'ottima risposta propulsiva a ogni spinta rendendo più facili i salti, in particolare quelli in cui lo stacco era coadiuvato dal freno.
Nonostante tutto l'impegno che ci stavamo mettendo, avevo il morale sotto i tacchi: non ero più in grado di fare i salti tripli. Solo io, perché Jordan era probabilmente in grado di farli anche scendendo dal letto al mattino.
Martina, invece, aveva una pazienza fuori dal comune: se ne stava seduta all'angolo della pista riuscendo a farsi capire in tutto, senza lasciare nulla al caso.
Prima ero troppo debilitata per quel genere di difficoltà, in quel momento invece capii che i mesi di stop e i chili ripresi sicuramente incidevano nella riuscita del salto. Cercavo di farmi forza grazie al pensiero che, con la nutrizione giusta i miei muscoli avrebbero funzionato al meglio, e avrei ritrovato al più presto la coordinazione necessaria.
Volevamo a tutti i costi portare in gara almeno un triplo Toeloop in parallelo. Pattinavo accanto a Jordan, prendevo il tempo della sua preparazione, ma se lui riusciva a chiuderlo perfettamente io mi aprivo in fase aerea o cadevo perché non riuscivo a fare tre giri precisi.
Non ero mai stata una delle fortunate che riuscivano a mascherare addirittura un salto incompleto, anche se con la possibilità della slow motion introdotta dal nuovo sistema di punteggio avrebbero perso punti anche loro.
«Salti quando il peso è ancora troppo in avanti.» Martina, vedendomi nuovamente a terra, si alzò dalla sedia, e mentre presi la mano di Jordan che voleva aiutarmi a rimettermi in piedi, la vidi arrivare a passo spedito verso di noi. «Devi completare il caricamento del salto, spostare bene il peso dal pattino destro al freno sinistro, Amelia. Non puoi lasciarlo a metà, non verrà mai intero così.»
Fu questione di un misero secondo.
Bastò solo quello perché il mio respiro si bloccasse e il cervello non volesse più distinguere la realtà dall'incubo.
Non riuscivo più a ragionare.
Da quella sedia si era alzata Martina, ma più si avvicinava più i suoi connotati nella mia mente cambiavano.
Audrey veniva verso di me con una tuta che non era solita indossare, e me ne stetti lì impalata a guardarla arrivare con gli occhi sbarrati e il terrore crescente. Quando alzò il braccio severa io mi accucciai improvvisamente, tenendo ben coperto il capo con le mani per proteggermi dal colpo in arrivo.
Sbaglia, e conoscerai il dolore dell'impatto delle mie mani sul tuo corpo.
«Amelia.»
Me ne stetti in silenzio, sperando che inevitabilmente mi attaccasse. Prima avrebbe iniziato, prima sarebbe finita.
«Amelia.»
Sentii il mio corpo scosso da tremori involontari che non riuscivo a fermare in alcun modo.
Fai veloce, ti prego.
Ma al posto del colpo che attendevo, una mano forte e delicata coprì le mie, cercando di sciogliere l'intreccio con una delicatezza rara.
«Ehi.»
Dopo capodanno, avrei riconosciuto ovunque quella mano e quel profumo di sicurezza. Una carezza percorse il mio capo e la sentii scivolare lungo la mia schiena sudata.
«Sono solo Jordan. E' tutto ok. E' tutto finito.»
Le immagini di quella vecchia abitudine presero a giocare nella mia mente ogni volta che Jordan si zittiva aspettando una mia risposta.
«Voglio solo aiutarti nel Toeloop, Amelia.» Mi trafisse le orecchie una voce femminile impaurita che non era quella di Audrey.
Continuavo a restare accucciata e chiusa nel mio bozzolo, ancora confusa tra incubo e realtà, terrorizzata dall'idea di aprire gli occhi e ritrovarmi a Daytona.
«E' Martina. Non c'è più Audrey, Amy. E' tutto finito. Sei qui con me.»
Jordan. Clearwater.
Continuavo a ripetermelo più veloce che potevo, cercando un appiglio alla realtà che mi portasse fuori dall'oblio.
Degli abusi la Cameron diceva che si superano, ma non si dimenticano.
E per quanto ci si impegni a chiudersi la porta alle spalle, spesso il passato è così ingombrante da tornare di prepotenza a rovinarti il presente.
Non importa la forza con cui si prova a tener chiusa quella porta: lui torna imponente senza chiedere il permesso, provando ad afferrarti per la gola e riportarti in stanza con lui per distruggere tutti gli sforzi fatti nel tentativo di ricostruirsi.
Non è Audrey.
Non è Audrey.
Non è Audrey.
Continuavo a ripetermelo mentre pian piano uscii dal guscio in cui mi ero rifugiata e, quando la razionalità tornò a poco a poco in me, mi vergognai profondamente del mio gesto nei confronti di Martina.
Lei fece un passo indietro nascondendo le mani dietro la schiena con le lacrime agli occhi a mascherarne il disgusto.
«Scusa.» Non riuscivo a far altro che scusarmi. Sbagliavo, mi scusavo e pregavo un Dio, in cui non credevo, affinché mi aiutasse a smettere di ripetere gli stessi errori.
Martina si avvicinò allungandomi la mano, aspettando che fossi io a prendergliela. Chiedeva fiducia, senza pretenderla, e piena di rammarico mi feci accompagnare per mano fino alla panca in cui avevamo lasciato in disordine sia i nostri borsoni che le scarpe. Mi lasciò solo per tornare vicino a me con una bottiglia d'acqua fresca.
Jordan, assicurandosi che mi fossi calmata, andò a pattinare da solo, lasciando spazio a sua madre. Me ne stetti in silenzio a guardarlo, con i gomiti poggiati alle ginocchia e le mani a strizzarmi le guance.
Mi aveva spiazzato il modo in cui si era preso cura di me nel momento in cui Martina era diventata Audrey. Aveva proposto un patto: lasciare qualsiasi cosa ci fosse tra noi fuori dalle porte dell'Arhena, in modo da intaccare il meno possibile il nostro percorso da atleti.
Scoprii che lui ancora sperava nell'oro mondiale che mancava al suo palmarés, così avevo accettato. Tranne i rarissimi minuti in cui eravamo da soli nel riscaldamento e avevamo a malapena il tempo di scambiarci qualche bacio fugace, il resto del tempo ci toccavamo lo stretto necessario per la riuscita delle difficoltà tecniche sotto lo sguardo vigile di sua madre.
Senza lasciar interferire alcun sentimento.
Ma nel momento in cui l'aspettativa del colpo venne sostituito dalle sue carezze, lui si era esposto.
Le parole che mi aveva detto al molo qualche mese prima erano ancora nella mia mente, indelebili.
Resta. E dammi la possibilità di farti vivere lo sport senza gli abusi che ti hanno portata da me.
Aveva infranto il nostro patto, per mantenere la sua promessa.
Ero finalmente in un ambiente sano.
«Ti ho detto una mezza bugia, qualche mese fa.»
Scostai l'attenzione dai salti ipnotizzanti di Jordan e dai nostri ricordi per puntare Martina dritta negli occhi, a domandarmi dove volesse andare a parare.
«E' vero che il pattinaggio è per tutti» esordì in tono calmo,«ma era troppo presto per dirti che non tutti capiscono che voi atleti siete prima di tutto persone. Avete tutto il diritto di avere giornate no, e soprattutto siamo noi adulti che dovremmo capire che ognuno di voi ha i suoi tempi. Vi diamo tutto l'aiuto possibile per aiutarvi a crescere, studiamo per migliorarci come allenatori, ma poi nell'atleta troviamo un sacco di ostacoli: malumori, paure, infortuni, talenti sprecati perché non si ha voglia di lavorare che finiscono per essere surclassati da chi, invece, è meno dotato, ma ha tanta voglia di fare.»
Mi arrovellavo nel cercare di capire in quale di queste categorie io rientrassi, catapultandomi a pieni polmoni nel loop infinito dei difetti. Il primo pensiero finiva sempre alla forma del mio corpo. Poi, al fatto che avevo perso il talento che mi aveva distinta da piccola, lo stesso che aveva spinto Audrey a volermi a tutti i costi nel gruppo agonistico. Ci pensò Martina a interrompere il mio flusso di pensieri.
«Vuoi sapere qual è il tuo ostacolo?»
Ero abituata a vederla parlare sempre con il laccio della felpa annodato tra le dita, ma in quel momento si accucciò di fronte a me, poggiando le mani sulle ginocchia. Le sue pupille castane puntate solo su di me.
«La paura, Amelia. Tu hai paura. Hai avuto un coraggio enorme a lasciarti quella realtà ignobile alle spalle, ma i salti non ti riescono perché hai paura. Cosa ti preoccupa? Aspettative? Delusioni?»
«Pensavo avessimo più tempo per preparare la gara. E non sono abbastanza per Jordan. Gli rovinerò la reputazione.» confessai con la gola stretta in una morsa. Erano gli stessi motivi che mi avevano resa titubante nell'accettare di pattinare con lui. Solo che, nel momento in cui ci si avvicinava alla gara, avrei voluto fare un passo indietro.
«Questo lo dici tu. Vorrei vedere quante avrebbero le palle di fare le tue scelte. Dall'affrontare un ricovero del genere al mettersi in gioco nel modo in cui hai fatto tu. Non ti viene il triplo Toeloop? Pazienza, Amelia, sceglieremo altri salti per la gara e nel frattempo continuiamo a lavorarci. Ma devi essere la prima a credere in te stessa. Hai talento, sei capace, te l'ho visto fare miliardi di volte in gara e in prova pista quel salto. Non arrenderti mai, neanche dopo mille tentativi.» mi strinse le ginocchia, strofinandomi poi i polpacci per darmi coraggio. «E ricordati sempre che non mi azzarderei mai a metterti le mani addosso. Tieni sempre a mente che non pretendo niente da voi, solo che vi divertiate allo stesso modo in cui mi diverto io ad allenarvi.»
La ringraziai non del tutto convinta: volevo portare quel salto in gara e, nonostante tutta la loro pazienza, mi innervosiva non riuscire più a farlo.
«Domanda a bruciapelo: hai mai pensato di denunciare?»
«Non ci voglio pensare ora.» Mentii alzando le spalle, con lo sguardo puntato sulla trottola di Jordan. «Ho solo bisogno di pattinare tranquilla.»
Certo che ci avevo pensato.
Me l'aveva chiesto anche alla Cameron, una delle ultime volte nella stanza delle parole.
Ero fermamente convinta che l'uso della violenza fosse sbagliato nei confronti di qualsiasi individuo.
Tutti gli individui, meno uno: io.
Il fine giustifica i mezzi. Me lo ripetevo spesso, mentre sopportavo i comportamenti di Audrey.
I suoi colpi non arrivavano mai per niente. Nel mio caso, partivano sempre perché ero io a sbagliare. Io, e nessun altro. In quella che avevo poi capito essere una visione contorta, me le ero meritate. E nonostante tutti i miei errori, Audrey mi aveva sempre riaccolta in pista, ricominciando a mettere tutta se stessa negli allenamenti per darci le migliori possibilità.
Se non avessi avuto lei e quel sistema che mi aveva permesso di pattinare nella società più forte d'America, non avrei mai avuto la possibilità di combattere ai vertici della classifica nazionale in due specialità.
Mi sentivo quasi in colpa, all'idea di un'eventuale denuncia.
Il ricovero al Fairwinds era stato, secondo Audrey, un errore imperdonabile che mi era costato l'espulsione dal team. Ma almeno su quello, mi trovai in disaccordo: si era rivelato la mia salvezza.
«Con la Cameron abbiamo concordato che la mia priorità dev'essere il mio benessere. Il fatto di essere andata via da lì, già mi aiuta.» Sperai bastasse come risposta, e che non insistesse oltre.
Martina annuì. «Voglio che i miei atleti qui si sentano a casa, in famiglia. Tu, in particolare.»
Nell'ora di allenamento restante, Martina mi restò sempre accanto, fermandomi a bordo pista più volte per ripetere la preparazione del salto a rallentatore, in modo che la mia testa capisse di dover ritardare lo stacco. Non riuscì nemmeno quel giorno, ma migliorò molto in quelli successivi. E soprattutto, ogni volta che Martina si avvicinava a me, non avevo più alcuna crisi d'ansia.
Poco dopo, le vacanze natalizie terminarono. Elly continuava ad allenarsi nella danza e nel tempo libero controllava compulsivamente il gruppo whatsapp dell'accademia, in attesa che uscissero i risultati dei provini per i ruoli nello spettacolo di fine anno. Se ne stava lì, a fissare una schermata immobile sperando comparisse la scritta sta scrivendo... accanto al nome della direttrice.
Ci eravamo concesse giusto qualche ora d'aria in cui andammo a prendere il necessario per l'ingresso al college, comprando un sacco di cianfrusaglie inutili solo perché ci eravamo riscoperte fan degli articoli di cancelleria.
Evidenziatori di ogni tipo, quadernini iridescenti e penne di ogni colore. Ci eravamo convinte che il benessere che trasmettevano i profumi della carta immacolata e del legno delle matite ci avrebbero dato una marcia in più negli studi.
Il primo giorno di inizio del college, forte del mio bel punteggio al SAT e vestita con una delle mie immancabili tute tanto snobbate da Elly, andammo insieme al campus per dividerci solo una volta all'interno dello stabile: la prima lezione di storia contemporanea per me, la prima di psicologia generale per lei.
Non eravamo gran che agitate, ma di comune accordo avevamo scelto di mantenere la linea dell'asocialità: studio, danza, pattini, Jordan e Steven. Non avremmo avuto alcun tipo di distrazioni fino a giugno. Ci saremmo impegnate solo nel raggiungimento dei nostri obiettivi.
Percorsi in solitaria una serie di corridoi fino ad arrivare all'aula che riportava lo stesso codice scritto nel mio piano studi. Non restai sorpresa quando scoprii che la stanza era esattamente quella descritta nei film o nei romance americani: una discesa di sedie a ribaltina con tavolino a scomparsa, tutte perfettamente allineate e rivolte verso la grande cattedra centrale in legno, di seconda scelta, con alle spalle un generoso e candido telo per le proiezioni.
Mi accomodai nelle file centrali, quelle abbastanza distanti dal banco del professore per non apparire secchiona, e nemmeno agli ultimi posti, per non apparire strafottente. Sperai che confondermi nel mezzo mi garantisse l'anonimato.
Scribacchiando disegnini sull'ultima pagina del nuovo quaderno, sentii l'aula riempirsi a poco a poco di studenti e chiacchiericci crescenti, che cessarono nell'esatto istante in cui il professor Higgs fece il suo ingresso nell'aula.
Nelle due ore di lezione mattutina, pensai che avrei preso più appunti. Invece, a differenza delle ore di scuola condensate che facevamo a Daytona, il vero college si dilungava ben oltre le nozioni necessarie, sconfinando in sproloqui spesso inutili. Li trovai noiosi, ma forse la causa era da attribuirsi al tono troppo calmo del professore, che sembrava mangiarsi le parole sotto i baffi scuri.
Alla fine aspettai che gli altri uscissero per alzarmi, ma una volta oltrepassata la porta notai con la coda dell'occhio che una figura maschile aveva preso a camminare di fianco a me.
«Non è incredibile, a volte, il destino? Addirittura un corso insieme.»
Quell'accento ispanico e arrogante. Mi fermai a guardarlo un solo istante. Pantaloni della tuta rigorosamente grigi, spalle larghe fasciate dalla felpa dei Titans, e ciuffi di capelli biondi che nascondevano due occhi color nocciola illuminati da un baldo sorriso.
«Capitan Xavier Garcia, qual buon vento.» dissi sarcastica riprendendo a muovere i miei passi.
«Oh, andiamo» mi raggiunse con una sola falcata «Mi tratti così dopo che per colpa tua ho passato un'intera serata a chiamare un numero inesistente?»
Sapevo fosse fuori luogo, ma non riuscii a trattenere una risata. «Scusa, sei finito in mezzo a un gioco in cui non centravi.»
«Sono in debito di un appuntamento.»
«No.»
«Invece sì.»
Dopo quante uscite le persone normali potevano dire di frequentare qualcuno? C'era una regola?
«Esco con Jordan» tentai di liquidarlo.
«Non sono geloso.»
«E la battuta dell'anno va a...»
«Me, ovvio.»
Lo ammonii con un solo sguardo. Mi era bastato poco per capire che fosse un gran egocentrico, ma quello scambio di battute si stava rivelando divertente. Continuai a seguire il mio percorso, fino a fermarmi all'aula in cui avrei avuto la prima lezione di pedagogia.
«Almeno un caffè? Da amici?»
Mi voltai alzando gli occhi al cielo. «Ciao, capitan Xavier.»
Buongiorno! 💜
Ci sentiamo più tardi nel box domande?
Vi aspetto su instagram! (amelieqbooks)
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