2- 𝙍𝙖𝙞𝙣, 𝙞𝙣 𝙮𝙤𝙪𝙧 ᵇˡᵘᵉ 𝙚𝙮𝙚𝙨- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
🎵Musica: Rain in your b̶l̶a̶c̶k̶ blue eyes, Ezio Bosso
🛼Programmi di gara: -Gioia Fiori, SP 2019
-Giada Luppi, LP 2023
⭐Lasciate una stellina, voi ch'entrate ⭐
«Spingi, più veloce, dritta, stringi le scapole, allunga e...su!» l'ennesimo tonfo. Audrey continuava ad anticipare i miei movimenti, urlando a gran voce dall'altra parte della pista, dandomi il ritmo del salto. Ogni caduta rimbombava sul parquet del palazzetto, ed ero finita così tante volte con il sedere a terra da non sentire più il minimo dolore. Se n'erano andati tutti, ma Audrey aveva deciso di prolungare il mio allenamento fino a che non avessi fatto un triplo Toeloop perfetto.
Ero a dir poco sfinita, e iniziavo a non avere più il controllo del mio corpo a causa dei muscoli indolenziti.
Mi rialzai, asciugandomi il sudore sulla fronte con l'avambraccio, presi velocità con il passo incrociato indietro e mi misi in posizione, verificando mentalmente che tutto fosse al posto giusto: scapole strette, spalle allineate ai fianchi, braccia tese e a L. Allungai la gamba sinistra indietro, puntando il freno a terra: iniziai la fase di caricamento piegando le gambe, feci scorrere il pattino destro per avvicinarlo all'altro, mi diedi la spinta dal puntale sinistro e iniziai la fase aerea del salto, chiudendo rapidamente le braccia e allungando il mio corpo verso l'alto. L'obiettivo era quello di fare tre giri completi in aria.
Niente da fare, di nuovo a terra. Mi alzai sbuffando, stanca di provare e riprovare lo stesso salto che fino a qualche settimana prima era tra i più sicuri del mio bagaglio tecnico. Ero in grado di farli alla perfezione, veloci, alti, con una buona parabola in volo e atterraggi completi e puliti sulle ruote.
Stavo andando con spinte blande verso gli spalti per bere un sorso d'acqua e mettere in pausa quel supplizio per qualche minuto, quando mi sentii tirare i capelli per la coda e finii quasi a terra.
«Svegliati cazzo, non ti riconosco più!» con violenza, Audrey mi prese per le spalle e scuotendomi ricominciò ad urlarmi contro, e mi sentii pervasa dal panico. Era sempre stata severa con me, ma non mi aveva mai aggredita in quel modo. «Salti in aria storta, vai fuori asse, è impossibile restare in piedi e completare i tre giri». Quel maledetto asse di rotazione, che da manuale doveva essere perpendicolare al pavimento, era basilare per poter atterrare correttamente qualsiasi salto di pattinaggio. La mia allenatrice aveva gli occhi fuori dalle orbite tanto era arrabbiata. Iniziai ad avere paura.
«Scusa Audrey, sono stanca, non so che mi prende» sussurrai. Mi impegnavo, ma non riuscivo.
«Devo dirtelo io? Ti sei vista ultimamente? Come pensi di completare le rotazioni dei salti con questa pancia? Come fa Kevin ad alzarti?» e trattenendomi per una spalla mi diede la prima, forte, sberla.
Al ricordo mi svegliai di soprassalto. Era solo un incubo, uno dei tanti che popolavano le mie notti nell'ultimo periodo.
Ricordai che quel giorno, per la prima volta, saltai la cena e dopo la doccia guardai il mio corpo. Avevo ancora gli addominali alti ben definiti, ma tastandomi la pancia riuscii a prendere tra le dita un piccolo pezzo di carne morbida. Non era nulla di che, ma c'era. Strinsi il pollice contro l'indice, quasi come a voler staccare quella lieve rotondità che tanto stonava sul mio corpo prima pensavo fosse tonico e delineato. Mi sentii una stupida. Come avevo potuto permettere che accadesse?
Audrey, ogni lunedì, portava la bilancia in un angolo della pista e a turno ci faceva salire, annotando il peso di ognuno di noi in un taccuino con la copertina blu. Era sua premura, poi, portare i risultati della prova peso alla nutrizionista del nostro team, che avrebbe aggiornato le nostre schede personali nel suo PC. Eravamo controllate scrupolosamente e ognuno in società si adoperava per metterci nelle condizioni di dare il massimo.
I nostri genitori, con le sovvenzioni di qualche sponsor, pagavano per un pacchetto completo che ci desse la possibilità di allenarci con i migliori allenatori, affiancandovi un'adeguata istruzione parentale. Non andavamo al college come tutti, non ne avevamo il tempo materiale. Studiavamo gli appunti che ci preparavano gli educatori tra un allenamento e l'altro, dando a fine anno gli esami da privatisti, per confermare la nostra preparazione anche a livello culturale.
La nostra società era una macchina così ben oliata che da anni con questo metodo sfornava atleti di spessore a livello internazionale, in tutte le specialità del pattinaggio: che fosse la coppia artistico, il singolo o le discipline di danza a rotelle, gli atleti del Daytona Skating Center si distinguevano per essere tra i pochi a poter dare filo da torcere alla nazionale italiana e a quella spagnola, le più forti che il mondo rotellistico avesse mai visto.
Non c'era da stupirsi che tanti atleti americani facessero domanda per essere accettati al nostro centro. Abitando vicino al palazzetto, avevo avuto la fortuna di poterlo frequentare già dai miei primi passi. In cambio di questa enorme possibilità, venivano dati il nostro impegno e la nostra dedizione più completa.
Ma anche i sistemi meglio organizzati presentano delle falle. Nello specifico, la falla in questione era quella rotondità apparsa nel mio corpo. Non accettabile per un singolarista, figurarsi per la dama di una coppia artistico. Kevin, il re delle critiche, non mi aveva mai detto niente. In quel momento decisi che mai avrei dato al mio partner la possibilità di esprimersi a riguardo e mai più mi sarei fatta umiliare da Audrey in quel modo.
A perorare la mia causa, avrei avuto anche io il mio personalissimo taccuino.Ci avrei annotato le cose importanti da tenere d'occhio: il peso e le circonferenze di braccia, vita e cosce. Come punto bonus decisi di usarlo anche per annotare il cibo ingerito, poco importante il fatto che fosse in termini di qualità e quantità lo stesso previsto dal mio piano alimentare.
Iniziai subito, prendendo un metro sartoriale e una vecchia agendina dall'odore stantio, conservata per chissà quale motivo nei cassetti della scrivania. 22-60-46. Braccio, vita, coscia. Nel giro di dieci giorni, in quell'agendina del 2010, la lista del cibo ingerito era diventata una perfetta tabella che vedeva inseriti nella prima colonna gli alimenti mangiati, quantità e calorie nelle due colonne a fianco. A fine giornata il rito della somma calorica totale, annotata nell'angolo in basso a destra della pagina. La gioia, nel tempo, fu data dal vedere quel numerino scendere giorno dopo giorno.
Complice nella corsa alla discesa di quella cifra fu la colonna aggiunta dopo poco. Riportava una semplice stella stilizzata, e solo io sapevo il suo significato. In quel modo potevo concedermi qualche sfizio, quando i morsi della fame mi attanagliavano. Nella casella di incrocio tra la stellina e l'alimento scelto videro la luce la pallina colorata a penna nera e la pallina vuota: scelsi la prima a simboleggiare il vomito autoindotto, e l'altra per l'uso di lassativi.
Quello fu il mio modo per contribuire a mantenere nella strada del successo il Daytona Skating Center.
Quello fu il mio modo per dimostrare a Audrey che ero e sarei sempre rimasta la miglior partner per il prodigio Kevin Dawson.
Quello fu il mio modo per rendere onore, con i miei risultati, ai sacrifici che mia madre faceva per far sì che i miei sogni si avverassero.
Quello che ignorai, però, fu che quel taccuino risultò il mio modo di staccare il pass per la corsia preferenziale all'ingresso del castello dell'autodistruzione.
Gli incubi notturni mi lasciavano sempre nelle grinfie di un risveglio brusco, e il brutto sogno appena finito non fu da meno. Avevo il fiato corto. Mi ero addormentata tra le lacrime, lasciandomi alle spalle la giornata più brutta della mia vita: un allenamento andato male, l'ultimo di una lunga serie, terminato in una stanza di ospedale con la canula della flebo da una parte, il peso del mio segreto venuto a galla dall'altra.
La mia allenatrice mi aveva voltato le spalle, mia madre invece se n'era andata in malo modo, con la minaccia di trasferirmi in una clinica adatta al mio caso. Non era una cattiva persona, ma di certo l'assertività non era da annoverarsi tra le sue qualità.
Dire che fu la solitudine a impossessarsi di me è un eufemismo. Premetti il tasto rosso del telecomandino accanto a me. Ero sola, con una curiosità morbosa nei riguardi del mio futuro prossimo. Il passo affrettato di Claire fece capolino, con la nuvola di inconfondibile profumo floreale che avvolgeva la sua figura tonda e curata.
«Buongiorno tesoro, come stiamo stamane? Prima che tu mi risponda, ieri a fine turno sono passata a salutarti, ma dormivi già. Ho controllato che fosse tutto nei parametri, ma non ho voluto svegliarti. Dev'essere stata dura per te ieri, avevi bisogno di riposo». La sua dolcezza nei miei riguardi aveva aggiunto una piccola tacca di tranquillità a quel contenitore vuoto che era il mio corpo. L'empatia dovrebbe essere un requisito base per chi lavora a contatto con i pazienti, e Claire ne aveva da vendere.
«Come se mi fosse passato sopra un treno» risposi sincera.
«Immagino» mi sorrise volgendomi una fugace occhiata, mentre controllava che tutto fosse in ordine. «Questa mattina abbiamo fatto di nuovo le analisi del sangue e messo una nuova sacca di fisiologica» disse indicando la piantana per la flebo.«So che tua mamma ha scelto la clinica a Clearwater, stanno disponendo tutte le scartoffie necessarie al tuo trasferimento, così il dottor Andrews dopo averti visitato potrà firmarti le dimissioni. Hai qualche domanda?»
Scossi la testa in segno di negazione. Non volevo andare in nessuna clinica, non volevo nemmeno tornare a casa da mia madre. Avrei voluto chiudermi in un guscio e restare in un limbo fatto di invisibilità.
Presi coraggio. «Claire» riuscii a fermarla prima che uscisse, sciogliendo il nodo che si era formato in gola. «Cosa mi succederà ora?»
Tornò indietro e si sedette sulla sedia per i visitatori accanto al letto. Nessuno si era ancora seduto lì per starmi vicino. Prese ad accarezzarmi i capelli e fece un lungo sospiro a labbra serrate, prima di ricominciare a parlare. «Verrà a prenderti la mamma, più tardi in mattinata. Quando i bagagli saranno pronti partirete alla volta di Clearwater». Iniziò a parlare in tono calmo.
«Non mi soffermerò a dirti quanto sia rinomato il Fairwinds Treatment Center e quanto tu sia fortunata a poterlo raggiungere in qualche ora di viaggio. So che non è questo a incuriosirti. Posso dirti che sarà un percorso che inizierà quando prenderai consapevolezza della tua malattia. Non sarà facile, a volte avrai l'impressione di fare un passo avanti e due indietro, ma ricordati sempre che tutto serve. Non dare fretta alla tua salute mentale e soprattutto non arrenderti mai. So che per te sarà dura dover lasciare i pattini nel borsone per un breve periodo, ma sarà importante per rimetterli, se lo vorrai, con una nuova luce: quella di una bellissima ragazza, che pattina perché è la sua passione, non perché deve essere la migliore. Alla fine del percorso, imparerai che il valore di una persona è insito nella persona stessa e non è quantificabile in calorie, chili o medaglie. Sei caparbia, Amelia, seguo il pattinaggio artistico e ti ho riconosciuta non appena sei entrata. Non permettere al mostro dell'anoressia di portarti via la tua passione, affrontala a testa alta e vinci l'ennesima medaglia con la differenza che questa porterà in dote una vita da vivere a colori. Sarà la più importante». Quando Claire finì di parlare, aveva gli occhi lucidi. Un'ultima carezza alla testa, poi prese la mia mano tra le sue e la strinse dolcemente. Forza, mi dissero i suoi occhi. E uscì.
Consapevolezza.
Guarigione.
Vita a colori.
Pronta ad uscire da un ospedale per entrare in un altro, decisi di fare di questi tre concetti la postilla che mi avrebbe accompagnato nei mesi a venire. Sarei tornata sui miei amati pattini il prima possibile.
Lo dovevo a me stessa.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro