▫ capıтoʟo 1 ▫
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Ricordo perfettamente com'era quella gelida mattina di gennaio.
Il sole con la sua flebile luce timida non fendeva quel gelo spesso che presidiava l'esterno. I passanti tremavano, sepolti nei loro cappotti e piumini, camminavano rapidi e veloci, solo pochi decidevano di godersi un caffè o una calda colazione.
Quella domenica mattina ero libera da scuola e, come qualsiasi giovane quasi-diciottenne, la mia voglia di studiare era relativamente poca.
Ero cresciuta tra leccornie e cappuccini, piatti caldi e veloci o stuzzichini da asporto, tutto contornato da numerose opere di cucito che non avrei mai saputo replicare.
La famiglia Kwon da generazioni tramandava l'attività nella pasticceria, servendo i clienti nel miglior modo possibile e io, come perfetta discendente, ero volenterosa di seguire le orme dei miei parenti.
Potevo considerare l'Akai Ito casa mia, sia perché vi abitavo proprio sopra, sia perché non potevo figurarmi in altro posto se non quello. Era impossibile immaginare la mia vita senza i miei genitori, che bisticciavano per la preparazione dei piatti, iniziando potenti e pericolose battaglie all'ultimo mestolo, senza quei clienti che mi conoscevano da quanto ero alta un metro e uno sputo e che ancora oggi mi chiamano Yulinie, e soprattutto, non potevo immaginare un'esistenza senza la dittatrice di famiglia: Nonna Yun, conosciuta come Kwon Yunseo. Era nota per cacciare a padellate tutti coloro che ipotizzavano scelleratezze sul significato del nostro nome.
Appena le parole "Leggenda" e "filo rosso" (ovvero Akai Ito) si univano, Nonna Yun preparava tutta la sua non grazia e attaccava, mossa dall'indignazione.
Era vero che in Giappone esistesse quella leggenda, ma era altrettanto vero che lei avesse voluto cambiare il nome per ciò che amava più fare: cucire.
La pasticceria era piccola, ma familiare: le pareti mostravano un intonaco arancione sbiadito, che si amalgamava all'abbondanza di legno e pietre. L'angolo destro era interamente dedicato alla caffetteria, col bancone di cui si occupava mia madre, il resto pullulava di sedie e soffici divani, illuminati dalle finestre che occupavano due intere pareti. Soltanto guardandosi intorno, però, si comprendeva che Nonna Yun avesse dato anima e cuore a questa pasticceria: ogni quadro, ogni arazzo, ogni cuscino era realizzato a mano da lei con ago e filo e ognuno era firmato con un nastro rosso nell'angolo a destra.
Il nome era dovuto a questo.
I miei genitori mi portarono finalmente con loro col fine di imparare il mestiere pratico, bandendomi ardentemente di infilare il mio naso nel cibo e dandomi il lavoro da cameriera.
Cosa che odiavo fare.
Per fortuna, però, erano davvero pochi i clienti sconosciuti, ormai quasi tutti erano parte della famiglia. C'era Yu Suyeon, la parrucchiera dall'altro lato della strada, Kang Minkyu, vecchio camionista, An Jaejun, ingegnere presso un piccolo studiolo, sempre nei dintorni, e molti altri.
Dare del lei era un optional la maggior parte delle volte.
Esaltata per iniziare a lavorare, cominciai a raccattare i primi ordini: chi voleva un cornetto con un caffè americano, chi prediligeva un espresso, chi ordinava talmente tanti dolci da pretendere il diabete in omaggio... insomma, non ci si annoiava certamente. La clientela era molto ricercata: infatti servivamo una colazione di tipo occidentale, italiano principalmente. Anni fa i miei genitori andarono in Italia e si innamorarono di quelle prelibatezze, non passò molto prima che cambiassero il menù.
«Siyul, spicciati» mi spronò Nonna Yun e, col mestolo che aveva in mano, indicò l'angolo sinistro della sala, «Vai da lui, op, op».
In quel punto intimo, vicino al camino e alla zona relax della nonna, con la sua sedia a dondolo preferita, sedeva un giovane ragazzo.
Mi ricordo come se fosse ieri la bellezza che emanava da ogni angolo di quel viso divino. All'epoca doveva compiere diciannove anni, a pensarci adesso, mi sembra passata una vita.
Fissava con aria pacata i passanti che camminavano avanti e indietro davanti alle vetrate, ogni tanto scribacchiava qualcosa su quel quadernino a cui tanto teneva, sembrava assolto in una conversazione di silenzio.
Ciocche nere gli ricadevano soavi sulla fronte, coprendo apppena appena il suo sguardo affilato. Le palpebre avevano una raffinata scia di ombretto color caramello a decorarle, mentre l'eyeliner gli donava quel magico contrasto più scuro, che rendeva i suoi occhi ancora più marcati.
Si mordeva per brevissimi instanti le labbra, piccoli cuscinetti morbidi e carnosi. Lo faceva sempre quando doveva concentrarsi.
Quando mi avvicinai, si voltò tranquillamente. Forse si aspettava di trovare mia madre, che solitamente serviva, perché fu molto sorpreso di vedermi. Gli chiesi cosa volesse mangiare, ma per qualche istante continuò a fissarmi.
«Il solito» disse lievemente, come se le parole gli morissero in gola e dovesse pescarle con una lenza.
Inarcai un sopracciglio e titubante, ma scrissi. Con un mugolio il ragazzo, però, si corresse: «Cappuccino e brioches al cioccolato».
Nonna Yun mi guardò tornare al bancone e riportare l'ordine a mamma e non tardò a condividere la sua opinione da perfetta zitella pettegola: «Quel giovanotto è un pupazzetto da coccolare» esclamò intenerita.
Mamma mugolò qualcosa di incomprensibile, «Park Jimin?» e Nonna Yun annuì, «Oh, sì, viene tutte le domeniche, non parla molto, ma è di un'educazione...»
«Vorrei vedere, figlio dell'avvocatessa Park! Un genio quella donna, un genio» continuò Nonna Yun.
Mi faceva ancora ridere l'amore che quella vecchietta provava nei confronti di Jimin, ci aveva visto davvero lungo. Colpì pure me e mi segnò con una ferita indelebile fin nel profondo. Non ne sarei mai uscita indenne.
Effettivamente, Jimin venne ogni domenica e ogni domenica lo servii. All'inizio l'abitudine di pronunciare "il solito" lo mise in difficoltà, ma imparai presto che fosse attaccato al suo cappuccino, con tre cucchiai di zucchero, e al consumo degli esperimenti di laboratorio, i così detti piatti prova che ogni tanto Papà brevettava in cucina.
Ben presto, il clima di professionalità fu distrutto, come accadeva sempre, e iniziarono le prime conversazioni. «Sei la piccola Kwon?» domandò con curiosità, gli avevo portato il suo ordine e, dati i pochi clienti, mi aveva fatto cenno con la testa di sedermi con lui. «Ho notato le foto» indicò col dito le cornici che erano appese sul muro, mostravano le migliori immagini della famiglia.
«Ho solo dodici anni di più, ma sì, Kwon Siyul in persona» mi porse la mano e la stringemmo come colleghi di lavoro.
Mi ammaliò col suo sorriso divino e le sue maniere da principe. Era sarcastico e arguto, riuscì a comprendere la delicatezza del nome Akai Ito, la tendenza di Nonna Yun a far pettegolezzi su tutti, gli schiamazzi di padre e madre Kwon e anche me, volendo.
Mi raccontò del suo sogno di divenire psicologo, un giorno forse nemmeno tanto distante. «Mi piace domandarmi il perché di certe azioni» spiegò, «Cosa muove la mente umana e in quali modi posso aiutare la gente».
«Per questo fissi chiunque?» mi venne spontaneo chiedergli.
Adoravo che, fin dall'inizio, non vi fosse imbarazzo da entrambe le parti. Il suo sorriso mi accecò, lui mi fece tremare tanto che era splendido. La voglia di proteggerlo come il più ardito tesoro esistente era immensa, volevo stringerlo a me e non lasciarlo mai andare.
«Chissà, chissà».
Ricambiai il suo sorriso, «Avere una madre avvocatessa è utile in questi casi».
«Ho evitato tante denunce per stalking, sì» concordò.
Il rapporto tra noi continuò imperterrito con l'andare dei mesi.
Lui ogni settimana veniva, passava la mattina in pasticceria con noi, quando con i libri di scuola, quando perché era in zona per degli acquisti, quando unicamente perché a casa da solo si annoiava.
Ormai l'estate sfumava e l'autunno attendeva paziente di prendere il comando, i giorni imbrunirono e si accorciarono, il freddo ritornò lemtamente e le prime foglie caddero, ricoprendo la strada di arancione.
Entrambi avevamo vissuto due relazioni lampo in quel lasso di tempo. Lui si era fidanzato con una compagna di classe verso marzo, una certa Min Naeun, ma nemmeno dopo cinque mesi di relazione Jimin scoprì di essere più cornuto di un alce.
Si lasciarono seduta stante.
Mi toccò l'arduo compito di consolarlo come potevo, cercai di farlo ridere e distogliere da qualsiasi paranoia e funzionò. Poi fu il mio turno, il mio ormai-ex-ragazzo era un tipo pretendente e, usando un termine accurato, cagacazzi, mi mollò indignato, sostenendo che lo amassi meno dei miei pasticcini.
Cosa puramente vera, sia chiaro, ma niente poteva superare l'amore per il cibo.
Per mia fortuna, non soffrì quasi per niente, ma finsi per far ricambiare il favore al mio amico.
Jimin, ora che eravamo entrambi single, non si peritava ad aumentare il contatto fisico, che fossero abbracci o semplici toccatine. Sotto sotto era malizioso, però non mi diede mai fastidio. Sapeva regolarsi al giusto e poi i suoi abbracci erano la fine del mondo.
Venne dunque quella fatidica giornata: la volta in cui mi chiese di uscire. Fu tutto naturale e spontaneo, si presentò come consuetudine la domenica mattina, fece colazione e, seduti allo stesso tavolo, iniziammo a parlare del più e del meno.
Malgrado non fossimo più soggiogati dal caldo afoso, le giornate si mantenevano pur sempre miti e, in particolare, quella mattina il sole era caldo e amorevole. Entrammo in ambiti piuttosto bizzarri, lui pendeva dalle mie labbra come io dalle sue, discutemmo di un recente film che avevano proiettato al cinema, Jimin, anche se titubante, raccontò con ribrezzo di averlo visto con la sua ex, un'esperienza che ancora lo tormentava nel profondo.
Poi spaziò e, di punto in bianco, col viso fisso sulla strada, mi propose di uscire con lui quel pomeriggio. Il mio sconvolgimento fu ineguagliabile.
La mascella mi cadde dritta dritta fino a terra, mentre, presa dall'entusiasmo, quasi gli saltai addosso.
Le quattro di pomeriggio erano tanto lontane da risultare durature quanto uno schiocco di dita: non ebbi il tempo di ragionare se il vestito bianco che indossai, orlato di merletti e leggermente più stretto in vita, fosse agghiacciante sul mio corpo, se il trucco fosse troppo poco eccessivo e si vedesse quell'orripilante brufolo al centro della guancia o alle possibilità di cadere malamente con addosso dei tacchi.
Mamma, alle tre e cinquantotto mi prelevò di peso da camera e mi spinse lontano da casa, sul marciapiede davanti alla pasticceria, ad attendere l'arrivo di Jimin. L'ansia mi divorava ardentemente, le ginocchia tremavano e combattevano tra loro, cozzando in combattimenti estenuanti.
Quando vidi la sua figura in lontananza, divenni un bagno di sudore. Iniziai a passarmi le mani su ogni lembo di stoffa per asciugarle un minimo, discussi un dibattito agguerrito con la me che non voleva andargli incontro, chiedendole se non fosse strano.
Dovevo essere un palo?
Dovevo camminare col rischio di inciampare nei miei stessi passi?
Non sapendo proprio che fare, avanzai di due falcate, non una di più, non una di meno, poi mi sentii realizzata e attesi che Jimin attraversasse la strada e mi salutasse.
Quando mi abbracciò, la sua colonia mi conquistò col suo profumo ed entrai in un limbo di emozioni mai viste o mai provate. Feci ben attenzione a non toccarlo direttamente con i miei palmi madidi di sudore, ma l'angoscia che qualche fetore si levasse dal mio corpo era alle stelle. Non volevo puzzare al mio primo appuntamento rilevante.
Fortunatamente, Jimin non parve notare cose strane, o, se le aveva notate, era rimasto zitto.
Percorremmo un breve tragitto a piedi, diretti verso un parco poco lontano dall'Akai Ito. Appena giungemmo nell'instabile terreno erboso, mi maledissi per quei trampoli mortali che avevo indossato.
Camminando così alla cieca, avrei sicuramente piantato il tacco nell'unico formicaio del campo, distruggendo la vita di povere formiche innocenti e cadendo di faccia – e con un abito bianco – per terra.
«Speri che io mi rompa una caviglia?» domandai nascosta dalla mia corazza di sarcasmo, sperai che Jimin decidesse di cambiare rotta e andare in qualche zona lastricata.
Bene, non furono questi i suoi pensieri, «Speravo che tua nonna mi affidasse l'intera proprietà della pasticceria, sì» e, la merda valutò bene di incamminarsi comunque là dove l'erba era più soffice e alta e i formicari più difficili da individuare.
La presi come una sfida personale e, animata da un ardore incontrastato, non ragionai due volte: mi tolsi le scarpe, fregandomene del loro valore e lanciandole dietro al giovane dai capelli neri. Peccato che nessuno dei due proiettili avesse forato il bersaglio.
In ogni caso, posai i piedi nudi sul terreno e una lunga serie di sassolini e legnetti vari mise a dura prova la mia poca sopportazione del dolore.
Iniziai a saltellargli dietro con qualche grave problema di movimento, ma dovevo ispirare talmente tanta pietà che Jimin pensò bene di afferrarmi in braccio, come una sposa.
Mi agganciai al suo collo come una sanguisuga, mentre le sue braccia erano tanto forti da impedire qualunque caduta. Ci fermammo sotto una quercia e, per almeno un'ora, rimanemmo seduti tra le immense radici, io posata contro Jimin e lui con la schiena al tronco.
Lasciammo che un silenzio caldo e loquace cullasse quel momento paradisiaco privo di preoccupazioni. Non mi interessava più se il mio vestito si fosse colorato di verde a contatto con l'erba o se i miei palmi fossero sudati, Park Jimin era una droga talmente potente che ignorai ogni cosa.
E poi accadde.
I nostri sentimenti sbocciarono e, presi dalla realizzazione di essere quasi a fine giornata, l'ansia e la paura ci assalirono insieme.
Ritti in piedi, l'uno davanti all'altra, io con le braccia sulle sue spalle, lui sui miei fianchi, non esisteva più niente che non fossero i nostri respiri fusi tra loro.
Mi lanciai.
Lo afferrai per il viso e non esitai a baciarlo.
Le sue labbra erano confortanti e mielate, sapevano di tutte le cose più dolci e splendide di questo globo, la loro morbidezza mi cullò con la massima cura, mentre Jimin prendeva le redini di questo gioco d'azzardo.
Entrambi non eravamo timidi.
Se volevamo un primo bacio, lo volevamo fatto bene.
I nostri corpi si scontrarono come calamite, ero fusa in una simbiosi d'amore con quel giovane idilliaco. Lui mi stringeva tenace e forte, non voleva che mi allontanassi nemmeno di un millimetro.
Ero sua, e solo sua.
Mosse le sue labbra carnose e perfette in un connubio di eccitazione e dolcezza, prima mordicchiava un labbro, poi lo succhiava, rilasciandolo con un pop sonoro. Infine, avvertii la sua lingua bollente leccarmi le labbra peccaminosa, rese quella carne più umida e scivolosa, ma era solo per farmi abituare e, soprattutto, per infiltrarsi scaltra.
Quando incontrò la sua gemella criminale, tutto divenne più focoso.
Le nostre lingue danzavano, strusciavano l'una sull'altra in una danza proibita di attrazione e foga. Combattevano all'ultimo sangue una lotta su chi primeggiava sull'altra.
Fu il primo bacio migliore di sempre.
Nettamente superiore a tutti gli altri dati ad altri ragazzi. Ma forse perché per Jimin provavo davvero sentimenti forti e potenti.
Fu così che ci fidanzammo.
La notizia suscitò un clamore entusiasta da tutta la famiglia Kwon, pure da mio padre, che stravedeva per Jimin.
Nonna Yun insistette per festeggiare tutto con un suntuoso banchetto.
Mai visto tanto cibo in vita mia, i piatti continuavano a moltiplicarsi, secondi con contorno di primi, dessert di ottanta tipi diversi, alcol a volontà e i chili che si assumevano solamente guardandole tante prelibatezze. Furono poche le occasioni in cui mi abbuffai tanto.
Temevo di rimetterci ogni minimo grammo della mia inesistente sanità mentale e vomitarla assieme a quella bestia che avevo ingerito.
Fui lieta di non rigettare niente.
Quella sera Jimin restò fino a tardi, rimanemmo a coccolarci sul letto di camera mia, l'uno abbracciato all'altra, mi stringeva con una dolcezza senza eguali.
Così trascorremmo il primo mese senza alcun ostacolo, si intervallavano uscite più o meno romantiche a serate rinchiusi in casa a guardare un anime, un film o giocare a qualche videogioco.
Rimase a dormire da me un paio di notti, il suo corpo era caldo e accogliente, mi stringeva per paura che potessi abbandonarlo durante il sonno. Il risveglio era sempre la parte migliore, Jimin aveva il sonno più leggero del mio e spesso si destava per ogni rumore, entrambe le volte, mi svegliai con le sue labbra sulle mie, o con dolci carezze di miele.
Ben presto, però, arrivò anche il momento che più mi spaventava: la cena con i suoi genitori.
Non li avevo mai visti e Jimin non parlava spesso della sua famiglia, non che avesse qualche problema, solo non ci pensava.
Però conoscevo sua madre per fama: l'avvocatessa Park aveva risolto casi difficili e ingarbugliati, troneggiando come una regina sui tribunali.
Per questa ragione, ero spaventata.
Se non le fossi piaciuta?
Ero una sempliciotta, che non aveva intenzione di andare all'università per lavorare in una misera pasticceria, mentre lei dava – come Jimin un paio di volte aveva accennato – un'enorme peso all'istruzione.
Anche economicamente, la mia famiglia era inferiore.
Quella donna non aveva alcun motivo per accettarmi come fidanzata del suo unico figlio.
Appena Jimin mi propose quest'idea, o obbligo dei suoi – dovevo ancora decifrare – iniziai ad andare in ansia. Feci ogni cosa immaginabile per distrarmi, tutta quella settimana, infatti, la passai a scuola la mattina e il pomeriggio a lavorare in pasticceria.
L'organizzazione che serviva per prepararmi tutti i compiti e studiare prima delle quattro, per poi scendere all'Akai Ito fu sufficiente a staccare la mente fino al momento prestabilito.
Mi divertii a ripetere storia a Nonna Yun mentre servivo alcuni dei clienti più abituali.
Vidi Jimin solo un pomeriggio, lo passò a calmarmi e spiegare matematica, materia che non mi andava molto a genio.
Mi ricordo perfettamente del lungo e passionale bacio che mi diede quando dovette andarsene, passammo almeno dieci minuti abbracciati stretti stretti, mi ripeté che non dovevo preoccuparmi e tante altre cose belle. Ma sapeva meglio di me che non avrei dissipato le mie ansie tanto facilmente.
Il fatidico giorno arrivò troppo puntuale, dovetti ammetterlo, Mamma e Nonna Yun passarono ore ad acconciarmi nella maniera migliore possibile. Mamma si svegliò molto presto per organizzare tutta la giornata e, alle sei del pomeriggio, venire a scegliere l'abito perfetto e farmi i boccoli.
Indossai un vestito molto sobrio e semplice: la gonna cadeva morbida sul ginocchio, gonfiandosi in tutti gli strati di velluto nero mentre sul busto presentava un corpetto rosso dalle maniche lunghe. La scollatura non era eccessiva, ma si apriva soave sulla stoffa.
«Mettile quella cosa laggiù!» gridava Nonna Yun, seduta sul letto di camera mia, era una donnina talmente piccola che non toccava terra.
«Quale cosa?» rispondeva Mamma con la testa altrove, intente ad applicare nel miglior modo possibile il trucco.
Nonna Yun sbracciò verso un angolo della scrivania, adesso cosparsa di accessori e pennellini, «Quella cosa vicino al coso, quella sfavillante nella scatola azzurra».
Guardai bene le confezioni di cosmetici e individuai l’oggetto d’interesse, «L’ombretto dorato, Mamy» tradussi.
Mamma ragionò con le sopracciglia corrugate, poi annuì, «Sì, ci sta bene» e me lo mise.
A fine sessione, diedi un abbraccio a entrambe, prima di andare incontro a Jimin, che era arrivato sotto la pasticceria in macchina.
Il viaggio fu tranquillo, non smetteva di farmi i complimenti e provare a mettermi a mio agio, mentre si spostava sempre più verso una delle zone più altolocate di Busan, la nostra città natia.
Quando arrivammo ai piedi del suo condominio, compresi di essere davanti allo sfarzo fatto quartiere. Cercai di non pensare a niente, mentre entravamo né nell’ascensore. Ma lì, in un momento di privacy, Jimin intervenne con una dolce sessione di baci. «Calma, amore mio, non preoccuparti» mormorava tra un bacio a stampo e l’altro.
Annuii come una scema tutto il tempo, ma più la porta di casa sua si avvicinava, più il mio cuore batteva forte. Jimin aprì e un tepore confortante mi accolse.
Inutile dirvi quanto era mastodontica casa Park, solo il salotto poteva superare le dimensioni della pasticceria senza problemi e i mobili in stile moderno non aiutavano a passar sopra al lusso sfrenato.
I genitori di Jimin mi accolsero con inchini cortesi. Suo padre aveva un sorriso simpatico, mi mise subito a mio agio, mentre la madre, misteriosamente, dopo una prima analisi, mostrò un’accoglienza impeccabile. Non storsero la bocca nemmeno scoprendo che non volessi proseguire gli studi, anzi, fecero numerose domande sulla pasticceria e accettarono volentieri di dolci che portavo in regalo.
«Era super agitata» svelò Jimin di punto in bianco, quando ormai avevo iniziato a familiarizzare il necessario, «Aveva paura di incontrarvi» rise allegro, stringendomi la mano da sotto il tavolo.
La signora Park ricambiò con lo stesso sorriso amorevole del figlio, «Cosa sentono le mie orecchie, oddio» scherzò, «Penso sia la prima che teme davvero il nostro giudizio».
Il marito concordò immediatamente, «È l’unica che approvo al cento per cento, Jimin, tutte le altre le potevi lasciare al canile dove le hai trovate».
Sorrisi anch’io con felicità, sentendo quelle parole, mentre Jimin continuava ad accarezzarmi il dorso della mano col pollice, «Non si ripeterà più» affermò, lo sguardo perso nei miei occhi e una sincerità mostruosa in viso, «Non ne arriverà una nuova, lei sarà l’unica».
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Qualche misera settimana dopo quella cena, arrivò il compleanno di Jimin. Trovargli un regalo che lo soddisfacesse fu un’impresa ardua: avere un ragazzo messo bene economicamente garantiva pochi sbocchi e idee. Appena pensavo a un oggetto perfetto per lui, provavo a tastare il terreno, magari con qualche domanda o allusione sussurrata, e mi si chiudevano molte più porte in faccia di quante ne avessi aperte.
Pensavo di impazzire.
Finché non giunse l’occasione perfetta.
Jimin non guardava molti anime, preferiva seguire quelle cinque o sei serie e, se proprio doveva, iniziarne una occasionalmente. Normalmente non impazziva né aveva grandi pretese, ma vi era una sola eccezione: il suo amore sfrenato per Gintama. Primo anime in assoluto e ben presto diventato una religione.
Il mio tenero ragazzo non faceva che assillarmi da una settimana riguardo a un’action figure che aveva visto navigando casualmente su internet. Non eravamo ancora andati a cena dai suoi, perciò pensai bene di anticiparmi col suo regalo e comprargliela.
Ecco, diciamo che sono felice di averla vista senza Nonna Yun vicino.
Quella maledetta statuina di Gintoki – il protagonista – in motorino aveva un prezzo esorbitante di oltre centosessanta mila won. Mi cadde la mascella per terra.
Il mio intestino si attorcigliò con lo stomaco in un nodo strettissimo, che pesava come un macigno. Peccato che fossi enormemente testarda, esattamente come quella stellina con cui ero felicemente fidanzata, e per lui provavo qualcosa di inspiegabile a parole. Al di là del prezzo, sapevo di renderlo felice con quel regalo, e per me la sua felicità valeva l’infinito.
Così proposi alla mia famiglia di lasciarmi cucinare dolcetti e biscottini da vendere confezionati, avevo un mese di tempo per racimolare quella cifra. Mi misi d’impegno, così tanto che la sera mi bruciavano le mani per le troppe teglie che infornavo e i muscoli fremevano stremati. Mai pensato che fare tanti biscotti fosse così faticoso, ma a metà settembre il caldo non era ancora scemato e in cucina mi sembrava bollire.
Quando verso i primi d’ottobre andammo a casa Park, portai un sacchettino ai genitori di Jimin, come regalo per l’ospitalità che offrivano – e anche per sperare di farmi amare di più col cibo.
In quel periodo, pure Nonna Yun mi compativa, restava fino a notte tarda a cucire qualcosa con i suoi amati gomitoli rossi e, quando provavo a curiosare, mi scacciava sempre via con imprecazioni e parole indignate.
Riuscii a guadagnare abbastanza, sia perché facevo pena ai clienti abituali, che mi vedevano faticare allo stremo delle forze per cause superiori, sia perché i miei biscotti erano deliziosi, e ve lo sto dicendo con tutto l’egocentrismo che ho. Dopo il mio impegno, mi merito i complimenti.
Ovviamente mi prendevo delle pause quando quella peste veniva in negozio, lasciando vendere a Mamma i dolcetti.
Quando lo rivedevo, ogni suo sorriso alimentava la foga con cui mi impegnavo, motivandomi al massimo delle mie abilità. Ero dipendente da quel ragazzo, dai suoi baci e dalla sua gentilezza.
Adorai portarlo con me in cucina, un pomeriggio, e metterlo alla prova con la preparazione di semplici muffin. «Giù le mani dal cioccolato» lo ammonii così tante volte, che ormai quella frase la pronunciavo anche se stava facendo il bravo. In quei casi si offendeva come un bambino, non rivoltendomi la parola per i successivi cinque minuti. Poi si vendicava, usando le sue tenere manine per scoccare schiaffi lievi sul mio sedere.
Quella volta, però, fu colto in fragrante con il dito in bocca e assunse un broncio tenero e triste. «Ma è buono».
«Lo so, fatina mia, ma se finisci tutti gli ingredienti prima di cucinarli avremo un grave problema» gli camminai incontro con la falange sporca di zucchero a velo, gli colorai di bianco quel carinissimo nasino che aveva, sorridendo incantata quando lo arricciò.
Approfittando della vicinanza, Jimin mi afferrò per i fianchi e mi tirò a sé, «Tanto prima o dopo dovremmo
mangiarli, Siyul» affermò convinto, azzerando ogni distanza con un bacio.
Non appena le sue labbra sfiorarono le mie, mi sciolsi tra le sue mani, persi quasi l’equilibrio dall’emozione che scaturivano quei boccioli, si muovevano agili e decisi, al punto che, anche avendo avuto più relazioni in passato, faticavo a stargli dietro.
Ogni centimetro di pelle andava a fuoco più che passava il tempo e quel bacio si faceva intenso.
Quando si staccò, un suono gutturale segnò il piacere provato da entrambe le parti.
Ancora non completamente abituata ad avere una tale delizia terrestre come partner, ripresi a miscelare l’impasto, con un maligno ometto che trotterellava di ciotola in ciotola e assaggiava qualunque cosa fosse commestibile.
«Come procede l’università?»
Jimin quella primavera si era iscritto all’università di Kosin, nel ramo di scienze umane e sociali, per il momento si era trovato molto bene e non mancava di mostrare le abilità da perfetto studente che trascinava dalle superiori.
Alzò lo sguardo con tranquillità, «Bene» affermò, «Sto adorando il corso di psicologia» gongolò felice, «Non vedo l’ora di diventare psicologo».
Quel sogno che coltivava con tanta dedizione gli brillava dritto negli occhi, illuminando con tanta passione quella strada che voleva tanto intraprendere fin da bambino. «Mamma conosce un tale, non so chi sia di preciso, ma è un noto strizzacervelli, se riesce ad avere abbastanza agganci, forse andrò a lavorare per qualche tempo con lui» l’entusiasmo che mostrava era palpabile, mi sorrise con un’intensità prorompente, che fece crollare ogni sostegno che reggeva le mie ginocchia.
Jimin mi aveva sempre affascinata per questa sua capacità di non demordere mai, riusciva ad andare avanti a testa alta anche davanti alla più grande delle difficoltà. Non era uno che si disperava o piangeva addosso, quando c’erano dei problemi li affrontava senza tentennare.
Era inoltre noto per riuscire sempre a inventarsi qualcosa anche là dove non esistevano soluzioni.
Molte volte mi aveva aiutata a non crollare a causa dello stress, sia quando non eravamo fidanzati, sia dopo, sapeva come farmi dimenticare tutto e distrarmi anche là dove non vi erano rimedi.
Questa sua perseveranza mi insegnò molto, la adottai come principio cardine in occasioni di disperazione pura.
In particolare, la prima volta fu proprio per il suo compleanno. Il mio impegno venne ripagato e riuscii a fargli quel regalo che tanto desiderava. E forse anche qualcosa di più.
Come accadeva sempre ormai, Jimin venne a prendermi, passò rapido, non riuscendo a entrare a far un saluto, ma, come disse, era estremamente tardi. C’eravamo accordati per passare la sera insieme, l’intero giorno, infatti, l'aveva trascorso con la famiglia e aveva barattato per un po’ di intimità la sera.
Mi dimenticavo di precisare che anche dal lato persuasivo Jimin fosse messo molto bene.
In ogni caso, entrai in macchina in fretta, fuori si congelava e, appena vidi il mio dolce ragazzo, gli gettai braccia al collo, avviando uno di quei baci bagnati e bisognosi.
Il modo in cui le nostre lingue lottano con brutalità sorprese pure me, come mi sorprese la sensibilità immane che portò il giovane a gemere quando gli morsi il labbro.
Dicendo addio a quel poco di lucidalabbra che avevo messo, Jimin mise in moto e partimmo.
Come immaginai, casa sua era immersa nel silenzio, non volava una mosca né si sentiva il più piccolo e lieve rumore.
Quando si chiuse la porta alle spalle, avvertii le sue mani unirsi attorno al mio corpo, in un caldo abbraccio da dietro.
Posai la testa sul suo petto e mi godetti quell’amorevolezza che emanava da ogni piccolo poro del suo corpo. Cosparse la mia guancia di baci rapidi, finché non gli afferrai la mascella col la mano e unii le nostre bocche in un profondo gesto di passione. Dopo neanche un secondo, le nostre lingue si scontrarono ancora, presi l’iniziativa io, avviando un bagnato contatto nella sua bocca. Lo esplorai con minuziosità, giocando con il suo muscolo e stringendo la presa sui suoi capelli castani.
Gemette quando gli risucchiai il labbro inferiore, mordendoglielo con leggerezza, sfogò questo piacere stritolando i miei fianchi.
Ancora con le nostre bocche affamate a divorarsi, mi fece voltare e ne approfittai per cingergli il collo con le braccia e avvicinarlo sempre più.
Si staccò col fiatone, io con lui.
Ci osservavamo persi l’uno nell’altra, i nostri fiati si mischiavano, i nostri occhi si desideravano.
Mi avvicinai per dargli un altro bacio, questa volta a stampo.
Sorrise.
E io mi sciolsi, sentendo le sue labbra piegarsi felici.
«Sono giorni che provo a convincere i miei a lasciarci soli» sussurrò, la fronte contro la mia e le mani in un curioso viaggio esplorativo sotto il mio maglioncino.
«Hai fatto bene» commentai. «Ci hai guadagnato».
«Pure mia madre a farmi fare da servo fino a ieri» scherzò, stringendomi più a sé.
Ci staccammo con lentezza e afferrai la busta col suo regalo mentre lui mi conduceva verso camera sua. Si sedette sul suo matrimoniale, togliendosi la giacca e rimanendo in maglietta, io mi sistemai di fianco, passandogli la confezione incartata.
Rammento perfettamente la sua espressione stralunata, non appena mise mano sul regalo effettivo.
Era attonito e a stento vi credeva.
Giurai anche di aver visto una sottilissima lacrima solcargli la guancia, mentre gli raccontavo di come lo avevo ottenuto.
Mi abbracciò con forza, stringendomi al suo corpo magro e allenato, ma continuando imperterrito a darmi tanti piccoli bacetti qua e là.
«Dio, sei fantastica» sussurrò con voce strozzata e ansimante, era salito a cavalcioni del mio corpo, e continuava a divorarmi le labbra, «Ti amo, ti amo, ti amo» ripeté cento volte, all’infinto.
Come un orologio rotto.
Quella serata fu magica, un connubio di emozioni una dietro l’altra. Ci lasciammo trasportare dalla dolcezza del momento, l’aria diveniva via via sempre più carica e frizzante.
Finché non caddero i primi indumenti e la pelle di entrambi venne colorata da morsi e succhiotti.
Ma non ci fermammo lì.
Non era la prima volta per nessuno dei due, però era la prima a essere tanto speciale.
I nostri corpi si unirono con un’intensità meccanica, collidendo in una nuvola di affetto e amore. Jimin fu dolce e allo stesso tempo sicuro, si muoveva con ritmi regolari e profondi, godendosi miei gemiti privi di filtro. Nemmeno lui però si trattenne, quando era vicino al culmine, infilò la testa nell’incavo del mio collo, mugolando estasiato e con voce roca.
I baci che scoccarono furono un qualcosa di indecente, umidi e rudi. Vi era una lotta eterna a chi voleva comandare sull’altro mordendo e succhiando. Avevo il suo sapore per tutta la bocca, la nostra saliva si era fusa in una sola, esattamente come i nostri corpi.
Mi fece raggiungere uno dei migliori orgasmi di sempre, ma non tanto perché il sesso fatto fosse spettacolare, quell’aspetto certamente influiva: il piacere fisico fu immenso, ma principalmente perché i nostri cuori battevano sulla stessa lunghezza d’onda.
Lo amavo e lui amava me. Il ricordo del suo petto sudato e liscio è ancora impresso nella mia mente, la sua intera figura stremata e col fiato corto, stesa di schiena sul materasso, valeva miliardi.
Dormimmo abbracciati fino alla mattina dopo. Inutile sottolineare le occhiate che seguirono da parte della sua famiglia e dalla mia, quando mi riportò all’Akai Ito. Ma per come era andato tutto, andava benissimo.
In pasticceria, cogliemmo l’occasione per mangiare qualcosa al nostro solito tavolo infondo al negozio. «Nonna Yun?» domandai a mia madre, intenta a pulire il pavimento.
Lei scrollò le spalle, «Ieri è andata a letto tardi, probabilmente starà dormento».
«Avremmo potuto riposare un po’ di più pure noi» affermò Jimin, mollandomi uno sguardo stanco e accattivante allo stesso tempo. Quella notte non avevamo oziato così tanto, effettivamente. Era già molto tardi quando ci concedemmo un po’ di riposo.
Gli preparai una dose doppia di cappuccino per farmi perdonare di averlo svegliato tanto presto, ma ormai il mio orologio interno aveva un fuso distorto. Come contorno, aggiunsi anche una manciata di cioccolatini in più.
Verso le nove, quando ormai Jimin aveva terminato tutti gli assaggi aromatizzati di diversi tipi di cioccolata, Nonna Yun scese piano e arrivò in pasticceria. Pareva arzilla come sempre, ovviamente limitata dalla sua età. Accompagnata dal suo bastone preferito, l’arma perfetta contro alcuni clienti, venne a salutarci.
In particolare, ignorò palesemente me e coccolò quel patatino che avevo come fidanzato, palesemente preferendo lui alla sua unica nipote. «Auguri, piattola!» esclamò contenta, poi si mise una mano nella tasca del maglione e tirò fuori un pacchettino.
Jimin lo afferrò con curiosità, tastandone prima la consistenza e poi aprendo delicatamente tutto. Aveva la lingua tra le labbra e la curiosità ben presente in volto.
Una volta infilate due dita nella confezione, tirò fuori un braccialetto. Ma non era il classico dono che si faceva quando si era allo stremo delle idee, placcando il primo venditore e contrattando per fare il prezzo più basso. Quel bracciale era enormemente curato.
La fantasia floreale era strana, emergevano – su uno sfondo di una tonalità più scura – dei petali allungati e dei pistilli sottili. Tutto era cucito. Cucito con un filo rosso di diverse sfumature. I fiori si intrecciavano gli uni con gli altri, in una spessa e curata treccia di petali e foglie verdi. Aveva un laccio dorato per legarlo al polso e qualche filamento più scintillante decorava anche l’intreccio cremisi.
Sgranai gli occhi, «Nonna-» quasi mi morirono le parole in gola quando questa posò un altro pacchettino sul tavolo. Conteneva lo stesso bracciale.
«Ne ho fatto uno uguale anche per te, piccola peste» sorrise fiera.
Jimin sollevò il capo, aveva provato per interi minuti a riconoscere il fiore, ma sapevo che la botanica non era il suo forte.
Così Nonna Yun fece un sospiro e parlò: «Lycoris radiata» disse solenne, «Il giglio del ragno rosso».
Mi venne immediatamente in mente un brutto presagio: quei fiori erano spesso associati alla morte, sia perché erano velenosi sia per il loro colore rosso, anch’esso non molto promettente. Sbocciavano vicino ai cimiteri, delle leggende dicono che germoglieranno quando si incontrerà qualcuno per l’ultima volta.
Li guardai con immensa tristezza.
«Nonna-» la voce si strozzò, «Tu non-».
Mi arrivò un manrovescio col bastone dritto sulla nuca, «Tradizioni schifose» sibilò, «Fanno credere a gente sciocca cose ancora più sciocche» poi parlò con più tranquillità, «Non sto morendo, né ho intenzione di farlo tanto presto, ma indubbiamente capiterà» la serenità con cui lo diceva mi fece rabbrividire, «Voglio solo insegnarvi a non credere sempre nelle leggende, spesso andare contro corrente fa bene» indicò con le sue dita corte, ma abili, il braccialetto, «Tuo nonno amava questi fiori, io con lui, e così voglio che anche voi dimentichiate questo pregiudizio maligno». Guardò entrambi negli occhi, i suoi luccicavano, «Voglio che diventi il vostro fiore, proprio come lo è stato per me. Un simbolo che vi aiuterà anche quando perderete ogni speranza, vi aiuterà perché sarete ricongiunti e insieme non vi abbatterà niente».
Non resistetti dall’abbracciarla con tutto l’amore che avevo e che potevo darle. Non riuscii a trattenere le lacrime e, tra le sue braccia e quelle di Jimin diedi inizio a un pianto miserabile.
Nonna Yun rise, dandomi uno schiaffetto sulla guancia, «Ma guardati, frignona e sciocca» scosse il capo con disappunto, «Ma chi ti sei preso, eh?» si rivolse verso Jimin, che sorrise anche lui con gli occhi lucidi. «Ah, confido in te per rimetterla un po’ in sesto questa bambinetta» e con un altro sorriso, se ne andò a ficcare il naso negli affari di Papà.
Affondai il viso nel petto di Jimin, cercando di soffocare quanti più suoni disperati possibili.
Nonna Yun fu la prima a credere in noi e forse colei che ci salvò.
Le dobbiamo la vita.
A lei e quel suo amato fiore.
Il nostro simbolo.
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_ShiroYasha___
IG: _vbtshiroyasha___
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