1- 𝙊𝙗𝙨𝙘𝙪𝙧𝙖- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
🎵Obscura, Power Haus
🛼 Programmi di gara: -Kamila Valieva, LP 2022
-Yuri Allegranti, FD 2023
-Rachele Bianchi, SP 2024
Il buio.
Il vuoto.
L'inezia.
Così nolente nei confronti della vita, così stanca di perseguire obiettivi irraggiungibili che il sapermi ancora viva mi diede il voltastomaco.
Un pungente odore di fenolo mi solleticò le narici, mentre un suono intermittente mi rimbombava nelle orecchie.
Aprii gli occhi, infastidita dal candore della stanza asettica e dalle luci bianche sul soffitto. Lentamente, cercai di muovermi, per capire dove fossi: qualche ora prima mi stavo allenando sui pattini, come sempre.
Il monitor di un cardiofrequenzimetro scandiva fastidiosamente il tempo, collegato a me da una serie di tubicini che andavano a diramarsi sul petto, nascosti da un camice in tessuto leggero e scadente.
Il pizzicore dell'ago della flebo, invece, mi indolenziva il braccio rendendomi nervosa.
Ero passata dalla pista di pattinaggio alla stanza di un ospedale in cui non dovevo stare.
Avevo esagerato.
A guardare quelle sfumature di rosa e arancio alla finestra doveva essere quasi il tramonto, e provai ad alzarmi per tornarmene a casa.
La prossima volta devi stare più attenta, mi promisi.
Dei passi veloci si avvicinarono e piombò in camera una infermiera in divisa, prossima alla pensione.
«Ciao Amelia, sono l'infermiera Claire, come ti senti?» disse carezzandomi la testa con fare dolce. Il suo sguardo compassionevole era adombrato da corti capelli lisci che si adagiavano sulla fronte.
«Posso andare a casa?»
Un sorriso di scherno spuntò sul suo volto, come se si aspettasse la mia domanda.
«Sei svenuta durante l'allenamento e l'ambulanza ti ha portato qui, all'Halifax Medical Center di Daytona. A breve arriverà il medico per spiegarti quanto accaduto.» Controllò la sacca della flebo, prima di riprendere «La tua allenatrice è andata a chiamare tua madre. Le hai fatto prendere un brutto spavento, cara».
Immaginai quanta paura potesse aver preso Audrey. Probabilmente, la mia allenatrice si era resa conto che in caso di commozioni avrei saltato la gara che si sarebbe tenuta di lì a due giorni.
Prima di una competizione, gli allenamenti per gli atleti agonisti erano ancora più intensi del normale: la preparazione atletica e la danza ci aiutavano a potenziare la mole di lavoro che io e il mio partner facevamo sui pattini. Per restare ai vertici erano necessarie doti fisiche e atletiche che richiedevano costanza e disciplina.
Mi allenavo con Kevin per gareggiare nella categoria della coppia artistico, la specialità più difficile che il mondo del pattinaggio a rotelle offrisse.
Avevamo iniziato a lavorare assieme da qualche anno, quando la nostra allenatrice Audrey Clark ci propose la partnership perché si rese conto che in coppia avremmo potuto raggiungere risultati più alti. Ci vide lungo: nel giro di un anno avevamo raggiunto lo stesso livello tecnico della coppia rivale ai vertici in Florida.
Jordan Davis e Chloe Riley restavano imbattuti sul primo gradino del podio nazionale, con grossa frustrazione da parte di tutti gli altri atleti. Soprattutto noi, che ogni anno perdevamo l'unico posto per la convocazione al mondiale di pochissimi punti.
A clamor di critica, a dividerci dall'oro, vi era solo il basso punteggio nel contenuto artistico dei nostri programmi di gara: peccavamo di complicità, risultavamo sincronizzati ma non coinvolgenti, un unisono tanto buono quanto robotico. Eravamo atleticamente compatibili e caratterialmente agli antipodi.
Star dei social lui, nel più completo anonimato io. Tra noi si altalenavano periodi di battutacce e insulti a periodi di completa indifferenza. In pista l'accordo tra noi era solo uno: lui non mi faceva cadere dai sollevamenti e io mi trattenevo dal tirargli accidentalmente un pattino in testa. Non avessimo avuto l'obiettivo comune di portare al collo l'oro mondiale di certo ci saremmo evitati senza grossi patemi. Ero disposta a tutto, pur di portare a casa quella medaglia.
Anche se quel tutto mi aveva portato in ospedale.
« Mio Dio, che è successo qui?» i decibel stellari di Catherine Reed precedettero il suo ingresso in stanza sovrastando il ticchettio del suo passo svelto. Come un tornado mia madre ignorò completamente l'infermiera, per controllare agitata il monitor e il sacchetto della flebo, iniziando poi a tastarmi la fronte in più punti facendo tintinnare la bigiotteria al polso.
«Febbre non ne hai, ossa rotte nemmeno» disse sollevando il lenzuolo che mi copriva per accertarsi non ci fossero gessi o fasciature «quindi? cos'hai fatto?»
«Niente di grave Catherine, è solo stanca, una dormita e torna come nuova» sentenziò entrando Audrey. Scollegai l'udito dalle mie funzioni cognitive, per non sentire lo squittio continuo che ebbe inizio tra quelle due, così esperte e certe del mio stato di salute da non chiedere nemmeno come stessi.
Ero già al limite della sopportazione e mi voltai in cerca di appiglio a guardare Claire. Impettita, era già rivolta a me con aria di comprensione. Chissà quante sceneggiate del genere aveva visto, negli anni di lavoro. Mi fece l'occhiolino, per smorzare la tensione che si stava creando in camera, e non smise di carezzarmi i capelli nemmeno quando in stanza entrò un uomo di mezza età dall'aspetto curato, una divisa verde brillante nascosta da un camice bianco ottico perfettamente stirato.
«Ciao Amelia, va un po' meglio?» chiese alzando gli occhi dal plico di carte che reggeva in mano.
Risposi facendo spallucce. Certo che andava meglio, volevo solo tornare a casa per riprendere da dove avevo lasciato.
«Sono il dottor Andrews, mi sono occupato delle cure di primo soccorso quando sei entrata. Sei apparsa subito disidratata, motivo per cui ti abbiamo messo questa flebo per reintegrare i liquidi nell'attesa di avere i risultati degli esami del sangue» Sventolò i fogli pieni di numeri in bella vista. «Sei minorenne, hai ancora 17 anni, di conseguenza leggerò i referti alla presenza di un genitore, o tutore legale. Una di voi due lo è?» chiese rivolgendosi a Catherine ed Audrey.
«Sono la madre, ma può restare anche lei, è la sua allenatrice. Amelia è un'atleta che pattina a livello agonistico, è tra le migliori d'America» rispose orgogliosa mia madre, affiancandosi a Audrey.
«D'accordo, allora sarò piuttosto chiaro». Il dottor Andrews riportò lo sguardo sulla mia cartella clinica, e io mi preparai ad ascoltare ciò che avrebbe sancito la mia sconfitta.
Chiusi gli occhi, cercando di immaginare uno scenario in cui la protagonista non fossi io. Sapevo già dove sarebbero andate a parare le parole del medico, sapevo che prima o poi tutto sarebbe venuto a galla, ma non ero ancora pronta ad affrontare le conseguenze del caso. Mi terrorizzavano le possibili reazioni delle persone che vivevano nel mio quotidiano.
Il dottore prese fiato e con estrema chiarezza si pronunciò, con lo sguardo puntato dritto su mia madre : «Signora Reed, sua figlia è stata ricoverata qui in seguito ad un mancamento avvenuto durante l'allenamento. Le analisi del sangue, oltre a confermare la disidratazione, hanno rilevato un grosso scompenso elettrolitico, in aggiunta a valori decisamente bassi di ferro e potassio».
«Oh bene, non è niente che non si possa risolvere: qualche integratore e sali minerali e torni in forma per domenica» interruppe mia madre, sciogliendo le spalle con fare saccente. Era addirittura più informata di un medico.
Il dottor Andrews continuò, imperturbabile: «Mi lasci finire, signora. Questi fattori, uniti al basso indice di massa corporea, ci portano a pensare ad un quadro di disturbo alimentare».
Il pizzicore agli occhi arrivò subito. Strizzai le palpebre, nella vana speranza di ricacciare indietro le lacrime. Ma erano li bloccate, non se ne tornavano indietro, e la gola mi si strinse in una morsa.
«Amelia segue alla lettera il piano alimentare della nostra nutrizionista, è impossibile che sia malata» lo interruppe Audrey. «I miei agonisti si allenano tante ore al giorno e, per mantenere alte prestazioni e massa muscolare adeguata, mangiano secondo i piani creati dalla nutrizionista che il club mette a disposizione.» Incrociò le braccia al petto, ostentando la sua solita sicurezza. «Pranza in pista con me ogni giorno, le assicuro che le sue porzioni le mangia.»
Da come mi guardava in pista, ero quasi certa che Audrey avesse dei sospetti, ma un'atleta più snella alle porte della nuova stagione sportiva era per lei troppo allettante per dare voce alle sue supposizioni. Ignorare le era più congeniale e permetteva a me di continuare per la mia strada. Doppia vittoria.
«E dopo aver mangiato, sa cosa succede? Ne avete idea?» il medico prese la mia mano, la avvolse nella sua e mi sollevò il braccio con estrema cura. «Guardate le sue nocche, questi graffi si palesano quando il vomito è autoindotto. Il suo stato di disidratazione è di una gravità tale che può essere riconducibile solo all'uso spropositato di lassativi».
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Le lacrime, finora trattenute, sgorgarono senza alcun controllo, come un fiume in piena. Ciò che avevo celato in ogni modo possibile era stato esposto di fronte alle due persone che con pregi e difetti mi erano vicino dalla nascita. Mia madre, che mi aveva dato alla luce e alla mia allenatrice, che mi aveva cresciuta come atleta.
Ero sempre stata attenta a tutto: avevo imparato i trucchi per rimettere senza far rumore ed ero sempre stata attenta nel prendere i lassativi, calcolando le ore e fare in modo di essere a casa da sola nel momento in cui avrebbero fatto effetto.
I miei sforzi si erano rivelati inutili. Mi sentii umiliata, inerme, spoglia dei miei segreti che presto sarebbero stati sulla bocca di tutti.
Per la prima volta un'espressione indecifrabile comparve sul volto di mia madre. Sembrava aver perso l'uso della parola. Audrey, invece, puntava lo sguardo assente fisso al pavimento. Se ne stavano lì, immobili, senza proferire parola, senza avere il coraggio di guardarmi in faccia.
«Scusate» disse finalmente Audrey, dopo qualche secondo che sembrò infinito. «Ho bisogno di uscire» mi rivolse un'ultima, truce, occhiata, una di quelle che mi riservava quando sbagliavo qualcosa in pista. Poi se ne andò, senza aggiungere altro.
«Tesoro, non avere paura: ti aiuteremo in ogni modo possibile». L'infermiera Claire si rivelò essere l'unico angelo nella stanza. Non mi volse sguardi giudicanti, continuò ad accarezzarmi i capelli con dolcezza materna, dimostrandosi un'alleata solidale in quel momento nero.
«A tal proposito» riprese il dottor Andrews «non possiamo prenderci cura di Amelia qui, non abbiamo le risorse per sostenerla nell'immediato. Le possibilità sono due: può affiancarla a uno psicologo specializzato nei disturbi alimentari, oppure possiamo inserirla in un programma di recupero completo. Per questa eventualità, si renderebbe necessario il ricovero in regime residenziale in una struttura protetta e specializzata nel trattamento delle casistiche simili a quella di Amelia. La clinica si trova a Clearwater, a qualche ora da qui. Specifico, che su qualsiasi possibilità ricada la vostra scelta i costi sono interamente coperti dall'assicurazione sportiva» prese una pausa. «Vi lascio sole per discuterne, passo più tardi a vedere come procede».
Se ne andò anche lui, seguito da Claire, che mi diede un ultimo buffetto leggero sulla guancia promettendo di tornare a trovarmi prima della fine del suo turno.
Restammo solo io e mia madre, ancora impietrita. Non ero abituata a vederla così, nel suo aspetto curato aveva sempre qualcosa da dire, su qualsiasi argomento. Mi decisi così a parlare, tra le lacrime, nella speranza di vederla reagire a quella condizione di stallo.
«Mamma».
A quella parola si smosse, spostò il peso sulla gamba destra sistemandosi la borsa sulla spalla e finalmente parlò guardandomi in faccia, con una espressione che non ammise repliche:
«Domani organizzo il tuo trasferimento a Clearwater.»
«Non ci voglio andare.» Il ricovero avrebbe messo la parola fine alla mia carriera sportiva. Lavoravo da tutta la vita per arrivare al campionato del mondo. Io e Kevin c'eravamo quasi, appendere i pattini al chiodo era fuori discussione.
Sarei stata più attenta.
Avrei mangiato di più.
Ma sarei rimasta a casa, e ce l'avrei fatta da sola.
«Ci vai eccome. Io una figlia anoressica non la voglio».
Se ne andò anche lei e io restai da sola, con la consapevolezza che se non avessi fatto quello che lei voleva avrei perso l'unico genitore che mi restava.
Ciao a tutti!
Spero che questo primo capitolo vi invogli a continuare la storia di Amelia.
Sto pian piano aggiungendo a ogni capitolo aggiungendo i banner (fatti da @jjustrebbyy )e i programmi di gara che danno il titolo ai capitoli, dando spazio agli atleti che li interpretano.
Se vieni dal pattinaggio e conosci altri pattinatori che hanno usato le musiche da qui a seguire, non farti problemi a scrivermi in direct su instagram (amelieqbooks): sarà mia premura aggiornare la lista il prima possibile, in modo che il nostro sport raggiunga più persone possibili!
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