18- 𝙇𝙚 𝙛𝙖𝙗𝙪𝙡𝙚𝙪𝙭 𝙙𝙚𝙨𝙩𝙞𝙣 𝙙'𝘼𝙢é𝙡𝙞𝙚 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
Nel gruppo agonistico del Daytona skating club, i fortunati erano quelli che compivano gli anni negli ultimi mesi dell'anno. Seppur in piena preparazione atletica, non vi erano gare importanti all'orizzonte. Audrey quindi, ci permetteva di portare i pasticcini in pista per festeggiare, terminando l'allenamento un quarto d'ora prima del solito orario. In quei casi gli zuccheri in più ci erano concessi, a patto che alla cena di quel giorno si evitassero completamente i carboidrati.
Io ero tra i fortunati. Kevin, nato a giugno, nella piena preparazione dei campionati nazionali, non poteva festeggiare in pista.
Ecco perchè quello al Fairwinds fu un compleanno diverso dai soliti, anche se era ancora ben distante dai classici compleanni delle mie coetanee. Quel posto iniziava a starmi troppo stretto.
Volevo fare una passeggiata nei giardini, dopo pranzo? "No Amelia, è iperattività."
Mi scappava la pipì negli orari in cui i bagni erano chiusi? "Vai pure Amelia, ma non tirare l'acqua. Devo controllare che tu non abbia vomitato."
Il Fairwinds si stava dimostrando una camera blindata di regole e imposizioni, e mi era sempre più chiaro il motivo per cui Jordan mi chiamava Galeotta. La novità di quel lunedì fu che essendo sotto diretta responsabilità della struttura, non potevo mettere piede fuori dal cancello se non accompagnata dal personale di servizio o da un familiare.
Per il primo giorno di lezioni all'Academy, indossai il mio nuovo completo sportivo. Ma quando aprii il cassetto dell'intimo vidi i calzini fortunati, quelli che mia madre aveva sostituito di nascosto alla mia agendina. Stavo per affacciarmi a un nuovo inizio, e da gran sportiva superstiziosa quale ero, non persi tempo a domandarmi se fosse l'occasione adatta per indossarli di nuovo. Non stavo andando a una gara, ma era il momento giusto per rimetterli.
Una volta pronta, con i capelli raccolti in uno chignon, non mi venne concesso di raggiungere la pista con Jordan. Al contrario fui costretta a salire nella macchina del Fairwinds, che come se non bastasse, riportava il logo della struttura sul lunotto posteriore. Il solo pensiero di incontrare dei bambini, scendendo da quell'auto, mi rendeva nervosa.
Cosa avrebbero pensato poi i genitori? Avrebbero mai lasciato i loro figli nelle mani di una ragazza accompagnata dall'infermiera di una clinica psichiatrica? Quando fummo vicine al campo sportivo implorai Tamara di non lasciarmi davanti alla pista; non di certo nel parcheggio antistante dove vedevo già tante macchine parcheggiate. Acconsentì a lasciarmi qualche centinaio di metri più indietro, con molta discrezione.
Scaricai il borsone dal bagagliaio e lo portai in spalla, incamminandomi di buona lena verso la pista. Abituata ad allenarmi in un palazzetto al coperto, con una enorme pista in parquet, con spogliatoi generosi e spalti capienti, fu strano intravedere già a distanza la pista di allenamento della Clearwater Skating Academy.
Si trovava in fondo ad un'area sportiva immensa: una strada lunga e stretta che costeggiava un campo da atletica, un campo da basket e addirittura un'area festeggiamenti coperta. Era una giornata splendida, il parco pullulava di atleti di ogni tipo ed io ero carica di entusiasmo per il pomeriggio che mi stava aspettando.
«Sali.» Non mi ero nemmeno accorta che un suv nero aveva appena accostato accanto a me. Jordan si allungò ad aprirmi la portiera del passeggero per invitarmi a salire senza ammettere repliche di alcun tipo. Mi sedetti accanto a lui, tenendo il borsone sulle ginocchia. Pesava troppo per rifiutare un invito del genere.
«Perché stavi facendo tutta questa strada a piedi?» Chiese curioso.
«Mi ci vedevi arrivare con una macchina con scritto Fairwinds a caratteri cubitali?» Dissi caustica come poche volte nella vita.
«Giusta osservazione. Sei agitata?»
«Non ho mai lavorato con dei bambini.» Feci spallucce guardando un punto fisso sul cruscotto.
«Sono...bambini. Scoordinati oltre i limiti, ridono, cadono e si rialzano.» Ponderò bene la risposta. «Come lo siamo stati tutti.»
«Certo.» Soffocai una risata. «Me lo immagino proprio un Jordan Davis scoordinato. Non sei credibile, ritenta.» Guidava piano, come a voler tardare l'arrivo. Si era forse pentito della sua scelta? Si voltò a guardarmi, alternando lo sguardo tra me e la strada.
«Ti sorprenderebbe sapere che non sapevo frenare?» Riprese. «Mi piaceva andare veloce, ma rotolavo a terra appena schiacciavo sul freno. Quando ho scoperto che sbattere contro la balaustra era meno doloroso, ho frenato così per mesi di proposito.» Non mi guardò nemmeno in quel breve tuffo nei ricordi. Come se se ne vergognasse.
«Sei un falso modesto.» Dissi mentre parcheggiava.
Davanti a noi un campo da tennis divideva il grande parco giochi da una bella pista di pattinaggio, sicuramente più piccola di quella cui ero abituata, ma a occhio e croce era comunque regolare per le competizioni. Una volta scesa dalla macchina, con il borsone di nuovo in spalla, mi avvicinai alla balaustra. Pista in cemento ruvido. Lo avrei riconosciuto ovunque, perché era quel tipo di pavimentazione in cui, quando cadevi, ti scorticavi la pelle.
«Può essere.» Mi riservò un occhiolino malizioso quando si affiancò a me. «Vieni, ti presento a tutti.» Presi coraggio e lo seguii mentre si incamminava verso gli spalti, dove bimbi e genitori lo stavano aspettando finendo di allacciare i pattini ai loro figli.
Nell'imbarazzo che solo le presentazioni ad un mucchio di sconosciuti sanno dare, Jordan mi introdusse loro in modo rapido, conciso e indolore. Impeccabile. Cercai di tenere un sorrisino cortese, sperando di non passare per stupida. I genitori sembrarono tutto sommato accoglienti ed incuriositi nei miei confronti, ma sapevano che con l'arrivo dell'allenatore dovevano andarsene e tornare solo alla fine della lezione per riprendere i loro bimbi. Se c'era qualcosa in comune tra l'Academy e il Daytona, era che nessun genitore poteva assistere agli allenamenti.
I bambini mi guardavano con gli occhi della curiosità, ma nessuno di loro fece domande. Da quando presi i pattini dal borsone, a quando infilai lo scarponcino stringendo bene i lacci, i bambini se ne stettero tutti lì a fissarmi in silenzio. Non persero nessun mio movimento.
Una volta sistemata, andai dietro a Jordan che stava facendo strada a tutti i piccoli atleti, oltre il cancelletto d'ingresso. Seguendoli scoprii che erano a livelli diversi, perché alcuni di loro avevano le ruote con i bulloni stretti al massimo, in modo che non potessero scorrere. Si imparava così, a stare in piedi. Arrivarono a centro pista come piccoli soldatini, in una marcia timida e controllata.
«Allora bimbi, iniziamo con la pattinata per riscaldamento, come al solito.» Iniziò Jordan. «Cercate tutti di stare ben dritti e controllare la posizione di base, Amelia vi aiuterà in questo.»
«Quanti giri a otto dobbiamo fare?» domandò un bimbo dagli occhi verde brillante.
«Fin che ve lo diciamo noi, Noah. Forza, andate!»
I bimbi si divisero da soli in due gruppi, e quando iniziarono a pattinare, fu come tornare indietro nel tempo. Quasi tutti tiravano al massimo la parte superiore del corpo. Una spinta della gamba destra, un incrocio davanti, e l'allungo della gamba sinistra indietro. Erano le basi. Sfrecciavano disegnando un otto sull'intera superficie della pista, allenando così il passo incrociato in avanti sia in senso orario che in senso antiorario.
«Guarda la bimba vestita di blu, quella più piccola. Cosa le diresti?» Jordan si era fatto vicino.
«Di stringere le scapole, e controllare le braccia. Il piede c'è, ma il busto e le braccia sono forse troppo ballerine. Si muovono troppo.»
«Si chiama Kimberly.» Annuì in risposta. «Vai, è tua.»
«Non sei tu l'allenatore?» Lo guardai scettica.
«Sono bambini, non ti mangiano Amelia. Ti puoi avvicinare a loro.»
Iniziai a pattinare veloce finché la raggiunsi, accostandomi a lei.
«Ciao Kimberly, ti posso aiutare?» Mi riservò un sorriso timido, e annuì. Presi coraggio e cercai di mostrarle la postura corretta in tutte le parti del corpo.
«Che cosa sono le scapole?» Mi chiese a spiegazione terminata. La fermai, per portarla fuori dalla fila di piccoli pattinatori e poterle spiegare meglio.
«Le scapole sono queste» dissi toccandole la schiena. Come si spiega la contrazione muscolare ad una bambina di circa cinque anni? «Adesso, senti il mio dito?» provai a fare una leggera pressione sulla colonna vertebrale, nella parte alta della schiena, tra le scapole. Non appena annuì, continuai a spiegare «Facciamo un giochino: chiudi gli occhi e immagina che il mio dito sia una matita che sta per cadere. Devi riuscire a tenerlo stretto stretto, perché se cade hai perso il gioco.»
In un attimo, ad occhi chiusi, la piccola Kim era in posizione corretta: scapole finalmente strette, petto in fuori e pancia in dentro. «Perfetto! ora spingi in basso le spalle, allungando il collo.» cercai di farle capire la postura facendo una leggera pressione sulle spalle, verso il basso. Una volta pronta, passai alla posizione delle braccia. Mi era stato insegnato fin da subito a tenere le braccia aperte, in posizione sagittale, ma notai che lì i bambini tenevano tutte le braccia a L, portando il braccio esterno davanti.
«Immagina di essere la più forte del mondo. Sei talmente forte che niente e nessuno riesce a farti muovere le braccia. Pronta?» Kimberly rideva al pensiero di immaginarsi così forte. Iniziai a spingerle piano le braccia verso il basso, per metterla alla prova. Dopo i primi tentennamenti iniziali, iniziava a resistermi. Che le spingessi le braccia in alto, in basso, o in qualsiasi modo, Kimberly riusciva sempre a restare nella posizione corretta. Era così seria e concentrata, che provai a farle il solletico nell'avambraccio, facendola scoppiare a ridere, finché riuscii a farle perdere la posizione.
«Brava Kimberly! puoi tornare a pattinare con gli altri.» Ma non mi ero nemmeno accorta che la bambina più piccola aveva fermato la sua marcia per ascoltare quella sottospecie di spiegazione. Era tenerissima nel suo body color panna ed i capelli raccolti in una lunga coda.
«Dici anche a me cosa sono le capole?»
«Certo!» le risposi facendole sentire dove fossero. «Le scapole sono queste qui.» Cercai di accentuare la s che le era sfuggita.
«Come hai fatto a pattinare così veloce prima?» mi domandò una volta soddisfatta per la scoperta di una nuova parte del corpo.
«Mi piace andare veloce.» La risposta più semplice e veritiera.
«Io ho paura.»
Cercai Jordan con lo sguardo, scoprendo che al posto di seguire gli altri, ancora una volta guardava me. Stava seguendo le mie mosse con i suoi atleti tenendosi a distanza, e mi fece semplicemente segno di andare avanti, incoraggiandomi. Mi stava dando la libertà di esprimermi con i suoi bambini, senza nemmeno sapere se ne fossi stata in grado. La verità era che mi stavo divertendo da pazzi, così continuai con la mia idea.
«Come ti chiami?»
«Alexis.»
«Ti andrebbe di venire in braccio a me, Alexis? Ti faccio sentire quanto è bello andare veloci, se ti va.» Spalancò gli occhi e si illuminò, allungando le braccine verso di me, in modo che potessi prenderla in braccio. Me la strinsi forte al busto, avvolgendole un braccio intorno alla schiena e l'altro sotto le gambe, in modo che fosse seduta e protetta.
Iniziai a pattinare, aumentando la velocità man mano che sentivo Alexis più tranquilla. In risposta, lei rideva, di quella risata infantile cristallina dolce e contagiosa. Due giri di pista dopo, prima di rimetterla a terra, iniziai a girare su me stessa, per farle provare il brivido delle trottole. Alexis, si divertiva a più non posso.
Quando la feci scendere, vidi subito che i bambini avevano smesso di pattinare per radunarsi attorno a me.
«Anche io voglio girare come lei!» Iniziarono a chiedere.
Jordan se ne stava dietro di loro, a guardarli con quel sorrisetto sghembo. Sapeva già che tutti avrebbero voluto fare una trottola in braccio a me, li conosceva bene i suoi piccoli atleti. Io invece, non l'avevo previsto. Loro erano quindici, e l'indolenzimento alle braccia era già lì ad aspettarmi.
Disse solo una cosa, indicandoli con fare plateale: «Tutti tuoi.»
A turno, riservai qualche giro ciascuno. Non facevo le trottole da più di un mese, ma nonostante questo non avevo giramenti di testa. Ci stavamo tutti divertendo, finché il piccolo Noah non se ne uscì con una battuta che mi rese una statua di pietra. D'altronde erano bambini, forse avrei dovuto aspettarmelo.
«Ma nessuno ha fatto girare la maestra Amelia!» Mi nascosi il volto tra le mani, perché tutti, nessuno escluso, si voltarono verso Jordan.
«Non ti azzardare.» Lo minacciai.
«Su maestra Amelia, vuoi dire di no agli occhioni di questi bambini?» Le mie furono vane minacce, perché senza mollare quel sorriso maledetto Jordan mi si avvicinò divertito e mi prese la mano per trascinarmi con sé in giro per la pista.
«Non ho il permesso di allenarmi Jordan, non posso fare niente.»
«Non devi allenarti, devi solo divertirti. Questo ti è concesso. Scegli quello che più ti piace. Ti faccio fare quello che vuoi.» Era una tentazione troppo allettante per dirgli di no. Allenarmi, provare e riprovare ogni singolo elemento, mi mancava come l'aria.
«Spirale della morte esterna indietro. Solo quella.» Era lei, la mia preferita.
«Ai tuoi ordini, piccola Reed.»
«Se chiedono altro, digli di no.» Una sola spirale, e niente di più.
«Zitta, e pattina. La facciamo lì.» Disse indicando il punto in cui avremmo eseguito la spirale.
Entrambi ci voltammo per il passo incrociato indietro. Mi allungò la mano, e ci unimmo stringendoci i polsi. Non sapevo se fossi stata io a prendere il ritmo della sua pattinata, o se fosse stato lui a prendere il ritmo della mia. Eravamo in sincrono, senza alcuno sforzo, nonostante lui fosse più alto di Kevin.
Uno sguardo complice, un occhiolino a dare il via alla preparazione e Jordan allungò la gamba sinistra indietro per cercare con il freno un punto preciso, il perno necessario alla riuscita della figura. Io, in equilibrio sul pattino destro mi aggrappai forte al suo braccio e rovesciai il busto indietro fino ad arrivare con la testa vicina al pavimento, lasciandomi guidare da Jordan.
Era una sensazione da brivido poter guardare il mondo al contrario, consapevole che se la tensione tra noi si fosse spezzata non avremmo potuto mantenere la figura, e sarei caduta battendo la testa.
https://youtu.be/zStBa7xES7E
La spirale altro non era che un compasso formato da due corpi uniti a disegnare una chiocciola perfetta sul cemento ruvido. Un insieme di equilibrio, leggi fisiche e biomeccaniche che davano vita all'arte più bella che fosse mai stata creata: il pattinaggio artistico.
Tre giri precisi, poi con un piccolo contraccolpo Jordan mi aiutò a rimettermi in piedi, pronti per un'uscita da manuale. I bambini erano estasiati, e si liberarono in piccoli cori di adulazione.
Quando la nostalgia viene soddisfatta, riempita di passione e spontaneità, dà vita ad un'esplosione di gioia. Ero sicura che fosse quella, ad essersi impossessata del mio volto e a non volersene andare.
«Le fabuleux destin d'Amélie.» Una semplice frase sussurrata all'orecchio. Un solo titolo, un impavido accento francese, ed ebbe tutta la mia attenzione.
«Cosa?» Dove vuoi andare a parare, Davis?
Illuminato dal sole che trasformò il miele dei suoi occhi in oro colato, si spiegò. «Non vedevo quel tuo sorriso dalla fine di quella gara in singolo, anni fa, a Miami. Avevi pattinato sulle musiche de "Il favoloso mondo di Amèlie"»
«Come fai a ricordartelo?» Erano passati anni, ero solo una ragazzina. Impossibile per lui averne memoria.
«Una catena di cinque doppi Rit diretti nella categoria allievi non è una cosa che si dimentica facilmente.» Disse come se fosse la cosa più scontata del mondo.
Quella fu la gara meglio riuscita in vita mia, una gara cui partecipai dopo aver insistito per giorni con mia mamma, perchè nei giorni precedenti mi ero ammalata. Non ero pronta, secondo lei. Ero troppo debole. Imparai lì, che determinazione, adrenalina e concentrazione possono fare i miracoli.
«Ho indossato gli stessi calzini ad ogni gara, dopo quella volta.» sospirai al ricordo. «Guarda, ho voluto metterli anche oggi.» Mostrai divertita la caviglia, dove si intravedeva quel pezzo di stoffa ceruleo.
«Avresti notato un mondo di cose, se non fossi sempre stata con gli occhi in quei cazzo di libri.» Gli bastò sputare una frase così per interrompere qualsiasi atmosfera di divertimento si fosse creata tra noi.
«Cosa vuoi dire?» Quel tono, mi aveva resa nervosa.
«Niente.» Non mi guardava nemmeno in faccia. Giocherellava sulle ruote dei pattini, muovendo i piedi con fare impaziente.
«Smettila di parlare a metà. Di' quel che devi dire e falla finita, Jordan.» Insistei con prepotenza.
Non ci fu spazio per ulteriori commenti. Perché mentre i bambini giocherellavano tra loro, alle sue spalle stava arrivando a passo spedito una signora che avevo visto mille volte nei palazzetti, ad accompagnare Jordan e Chloe.
Martina, la loro allenatrice e niente di meno che la mamma di Jordan.
E il suo volto, non prometteva nulla di buono.
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