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Illusioni

Parcheggiò, tirando il freno a mano e togliendo le chiavi, adagiandosi poi contro lo schienale a guardare gli alberi nel giardino a fianco, con calma e ansia al tempo stesso. Il fatto che fosse andato via in quel modo lo lasciava pentito e con un senso di ingiustizia nell'anima; però, ora lì, da solo, stava più tranquillo: non poteva fare catastrofi, o spezzare cuori se non c'era nessuno. Fece una smorfia, giocherellando con le chiavi; muovendole come onde tra le dita, e mugugnando, non sapendo se fosse stato leale scappare via in quel modo, ma lo aveva fatto per il bene di entrambi..., cercò di convincersi. Doveva tornare indietro. Sì, doveva tornare e cercare di chiarire, o forse no e restare zitto. O meglio, poteva ugualmente lasciare stare, e, se Marco sarebbe passato durante le sue ore di lavoro, poteva anche... Non lo sapeva, ed era stanco di pensare, così decise di smetterla, smise di riflettere e lasciò al silenzio di divenire l'unico sovrano. Per poco tempo:

-Ace!-

Si voltò di scatto, imprecando di dolore, e guardando sorpreso l'artefice di quell'urlo che, attraversando il finestrino, lasciato impunemente aperto, gli aveva, forse perforato un timpano. E guardò il suo fratellino che, emozionato, saltellava sul posto con il suo meraviglioso sorriso.

-Ciao Luffy, che ci fai qui?-

-Stavo tornando a casa.- esclamò. -Non mi aspettavo di trovarti qui! E poi, non sei nemmeno venuto al Baratie...- fece una smorfia, offeso; con l'entusiasmo che svanì nel pronunciare l'ultima frase.

-Eh, perdonami. Il tempo è volato.- si giustificò, prolungando, di molto, la prima vocale, e grattandosi il capo nervoso mentre decise di uscire dalla macchinuccia, anche per sgranchirsi un po'.

-Oh! Ora che ci penso, Ace: volevo chiederti una cosa, posso?- domandò il minore, correndo poi verso la panchina dopo aver ricevuto dal maggiore un cenno affermativo, e aspettandolo con il suo immenso sorriso, a gambe conserte su quegli strati di legno, che, a vista, sembravano abbastanza scomodi.

Chiuse la portiera, camminando sul marciapiede e poi sul prato immenso; ascoltando il frusciare dell'erba e la sua freschezza nel passarci sopra, prima di finire seduto accanto al minore, adagiandosi contro lo schienale con un po' più di accuratezza; il fatto è che il legno duro e spinoso danneggiavano le sue, già di per sé guaste, cicatrice; e faceva male oltre che fastidio appoggiarsi su un piano così rigido, al contrario del sedile della sua auto, per quanto vecchia fosse, almeno in quel poco sapeva essere confortevole. Cercò comunque, di trattenere una smorfia ed un gracchiare dolorante, o di non strizzare leggermente una palpebra per il fastidio; restando però, sempre lievemente sorpreso che il suo fratellino volesse chiedergli qualcosa: dalla scintilla che pronunciavano i suoi occhi pareva qualcosa di serio, anche dal senso di decisione che mostrava dal volto, nonostante l'allegria; e lui non se lo aspettava: sperò che andasse tutto bene.

-Di cosa vuoi parlarmi?- costrinse la sua bocca a sorridere, e il suo volto a rilassarsi, ma la sofferenza era forte, e iniziava a sentirsi sudato. Non era nulla di buono, forse aveva preso un colpo di freddo, o le cicatrici si erano infettate... non voleva pensarci. No, impossibile; tornò a riflettere, illuminandosi di speranza: Chopper lo aveva medicato bene quei giorni addietro.

-Ecco, è una cosa sul liceo.- iniziò a dire, tranquillo mentre osservava davanti a sé, come se indeciso se voltarsi per avere un confronto di sguardi, ma questo aiutò Ace a non essere scoperto mentre cercava di resistere, stringendo i denti e dando un cenno di assenso al minore che tornò a parlare, come se lo avesse intravisto fare quel gesto, anche se non era così.

-Ho deciso che non voglio più andarci: sento che non fa per me. E poi, odio studiare: è snervante, e lo trovo troppo noioso. Io ho voglia di avventure!- esclamò, alzando le braccia al cielo, contento, e ridacchiando.

-Non dire cavolate.- brontolò il maggiore, serio; con un tono cupo e infastidito, ma forse era più dettato dal dolore che iniziava ad aumentare e a bruciare, sulle costole. -Non puoi fermarti adesso: sei al terzo anno.-

-Ma tanto non ho voglia nemmeno di andare all'università. Avanti, Ace. Capiscimi. Anche tu volevi lasciare prima di diplomarti...- mugugnò con una smorfia.

-Appunto, prima di diplomarmi. Ma adesso sono diplomato. Ascoltami Luffy, voglio solo il meglio per te, e la mamma desiderava tanto lo stesso, non puoi deluderla così.-

-Ma io non voglio deluderla! La renderò fiera, ma facendo quello che amo.- scattò il minore, peccato che Ace fosse troppo disconnesso e stanco per capire quanta emozione e decisione ci mettesse nelle sue parole.

-Smettila.- mormorò, portandosi una mano alla tempia e sospirando. -Farai come ti dico, basta.-

-Ma non è giusto! Io non voglio fare questo!- esclamò, senza smettere un attimo di urlare, dando solo più fastidio al maggiore che sentiva la testa pulsare e infiammarsi, quasi prendere fuoco mentre, i pochi passanti che transitavano in quel momento, di lì, li osservavano curiosi e disturbati da quei lamenti, decidendo saggiamente di affrettarsi per allontanarsi.

-Ho detto basta!- urlò Ace, facendo sobbalzare alcuni, intanto che guardava il minore con fare funesto ed esasperato, colto al limite della sopportazione; oppresso da tutto, ma se ne pentì subito dopo, sgranando gli occhi colpevole, e abbassando il capo dispiaciuto.

-Scusa, ma ho detto no, la decisione rimane.-

-Se ci tieni così tanto, laureati tu; il diploma c'è l'hai, no?- ruggì il minore, alzandosi in piedi; offeso e stringendo i pugni, fremendo di rabbia. -Non ho voglia di fare come te e chinare il capo ad ogni avversità: subendola e basta!-

-Stai zitto, zitto... Non parlarmi in questo modo!- scattò il maggiore, con una smorfia che si propagò nell'alzarsi e udire la pelle estendersi, quasi come a rompersi e sgretolarsi, che lo fece quasi cedere ed urlare. Le gambe tremolarono ma si impose di non cadere, guardando il fratello che gli dava le spalle, in quel momento.

-Io lavoro, e se lo faccio è solo per te: per farti andare avanti, per farti essere felice. Lo capisci questo?-

-Non lo capisci tu quello che voglio! E poi, chi te lo ha chiesto? Non mi sembra di averti domandato aiuto. Smettila di lavorare, tanto non ci vado più a scuola!-

-Tu ci vai, e poi, i soldi mi servono anche per mangiare, per pagare il mutuo, le bollette. Pensi davvero che sia così facile crescere? Beh, ti sbagli!-

-E allora smettila di essere grande! Tanto io non voglio essere un grande così, voglio essere me stesso!- asserì.

-Sta zitto, tu andrai a scuola. E non provare a ribattere.-

-Io posso fare quello che voglio: il corpo è mio, la libertà è mia, la vita è la mia. Se tu vuoi rovinare la tua, beh, mi dispiace, ma non posso farci niente. Lo hai deciso tu, come hai deciso tutto; ed è sempre per colpa tua se continuiamo a vivere in questo modo! Basterebbe così poco fare le valigie e andare a vivere lontano da quella casa, da quell'essere spregevole, ma tu no, non vuoi fare mai nulla! Ed io sono stanco di vivere lì, in questo modo; e soprattutto, sono stanco che, per colpa tua non posso mai fare nulla di mia iniziativa!- si sfogò con tutto il fiato che aveva in corpo, affermando e dicendo ogni pensiero che si teneva dentro da tanto, troppo tempo; e si sentì meglio, ma anche peggio nell'aver scatenato quel putiferio, in quel modo, e con quella persona in particolare, così importante. Lui voleva bene a suo fratello, trattarlo in quel modo lo fece sentire morto dentro, e ingiusto, ma non ci aveva riflettuto a lungo: aveva buttato giù quelle parole dettato dalla forza della rabbia e dal rancore, ed ora si sentiva svuotato e felice, con il cuore che batteva all'impazzata come soddisfatto e felice; e il maggiore sembrò pronto a ricambiare per gli stessi, o quasi; motivi.

-Non puoi fare nulla di tua iniziativa? Ma se fai sempre quello che vuoi! Esci quando vuoi, stai con i tuoi amici quando vuoi, mangi a scrocco quando vuoi; a mala pena ti fai un letto! Non sei responsabile, per questo mi prendo anche le tue di responsabilità! Sistemo la casa, ti pago il liceo, ti compro i vestiti, i libri per la scuola; faccio tutto per te! E se te ne vuoi tanto andare, vai! Non te lo impedisco di certo io, mio caro!- ruggì, pensando che, in fondo, sarebbe stata la cosa migliore per entrambi.

Cercò di ricomporsi, drizzando la schiena, orgoglioso; per sembrare forte; e guardò il minore che lo osservò come a dire "Non era questo quello che intendevo, e lo sai bene", prima di vederlo irrigidirsi e bloccarsi di colpo, sgranando gli occhi come a non aspettarsi le ultime parole appena udite; boccheggiando, non sapendo cosa dire. Non pensava che le cose sarebbero degenerate fino a tanto; avevano esagerato. Aveva esagerato... ed ora? Lui non voleva abbandonare il suo fratellone.

-Ace, aspetta...-

-Vattene, lasciami in pace! E se resti dell'idea di non voler vivere a casa con quello vedi di cercati un altro posto per dormire!- scattò lui invece, voltandosi e recandosi in fretta, con passo funesto, all'interno dell'auto, sbattendo la portiera e mettendo in moto il più velocemente possibile; ma solo dopo aver udito il "Fa come ti pare!", irruente di Luffy che si voltò e corse via, dalla parte opposta alla sua.

Lo lasciò fare, sperando di non vederlo più; non volendo fargli rivivere ancora quelle atrocità che gli toccava sopportare ogni sera; e sfrecciò verso casa, scattante come non mai, quasi a volersi schiantare contro il primo ostacolo; ma era così adirato e confuso da non riuscire ad identificare ugualmente la strade: la vista era troppo sfocata, forse da delle lacrime invisibili che non si era nemmeno accorto di versare. Riusciva ad andare su quella via senza causare danni solo perché era un gesto così normale e quotidiano: la percorreva sempre che la mente lo portò a destinazione senza problemi. Parcheggiò in tutta fretta, ripetendosi in testa che andava bene, che se Luffy non tornava a casa sarebbe stato felice, e che loro 'padre' non avrebbe nemmeno notato la sua assenza. Tutto bene quindi, continuò ad imprimersi dentro di sé, per rassicurare il suo cuore che fremeva e palpitava, togliendogli il respiro e rendendolo, inconsciamente, impossibilitato di accettare l'aria nei polmoni, ascoltando, nelle vene, il desiderio di morire per quello che aveva osato commettere: però, così lo avrebbe protetto al meglio.

Socchiuse gli occhi, abbassando le spalle e fremendo con i denti prima di adagiarsi, con la testa, contro lo schienale dopo aver tolto le chiavi dalla macchina e impostato il freno a mano in quel parcheggio in pendenza che era il viale della sua casa. Si fece forza, e con difficoltà lasciò quel comodo giaciglio caldo, alzandosi e chiudendosi la portiera alle spalle con la schiena che protestava ad ogni suo movimento. Era troppo stanco: decise di dormire un po'; così entrò in casa, strascinandosi e guardando per terra dopo aver aperto la porta, ammirando per pochi secondi i raggi del sole che si proiettarono sul terreno, così luminosi e caldi sulla sua pelle, e che lasciavano anche sul terreno quel meraviglioso, piccolo ed essenziale spiraglio luminoso, decorando il contorno della sua ombra; ma poi sospirò, rintanandosi lì dopo aver varcato la soglia, per poi scivolare con il sedere a terra, guardando il corridoio, di nuovo buio e freddo di quella casa, dovuto al non avere più quel sole su di sé per via della porta chiusa. Rimase lì, senza niente, solo nel silenzio così bello e accogliente, caldo e forte...

-Ace, sei a casa?-

-C'è la macchina, immagino di sì.-

Ace alzò il capo, confuso, senza assimilare davvero quelle parole che suonarono così ovattate e lievi, da oltre la porta. Magari; credette, di essersele solamente immaginate, così le ignorò, tornando a chinare il capo, con il senso di gelo che partiva dal pavimento, passando dal fondoschiena fino alla spina dorsale, e poi giungendo al cervello, ammortizzandolo e assopendolo sempre di più. Peccato che il bussare alla porta lo lasciò scosso per l'ennesima volta; e, sbattendo le palpebre un paio di volte, sorpreso; non aspettandoselo, alzò gli occhi al soffitto scuro. Non poteva essere Luffy, si disse, anche se l'idea non gli dispiacque molto. Sbadigliò, strizzando un occhio e tirandosi su, lasciando che un brivido di gelo gli percorresse la pelle e il corpo in un'istante, lasciandolo fremere per pochi minuti, prima che si voltasse e afferrasse la maniglia, scompigliandosi i capelli con faccia assonnata, con l'altra mano.

-Luffy, sei già tornato? Pensavo che...- sbadigliò ancora, portandosi la mano davanti alla bocca, ma bloccandosi appena individuò bene le due persone davanti a lui. -Ciao...- mormorò cupo, chinando a terra le pupille che tremolarono di poco, chiedendosi poi perché fossero là.

-Cos'è? Dormivi di già?- ironizzò Thatch, allungando una mano per sfregare i capelli dell'altro, ma senza entrare.

-Ehm, stavo per addormentarmi in effetti.- mormorò. -Come mai siete qui?- decise di andare subito al punto, troppo esausto per dar retta ai sorrisi del castano, e alla faccia seria dell'altro che si pronunciò per primo:

-Volevo chiederti scusa.-

-Ah? Per cosa?- brontolò, sbadigliando ancora e iniziando a tenere gli occhi sempre più chiusi, guardandoli senza troppa attenzione, anche se, forse, farsi vedere così da Marco, a mente più lucida, lo avrebbe imbarazzato, e, probabilmente non gli avrebbe risposto in quel modo, dovuto più al sapore del sonno che lo stava, pian piano, conquistando.

-Non connetti, eh?- ridacchiò il ragazzo più alto tra i tre, continuando ad accarezzarlo giocoso.

-Per quello che stava accadendo alla mostra, ti chiedo scusa. Non avrei dovuto comportarmi così.-

-Oh... Okay, va bene.- mormorò piano, tornando a scrutare il pavimento sottostante, che lo divideva dai due grazie al gradino rialzato che portava all'entrata. Avrebbe voluto dare più ascolto e più peso a quelle parole, ma Thatch aveva ragione: non connetteva niente. Era stanco, voleva solo andare a dormire.

-Ci vediamo in questi giorni?- domandò il castano, piano, pensando che lasciarlo riposare sarebbe stata la scelta più giusta.

-Non lo so... Forse...- sbadigliò ancora, sempre coprendosi con la mano. -Forse avrò impegni... Però, nel caso, ci possiamo rivedere a lavoro lunedì.-

-Sì.- rispose pacato, Marco, studiando il moro con attenzione, accorgendosi di come, la mano sulla maniglia, tentennasse, in attesa che andassero via, mentre il pensiero di dover davvero lasciare quel luogo cresceva nella sua mente con poco entusiasmo, rendendolo non proprio felice di quella decisione: aveva stabilito di non volerlo perdere, ma in quel momento sentiva che, se si sarebbe voltato per tornare a casa, lo avrebbe perduto per sempre, si sarebbero divisi; e non poteva permetterlo.

-Non ci fai entrare?- chiese gentile, Thatch, non volendo interrompere lì la conversazione e in quel modo dopo aver notato lo sguardo impensierito dell'amico; sperando che, la poca lucidità del ragazzo lo avrebbe reso più accondiscende; visto come era posto sulla porta, quasi a difenderla da possibili attacchi nemici.

-Ohm... Entrare?- domandò, perennemente smarrito, alzando meglio lo sguardo per gettarlo su Thatch che aveva dietro il sole ad illuminare tutto il mondo. -Oh, no... Ecco, è un po' in disordine, meglio di no... Cioè...- gettò uno sguardo dentro, lasciando che il suo volto diventasse malinconico nel vedere tanto buio in un così piccolo spazio. Non sapeva se dovesse o no farli entrare, si vergognava un po'.

-Non importa, in tal caso ti diamo una mano.- esclamò il castano, davvero deciso a non demordere; al contrario di Marco che gli mandò un'occhiata come a dire: "Non tirare troppo la corda adesso."

-Se volete entrare...- mormorò poi, tornando a fissarli e spostandosi per dargli spazio e farli passare.

-Grazie.- sorrise Thatch, approfittando dell'invito e scompigliandogli un'ultima volta i capelli, entrando. -Certo che è buio.- constatò, ormai all'interno in quel corridoio, ma era anche per via del fatto che le uniche due finestre sulla parete fossero sigillate e chiuse.

-Ehm, mi dispiace.- mormorò, grattandosi il capo imbarazzato dopo che Marco oltrepassò la soglia, in modo che potesse chiudere la porta, osservando il biondo di sottecchi, puntando le pupille in alto ma con attenzione, inquadrando prima la sua spalla destra e poi il volto; con il medesimo ragazzo che aveva ricambiato lo sguardo prima di studiarsi intorno, commentando:

-Come mai tieni le tapparelle chiuse, se posso chiedere?-, guardando le scale che portavano sopra, così buie che iniziava a credere fosse notte.

-Ehm, ecco... Non è una mia iniziativa tenerle così. Ma prego, accomodatevi.- annuì portandoli in soggiorno, pulendo e togliendo lo strofinaccio dal divano alla svelta per fargli posto, e restando in piedi, davanti al bracciolo, e di fianco a loro che presero posto, nel suo, più completo imbarazzo.

-Questo posto è... carino.- commentò il castano, anche se stava per dire altro, ma la gomitata del biondo lo costrinse a replicare.

-No, non è vero.- sussurrò invece Ace, permettendo un attimo ai suoi occhi di farsi tenebrosi prima di ridestarsi. -Posso offrirvi qualcosa? Però non so se ho qualcosa...-

-Non sei abituato ad avere visite?-

-Beh, in realtà siete le prime persone a entrare in questa casa dopo mio fratello e i miei...-

-Uh, che onore!- esclamò Thatch, alzandosi in piedi a dandogli una pacca sulla spalla per esprimere la sua felicità. -Sentito Marco? Siamo i primi amici di Ace, e oltretutto siamo i primi a varcare la sua soglia di casa! E' una cosa memorabile!- affermò.

-Dai, non prendermi in giro...- mugugnò il moro, scrollandosi di dosso la mano sulla chioma e avviandosi verso la cucina per vedere se poteva offrire qualche spuntino ai due ragazzi.

-Non ti sto prendendo in giro, penso che sia veramente una cosa di memorabile. Tu non trovi, Ace?- rimase fermo, guardando la sua schiena coperta da un'altra camicia, gialla, prima di scomparire dietro l'angolo della cucina.

-Memorabile...- brontolò tra sé il moro, ripensandoci a fondo fino a sorridere, armeggiando dentro il tiretto sotto il davanzale e afferrando dei biscotti, peccato che fossero scaduti, così gli toccò buttarli.

-Non penso di avere niente da offrirvi, mi dispiace.- si voltò verso la porta parete, di carta o cartone; non ne conosceva il materiale, ma forse era più probabile la seconda opzione; però si bloccò nel ritrovarsi davanti, sulla soglia, la figura di Marco che lo scrutava a braccia conserte, magari fin dall'inizio.

-Non importa. Ma tu hai qualcosa che non sia scaduto, qui, da mangiare?- fece, con un volto pensieroso. -...Posso?- si avvicinò, ispezionando ogni tiretto e anche il piccolo frigorifero, constatando che qualcosa ci fosse.

-Sì, il cibo c'è ma non ti preoccupare... Lascia stare.- tentennò, volendo allontanarlo ma non voleva nemmeno avvicinarsi a lui, come se, nel toccarlo potesse succedere qualcosa di catastrofico, o di meraviglioso.

-Ehi, Ace. La tv non prende molto, anzi, solo un canale...- commentò Thatch, sistemandosi i capelli con il pettine dopo averli raggiunti. E visto che la cucina, già di per sé era piccola, iniziavano a stare stretti.

-Tanto non la guardo.- alzò le spalle incurante, il moro, tenendo però d'occhio l'altro che aveva, finalmente smesso di curiosare senza permesso. -Mi dispiace per questa complicazione.-

-No, non esagerare adesso: è solo una televisione.- ridacchiò il castano, appiattendosi in modo da lasciar uscire il biondo che si scompigliò i capelli con una mano, guardandosi attorno, studiando ogni cosa come per scoprire se fosse un luogo dove Ace poteva vivere al sicuro senza prendersi qualche malattia incurabile, con il proprietario in questione che preferì ignorarlo, o, almeno, ci provò; senza appurare il motivo di quel comportamento.

-Ace, cosa ne dici se un giorno di questi vieni a dormire da noi? E porti anche tuo fratello? Sarebbe bello, no?-

-Oh, non saprei Thatch. Magari sì.- si lasciò sfuggire l'ennesimo sbadiglio, con la tentazione di andare dietro a Marco come un cane che vuole raggiungere il suo padrone, ma si diede dello stupido e cambiò idea, cercando di rimanere con il suo contegno, rimpiangendo un po' il suo letto, con le urla di Luffy ancora nelle orecchie.

-Tutto okay?- domandò Marco, voltandosi a guardarlo.

-Sì, perché?- chiese curioso, indietreggiando di un passo, poi, nel vederlo avvicinarsi.

-Fammi vedere.-

-Eh?- scattò confuso e imbarazzato mentre Thatch divenne serio, forse capendo le intenzioni del biondo, che, arrivando davanti ad Ace iniziò ad aprirgli, piano la camicia, facendo sobbalzare il diretto interessato per quelle attenzioni, sorte senza un senso logico, almeno per la sua mente.

Il moro provò, immediatamente, a fermarlo, ma le mani di lui sembravano così decise e irremovibili, e in un attimo si ritrovò scoperto sul petto; trattenendo appena il fiato nel sentire quelle dita percorrere le bende che lo circondavano, che scorrevano su e giù, che lo ispezionavano, per poi tendere ad andare verso la schiena; e a quel punto fece un'enorme scatto indietro, finendo contro il muro e trattenendo un gemito e una smorfia che la botta scaturì sulle cicatrici, già di per sé frementi.

-Che diamine fai?- ringhiò verso il biondo, coprendosi con la camicia che aveva ancora addosso ma senza, ancora, abbottonarsela; e tenendo il capo chino mentre il fiatone per l'adrenalina e quei gesti si faceva sentire, aumentando, lasciando un'immenso rossore sul suo volto.

-Le bende.- iniziò Marco, senza rispondere alla sua domanda. -Le hai ancora; sono messe un po' a casaccio ma si vede che le hai cambiate, questo vuol dire che le ferite ci sono ancora, oppure c'è ne sono di nuove e ti sei medicato da solo.-

-N-no... Le ho solo cambiate... Andate via...- si morse il labbro inferiore, tentennando, e con i palmi delle mani contro la parete, come a volersi fondere con il muro per poter scappare.

-Chi è, Ace? Chi è che ti fa del male?- si avvicinò ancora, Marco, con un tono di voce serio, ma con gli occhi che lampeggiavano di preoccupazione, e anche Thatch sembrava davvero impensierito.

-Nessuno! Andate via!- urlò a quel punto, guardandoli minaccioso e con una strana luce negli occhi prima di nasconderli tra le ciocche che ricaddero dalla fronte.

-Okay, tranquillo. Andiamo via.- mormorò tetro, Marco nel vedere tanta furia in quelle pupille; ignorando la faccia incredula e in disaccordo di Thatch, ma che lo seguì lo stesso dopo aver mandato un'occhiata triste al moro che continuava a non guardarli.

Aspettò di sentire la porta principale chiudersi prima di alzare il capo e mordersi il labbro inferiore, stringendo i pugni e tentennando. Quella giornata era stata una vera schifezza, era da dimenticare. Grugnì con una smorfia, e si diresse nel letto, buttandocisi sopra, di petto, e addormentandosi di colpo, con il sonno che era tornato nel medesimo istante in cui aveva toccato il materasso di spugna, senza coprirsi con le lenzuola; con il capo rivolto verso la finestra dalle tapparelle spalancate.



Socchiuse un occhio, prendendo un po' d'aria tra le narici per poi bloccare il respiro, cercando di assimilare dove fosse e cosa fosse accaduto, del perché si sentisse così tanto turbato e così uno straccio nonostante la lunga dormita. Cercò di alzarsi con il busto, tirandosi su con le braccia e scrollando il capo per destarsi prima di mettersi in piedi, con le ginocchia che tremolarono ma poi uscì dalla stanza, andando in bagno e prendendo la scopa e il panno, iniziando a pulire la casa senza troppa fretta: tanto non aveva altro da fare.

Domani era sabato, e poi c'era domenica. Era arrivato ad un punto tale della sua vita così confusionario che non vedeva l'ora che arrivasse il fine settimana, ma che finisse poi in fretta; stare a casa non era mai una buona cosa se c'era anche il cosiddetto 'padre', ma gli altri giorni erano anche strazianti perché doveva svegliarsi presto e doveva resistere al dolore, soprattutto perché si muoveva; se invece restava nel letto, il dolore era un po' più lieve. Sospirò, mollando a terra la scopa e uscendo fuori, sbattendosi la porta alle spalle ma senza prendere la macchina, recandosi verso un vecchio amico, un ponte dove trascorreva il suo tempo a stare solo più del solito. Lo aveva trascurato molto, ma se non ci andava significava che andava tutto bene. Si mise seduto su un muretto, con le gambe a penzoloni sul precipizio che portava ad un fiume; e poi portò lo sguardo in alto, ammirando le nuvole che coprivano tutto il cielo. Ace aspettava la pioggia, sperava davvero che piovesse perché aveva bisogno di sentirla sulla pelle, di bagnarsi. Aspettò; aspettava la pioggia per non piangere da solo. Ma non arrivò e rimase a guardare il cielo con malinconia e angoscia, con una smorfia di dolore che percorreva tutto il suo volto che mostrava tutta la sua depressione. Purtroppo, appena si era alzato dal suo letto, i ricordi erano tornati: tutti i litigi e i casini; anche se non sapeva se fosse stato meglio dimenticare quell'accaduto.

Si voltò, poggiando a terra i piedi e strisciando verso l'altra fine del ponte di legno, che scricchiolava senza ritegno, magari volendo mettere paura; mentre si allontanava di più dalla parte da dove era entrato, volendo perdersi all'interno di quel bosco fitto e pieno di bestie. Voleva perdersi, magari sarebbero stati felici tutti senza di lui, o magari qualcuno sarebbe venuto a cercarlo. Magari qualcuno come Luffy, o magari Marco.

... Sarebbero venuti a cercarlo?, pensò malinconico, con un 'No' fisso nella sua mente, come un pugnale che, la vita gli aveva conficcato lì in quello stesso istante per rispondergli, per dirgli che, lui non serviva a nulla, se non a farsi odiare, o a farsi abbandonare. Si fermò, lasciando il piede a mezz'aria dall'ultima trave che conduceva alla fine di quel tragitto sul vuoto e portava al labirinto di quegli alberi immensi; con il ricordo ed il sapore ancora vivo di quello che accade proprio in quel luogo tanto terrificante. Sospirò e tornò indietro: dare questi problemi alla gente sarebbe stato inutile e fastidioso, e non poteva lasciare tutto così di punto in bianco. Perdersi sarebbe stato bello, forse anche di più se qualcuno sarebbe venuto a cercarlo e a trovarlo per portarlo indietro, ma era tutto solo una bella illusione; nessuno lo avrebbe cercato, nemmeno Luffy visto la litigata di quel giorno; però non poteva lasciare tutto, c'era il mutuo da pagare, le bollette da liquidare, e suo 'padre' da tenere a bada.

Si tastò la chioma ad occhi chiusi, vagando e sperando di sbattere contro un palo; così, forse si sarebbe svegliato. Ma aprì gli occhi subito dopo, per andare di nuovo verso casa e cercare la strada giusta, ormai si stava facendo tardi, lo capì ad intuito anche se le nuvole avevano reso la giornata ombrosa già da prima.

-Ace!- l'urlo che lo richiamava e che aveva prolungato di molto sull'ultima vocale lo fece fermare come fosse stato un soldato, e non perché lo fosse ma per via della voce: apparteneva a Luffy.

-Ace!- arrivò, infatti; davanti a lui, il suo fratellino che gli sorrise, abbracciandolo. -Scusami.- sussurrò piano, ma abbastanza forte perché lo sentisse. -Tu fai tanto per me, anche troppo. Non dovevo parlarti così.-

-Nemmeno io, se è per questo... Se non vuoi fare il liceo va bene, lo accetto. Sei tu il padrone della tua vita. Però, lascia il liceo solo se ne sei convinto.- borbottò, osservandolo staccarsi e ricambiare lo sguardo con un sorriso.

-Grazie Ace. E, anche se non amo stare lì voglio starci perché ci stai tu, quindi: andiamo a casa?- domandò poi, prendendogli la mano e mettendosi al suo fianco.

-Sì, okay. Immagino che sei felice: domani non ti tocca andarci, a scuola.-

-Già! Nemmeno oggi.- ridacchiò, svoltando l'angolo e guardando da lontano la propria casa, che, man mano, si faceva sempre più vicina, e sempre con quell'aria triste che sapeva dare agli occhi dei due che ci vivevano.

-Se hai bisogno di aiuto, o di un consiglio: sono qui. Sempre.- mormorò, con, nella testa, ancora quel senso di essere sbagliato, e che sarebbe dovuto restare solo, perché era meglio per tutti, e per se stesso.

-Andiamo al Baratie? Ho fame!- esclamò ad un tratto, Luffy, senza rispondere alle ultime parole del fratello perché già sapeva che poteva contare sempre su di lui, come già stava accadendo.

-Okay, prendiamo la macchina.-

-Devi insegnarmi a guidare!- esclamò, alzando le braccia al cielo e facendo ridere il più grande.

-Magari domani.-

-Evvai!- gioì, entrando nell'auto assieme al maggiore che mise in moto, più sollevato di aver fatto pace con il suo fratellino.




Svegliarsi, anche se dopo essere stato malmenato; era stato più confortevole del solito, sia perché era riuscito a dormire più a lungo, sia perché Luffy non gli aveva fatto da sveglia con la sua voce squillante. Mugugnò, voltando e affondando il volto nel cuscino prima di socchiudere gli occhi e guardare la stanza vuota e illuminata, di poco, dai fori nelle tapparelle della finestra dietro di lui. Scorré con le pupille il luogo, con fare pacato; osservando la porta semichiusa davanti a lui e il letto ancora da rifare, del suo fratellino; certe cose non cambiavano mai, si fece sfuggire nei suoi pensieri, accompagnato da un sorriso, per poi soffermarsi in alto, verso l'armadio al suo fianco, ma sobbalzò nel ritrovarsi dinanzi il volto chiaro, e con due occhi azzurro puro in primo piano, luminosi e vivi; dalle palpebre perennemente socchiuse che lo scrutavano attentamente e con un so che di sensuale; e che riconobbe appartenessero a Marco. Si alzò di scatto, piombando poi a terra, di schiena, con un tonfo sordo ed una smorfia di dolore per la botta e le ferite che sentì risentire pesantemente per quel colpo. Strizzò gli occhi, respirando appena prima di mettersi in piedi con un saltello, un po' zoppicante per via della caviglia gonfia per ieri sera, per il colpo subito da quel pezzo di idiota. Immediatamente si affrettò e si guardò intorno con irruenza e furia, voltandosi a destra e sinistra così tante volte da fare il giro su se stesso, ma calmandosi poco dopo e ritornando ad avere una respirazione regolare nel constatare di esserselo solo immaginato.

Forse sarebbe dovuto andare da lui, pensò; e cercare di chiedere scusa; sia a Marco che a Thatch. Con occhi vacui, abbassò le spalle, sentendo il sapore amaro e metallico del sangue; aveva ancora tanto tempo, si disse; e poi, Luffy era uscito, come ogni sabato.

Mugugnò, zoppicando verso il bagno e chiudendosi dentro, allungando una mano in alto alla ricerca, sopra l'armadietto, della cassetta del pronto soccorso. Ma non la trovò, così iniziò a togliersi le vecchie fasciature, ormai strappate e logorate dalle percosse; si chiese per quanto ancora potesse resistere al dolore, o il suo corpo a resistere ai colpi; e nel pensarlo ritrovò, a terra, dietro i tubi del lavandino, proprio quello che cercava. Sorrise, raccogliendola con cura, chinandosi senza piegare le ginocchia e afferrandola con l'indice e il medio, cacciando poi fuori il necessario; tra forbici, un rotolo di bende nuove e disinfettante.

Terminò di medicarsi anche quella volta, e visto che non era un dottore forse neanche troppo bene, come dimostravano anche le fasciature messe a casaccio e un po' decadenti, però era meglio di niente; e poi era sempre quello il risultato che ne ricavava. Così uscì dalla stanza dopo aver pulito tutto, anche le macchie di sangue che erano gocciolate a terra durante la medicazione; magari da alcune ferite ancora un po' aperte. Le sentiva bruciare, ma era sopportabile rispetto a prima; scese le scale tranquillo, consapevole che Luffy e quel "padre" non ci fossero, altrimenti gli avrebbe sentiti litigare, e magari lo avevano anche fatto mentre era incosciente, e poi Luffy sarà uscito via sbattendo la porta, come al solito, e quell'inutile idiota si sarà recato, poco dopo, verso il solito 'lavoro' da drogato.

Borbottò tra sé e sé di quanto non sopportasse che sua madre, la sua gentile e bellissima Rouge si fosse fatta 'incatenare' e abbindolare da un'essere così schifoso. Fece una smorfia, forse per il fastidio che le bende davano, o forse per quell'essere così vomitevole che gli toccava come "padre", non che il primo fosse meglio; Roger, il suo naturale: gli aveva abbandonati per poi morire sul patibolo, colpevole di molti crimini, e nonostante ciò sua madre aveva sempre continuato ad amarlo e a difenderlo; incredibile, pensò, mostrando poi uno sguardo deluso, ma non per sua madre: per Roger. Si sedette sotto il bracciolo del divano, cercando di stabilizzarsi un po'. Certo, la famiglia che aveva, in fatto di padri, era da buttare, però, le uniche persone che si salvano in quella famiglia erano, la defunta Rouge, e Luffy; loro erano i pilastri saldi che la mantenevano ferma su solidi basi, senza far crollare Ace come un castello di carte smosso dal vento.

Sospirò, gettando al soffitto il capo e sorridendo nel ricordare il volto della sua cara madre, era così bella e dolce, a tratti gli sembrava di sentirla, la sua mano, sulla guancia, a dargli amore; così calda e morbida, piena di affetto come le sue parole che lo facevano sentire bene e parte di qualcosa di meraviglioso. Avevano un buon rapporto; forse anche perché lo aveva tenuto in grembo per venti mesi, per tenerlo al sicuro dalle guardie che temevano in un'erede di quel mostro di Roger. Sorrise ancora e si alzò, reggendosi in piedi e avanzando, con la voglia di mangiare che si imperlò di lui; così alzò il braccio, aprendo il tiretto di legno appena giunse in cucina, prendendo il cartone di cereali; e doveva davvero essere un miracolo, pensò, se c'era ancora: Luffy non lo aveva finito, davvero strano. Afferrò la tazza e il latte, versando il liquido bianco pallido all'interno del piccolo contenitore azzurro, solo dopo averci buttato un po' di cereali. Posò il tutto al proprio posto e si diresse di nuovo verso il tavolino, sedendosi e iniziando a mangiare con il cucchiaio in mano, gustandosi il sapore della colazione tra quel semibuio, con spiragli di luce che arrivavano solo da alcuni fori delle tapparelle sigillate. Senza un motivo logico, iniziò a ripensare, per un attimo, al giorno passato: alle mani di Marco che lo tastavano, e arrossì chinando subito il capo; un po' si dispiaceva per il proprio atteggiamento nei loro confronti, in fondo, volevano solo aiutarlo. Scuoté il capo, malinconico; guardando il bordo della tazza a cilindro ma che si restringeva sul basso, e che, all'interno ormai possedeva metà del suo contenuto, e ripensò stupidamente ad una domanda che gli fece Luffy poco dopo che loro "padre" avesse iniziato a menarli dopo la morte di Rouge; il suo fratellino aveva undici anni e lui ne aveva quattordici a quel tempo. Si ricordava perfettamente ogni cosa, ogni sillaba di quella loro discussione; lui cercava di difendere Luffy, ma non ci riusciva sempre, e così, un giorno, lui gli chiese:

-Perché questo papà ci picchia?-

-Non chiamarlo così, non sarà mai nostro padre... Però, forse è perché gli manca la mamma... Penso, penso sia arrabbiato perché non ha potuto salvarla.- sussurrò piano.

-Ma perché ci picchia?-

-Forse lo fa sentire meglio... non lo so, non lo so davvero Luffy.-

E non lo sapeva nemmeno ora, non lo sapeva davvero. Lo faceva e basta, lo picchiava e basta. Sospirò, finendo la colazione con l'amaro in bocca e lavando le stoviglie, comprese anche quelle di ieri sera, della cena di Akainu. Gli vennero i brividi a pensare al nome di suo "padre", ma se lo scrollò solo grazie all'immagine degli occhi di Marco che quella mattina lo avevano svegliato. Certo che la sua immaginazione gli giocava brutti scherzi, ma doveva smetterla; ormai aveva deciso: doveva allontanarsi da lui, quindi la sua mente e il suo cuore avrebbero fatto meglio a stare fuori da tutto ciò, pensò.

-Mi farò una doccia.- mormorò, passandosi una mano sul retro del collo, un po' indolenzito.

Borbottò qualcosa, risentito, nel ricordarsi che non avevano acqua calda e così, salendo le scale, provò a sbloccare la caldaia con i tasti del contatore, cliccandolo fino all'inverosimile il pulsante apposito a quel lavoro; poi si stancò e si diresse in bagno, chiudendosi dentro e togliendosi i vestiti con un po' di fatica, maledicendosi poco dopo perché, nel farsi la doccia, si sarebbe dovuto togliere le bende. Ma ormai aveva deciso: voleva farsi la doccia, quindi l'avrebbe fatta.

-Chi ti ha fatto del male?-

Trattenne il fiato, per un attimo, nel togliersele; perché, nel farlo, si ricordò della domanda che Marco gli ripeteva così tante volte; e fece un sorriso amaro, felice di avere il sapore della sua voce con sé, e contento che si preoccupasse per lui; però triste, perché non poteva rispondergli: aveva fatto una promessa, doveva mantenerla.

Tolti i vestiti aprì l'acqua, trovandola magicamente calda, e così ne approfittò, entrando con piacere come non faceva da tanto, e quel calore aiutava a diminuire il dolore; era bello, era così caldo là dentro: si sentì più al sicuro in mezzo a quel vapore che lo circondava coprendolo come una coperta. Guardò la spugna sul ripiano ma la lasciò lì insieme al bagnoschiuma e allo shampoo, volendo prima riposare, in silenzio. Così sospirò, più calmo adagiandosi, di schiena, contro le piastrelle che erano gelide, in contrasto con l'aria intorno che si propagava come un fiume in piena, proprio come l'acqua che scendeva dal braccio, in alto, della doccia, senza toccarlo e difendendolo, quasi, con quella cascata, e separandolo dalla porta della cabina. Mugugnò piano, con la mente assopita e assoggettata da quel calore, socchiudendo gli occhi mentre lasciò scorrere, con le gote che iniziavano a prendere un colore roseo, la propria mano sul suo corpo, ma lo fece autonomamente, come se avesse una mente propria; lasciando che le dita si fermassero sui pettorali e poi scendessero dal costato, riconoscendo così liscia la propria pelle; di sicuro la situazione sulla schiena era completamente differente viste le ferite; e poi soffermarsi sullo sterno, cercando di ricordarsi il tocco, le dita, il volto e il sapore di Marco; e non fu difficile, anzi, riuscì in un attimo a vederselo davanti, proprio come l'illusione di quella mattina; era così reale che riusciva a sentirlo, tutto, anche il suo odore, quasi poteva toccarlo. Era così bello, così dolce, luminoso così tanto tutto che non si stancava mai di averlo addosso, e arrossì fino all'invero simile, imbarazzato anche se calmo, forse perché, inconsciamente lo riconosceva che era tutto frutto della sua immaginazione. Sospirò appagato, arrivando al linguine con la mano ricordandosi della sua voce, del loro primo e ultimo bacio alla festa, del loro primo incontro, di quegli occhi che lo guardavano, e di quel semplice "Ciao." da cui avevano iniziato; era iniziato tutto con il più bello e banalissimo saluto. Si perse in quelle immagini di lui, senza correggersi sull'ultimo pensiero benché non fosse iniziata nessuna storia: era solo stata un'avventura di una sera, con quel bacio rubato all'improvviso, o almeno, questo era il suo vero pensiero, ma che non si impose quella volta, in quel momento. Preferì lasciarsi abbindolare dal piacere, lasciarsi assoggettare da quella visione di Marco adagiato contro di lui, con le sue mani sui suoi fianchi e con il volto a stuzzicargli l'orecchio con mille parole amorevoli che lo eccitavano, con l'aiuto anche della propria mano che aveva iniziato a lavorare sul proprio membro, ormai non più afflosciato; e si sentiva così preso e provato da quelle sensazioni, vere o fantastiche che fossero, mentre aveva iniziato ad agitare, a muovere con cura la mano con cui si stava adoperando, che massaggiava piano la sua parte più intima. Divaricando di poco le gambe si sentì irrigidire e sudare tutto in un attimo, con il getto d'acqua che investiva in pieno il corpo di Marco davanti a lui, che lo poteva ammirare nel suo rossore e nella sua eccitazione, con la bocca aperta che cercava respiro, e il petto che si muoveva frenetico. Lasciò che l'altro arto risalisse fino ai capezzoli, istigandoli e sfregandoli, prima lentamente e poi sempre con più rapidità mentre dei gemiti uscivano dalla sua bocca, propagandosi a tratti nella stanza, con sempre più intensità mentre il collo si drizzava; e il volto era dedito a guardare il soffitto tra mille affanni e gemiti, e le palpebre socchiuse, ascoltando le sue dita aumentare ad una velocità ancora più maggiore, e i capezzoli farsi sempre più duri, irrigidendosi, con la figura di Marco davanti a lui che lo sovrastava, a petto nudo all'interno della doccia, che lo osservava con un sorriso malizioso ma con gli occhi che brillavano gentili, senza bagnarsi nonostante fosse al centro dello scroscio d'acqua. Sorrise insieme a quell'illusione, lasciando che la mano si muovesse libera, dai capezzoli a tutto il corpo, passando sulla sua pelle con estasi mentre il membro nell'altro suo arto si ingrossava di più, con il busto che si muoveva in modo esiguo in avanti e dietro, a ritmo della mano; e la sua voce usciva acuta e docile dalle labbra, fino ad aumentare ed echeggiare, con le ginocchia tremanti e piegate, divaricate dal piacere, in modo da far vedere la sua erezione ormai fattasi maggiore, permettendo un lavoro migliore e più comodo, con, nelle orecchie, la propria voce, deformata dal piacere e che urlava ripetutamente il nome di quel ragazzo che lo aveva rapito. Strizzò un occhio nel sentire il suo strumento pronto a venire, ad emanare tutto il suo contenuto; così sospirò ancora una volta, un sospiro acquietato e di frenesia, posando la mano su uno dei glutei del suo fondoschiena, immaginando che in realtà fosse il tocco del biondo; e lasciò che il suo corpo, ai movimenti della sua mano sul membro, si distanziasse di poco verso il fuori con i pettorali; dai capezzoli ancora rigidi e frementi, e che la spina dorsale si distaccasse altrettanto e leggermente, per l'estasi; dalle piastrelle, sentendo il cuore palpitare forte, il corpo tremolare per tutta quell'eccitazione; la gola farsi secca, e le guance prendere fuoco. Sospirò appagato quando lo sentì, lo immaginò, toccare il suo volto e poi avvicinare l'altra mano alla propria che stava ancora massaggiando il suo membro; e provò a fantasticare sul suo volto, volendo osservarlo ad un palmo dal suo naso che lo baciava, aprendo gli occhi per guardarlo negli occhi nell'istante in cui il suo seme colò fuori e feroce come una rapida insieme a quel nome pronunciato con più enfasi e piacere rispetto ai suoni esclamati prima; e nel mentre che le labbra di Marco si posarono sulle proprie, sospirò, con l'affanno ed il vapore che usciva dalla sua bocca ad intervalli veloci prima di lasciarsi scivolare a terra, con il corpo sporco del proprio liquido, finito anche sul pavimento, ma che l'acqua, pian piano, fece scorrere all'interno dello scarico. Ed Ace rimase lì, a terra, ancora rosso in volto, con le ginocchia sul terreno, divaricate, e le mani davanti al linguine con il membro ormai floscio e sfinito, mentre i palmi toccavano il tipettino sottostante. Sospirò ancora, cercando di riprendersi, sentendo il barlume lieve dell'eccitazione e dell'adrenalina scorrere e far battere forte il cuore, fino a scomparire nel nulla, appagata da quel suo masturbarsi inaspettato, non programmato.

Continuò a rimanere fermo, immobile mentre l'illusione di Marco lo abbandonava con un sorriso, lasciandogli la malinconia del momento, e la realizzazione che fosse stato tutto un gioco della sua mente, forse per dimostrargli quanto lo desiderasse, quanto gli piacesse. Ignorò quei messaggi, alzando il capo verso l'acqua che gli veniva addosso, lavandolo e purificandolo, con il petto che si muoveva ritmicamente, ancora scosso; permettendogli poi di alzarsi con calma, e con i suoi tempi, adagiandosi subito dopo contro le stesse piastrelle di prima, e chiudendo gli occhi per un attimo infinito, sentendosi davvero svuotato, ma anche bene e felice.

Appena si fu ripreso, con ancora quelle sensazioni nel cuore e nella mente; iniziò a lavarsi, cercando però di non eccitarsi di nuovo nel pensare al biondo, arrossendo di più mentre si passava la spugna piena di sapone sul corpo dopo quello che aveva fatto, soprattutto per aver pensato a lui per tutto il tempo. Così cercò di lavarsi in fretta, sbrigandosi anche nel lavarsi i capelli, e poi uscì scattante, merito anche del fatto che l'acqua fredda era tornata e lo aveva colpito così all'improvviso da farlo scattare fuori, rischiando come sempre di farlo scivolare, con la differenza che questa volta ci riuscì e si ritrovò con il sedere a terra e le palpebre strizzate per il brutto colpo, seguito da un tonfo che si era propagato nella stanza umida e piena di vapore, e forse anche nel corridoio vuoto. Mugugnò in suono di protesta, massaggiandosi il punto colpito e sospirando, con gli occhi che osservavano lo specchio in alto, sopra al lavandino, ad inquadrare il colore nocciola scuro dei suoi occhi. Si voltò su se stesso, mettendosi in ginocchio sul pavimento per poi alzarsi e scrollarsi un po' tutto, leggermente infreddolito, anche se il calore dentro lo aiutava. Era stata davvero un'esperienza strana e bella al tempo stesso; non era la prima volta che si masturbava, però la prima con quei pensieri in testa e quelle immagini davanti. Si avvicinò alla cabina, chiudendo il rubinetto per poi aprire il tiretto sotto al lavello dopo averlo raggiunto, e afferrò il primo telo che trovò, usandolo per coprirsi dalla vita in giù. Fatto ciò afferrò i detersivi adibiti alla pulizia del bagno ed un panno, cominciando a lavare la doccia, non potendola lasciare così dopo quello che aveva fatto. Finito quello passò lo straccio per terra, visto che, nel cadere, aveva bagnato tutto il pavimento; e aprì la finestra, in modo che il vapore che invadeva la stanza si diradasse, e soprattutto per aver notato delle goccioline depositate sul soffitto. Permise al vento gelido di attraversargli la pelle e la schiena, procurandogli tremori in tutto il corpo per l'inaspettato cambio di temperatura, e cercò di coprirsi in fretta con le medicazioni prima di uscire.



Si distese nel letto, vestito con i suoi soliti pantaloncini e con le bende messe, forse meglio di prima, o era lui che si convinceva di questo. Guardò il soffitto, con alcune ciocche bagnate che gli ricadevano sulla fronte e sugli occhi e mugugnò qualcosa, intristito dal fatto di aver finalmente capito che, probabilmente, non avrebbe più rivisto Marco, o Thatch; ma poteva anche trattarsi di una sua supposizione, anche se, nel ripensare a come erano andati via poteva benissimo realizzarsi, la sua paura. Si voltò su un lato, afferrando le lenzuola e portandosele fino a sotto il mento, coprendosi mentre osservò la finestra; ammirando quel poco di cielo e respirando piano, aspettando qualcosa magari, o forse niente. Forse la vita poteva riservargli qualcosa di grandioso, pensò, sperando; solo guardando quel pezzo di blu che sembrava più luminoso del solito.

Quando ascoltò la porta chiudersi di botto si mise seduto, aspettando Luffy che lo avrebbe accolto con un sorriso, migliorando ancora di più la sua giornata, anche perché lo avrebbe costretto ad andare da qualche parte, e lui ne aveva davvero voglia. Ma non giunse nessuno nella stanza, e questo lo incupì, facendogli capire che era tornato l'altro che viveva in quel posto; e non capiva nemmeno perché continuasse a dargli l'appellativo di "padre" a volte, anche se non gli è lo aveva mai detto di persona ricollegava sempre quel termine a quella persona; non avrebbe mai capito perché non lo chiamasse semplicemente Akainu; o forse, detestava così tanto i padri, che anche semplicemente quella parola descriveva perfettamente quegli esseri ignobili, per lui; era come se, padre, rappresentasse esattamente un insulto. Smosse un po' le spalle, rabbrividendo a quel nome senza nemmeno saperne il motivo, e si alzò per recarsi vicino al letto di Luffy per iniziare a sistemarlo; il proprio lo lasciò disfatto, tanto passava lì sopra la maggior parte del tempo quando era a casa, ma adesso preferiva uscire: scappare dalla finestra pur di non incontrare quel mostro; e così fece. Afferrando la prima t-shirt che gli capitò sottomano sgattaiolò via, scendendo dalla finestra e aggrappandosi ad un ramo di un albero lì davanti con entrambe le mani e con uno scatto da vero maestro, ma staccandosi da esso prima che si rompesse, e poi corse via, fuori dal vialetto, fino in strada; senza prendere la macchina perché le chiavi erano in soggiorno, ma tanto Akainu non aveva la patente, gli è l'avevano ritirata da tempo.



Camminando camminando arrivò, senza un motivo, non capendo nemmeno se era stato lui a decidere quella meta oppure era stata dettata dal suo inconscio, davanti agli appartamenti dell'università; senza perdersi per sbaglio neanche una volta. Sospirò, cercando però di non farsi vedere dalle finestre nel ricordarsi dell'altra volta con Thatch, e provò a cercare quella della stanza di Marco, inutilmente, anche perché alcune erano coperte dalle tende e quindi non poteva vedere, tra quale di quelle, vi era il volatile azzurro nella gabbia. Brontolò tra sé e sé, dispiaciuto e rammaricato della sfuriata dell'altro giorno: non avrebbe dovuto, e non avrebbe nemmeno voluto reagire in quel modo, soprattutto contro quei due. Voleva chiedere scusa.

-Cerchi qualcosa?-

Si voltò di scatto, adagiando la schiena contro la parete della casa dietro di lui, vicina a quella dell'università; e scrutò ad occhi sgranati, non aspettandosi di essere stato visto così facilmente; il ragazzo sorridente che non era altro che Thatch.

-Come stai?-

-Ehm... Mi dispiace per ieri.- sussurrò, chinandosi subito con il busto, rigido.

-Come? Oh, non ti preoccupare, anzi siamo noi che dovremmo chiederti scusa: abbiamo esagerato, non dovevamo intrometterci nei tuoi fatti personali. Ma, cerca di capire, se lo abbiamo fatto è solo perché, come amici, ci preoccupiamo per te.-

-O-okay...- si rimise dritto, scrutando il castano da sotto le ciocche nere per quelle parole che, dentro di sé, apprezzò molto; per poi guardarsi attorno circospetto, aspettandosi di vedere il biondo, ma invano: non c'era.

-Se cerchi il tuo Marco, mi dispiace ma non c'è. Ma se vuoi possiamo andare da lui: sta studiando nella sua stanza.-

Ace arrossì di colpo a quel "tuo", assimilandolo a fondo nel cuore che palpitò due volte di più, emanando un bizzarro calore ed una strana sensazione allo stomaco che sembrò rivoltarsi, quasi ballare, o altro, non lo capì appieno. E si morse il labbro a quella proposta di andare a raggiungerlo.

-No, grazie.- mormorò con un tono indeciso prima di ribattere, come risvegliatosi di colpo: -N-non è mio!-

Lo guardò ridere per poi dargli corda, annuendo, acconsentendo solo per farlo contento ma ridendo sotto i baffi nel mentre; così Ace sbuffò, capendo la presa in giro e offendendosi, portandosi le braccia al petto, conserte, e volgendo il capo nella direzione opposta.

-Avanti, non fare così. Tanto Marco tra un po' dovrebbe scendere, avevamo appuntamento di uscire. Ti unisci?-

-Come, scende?- scattò, colto dall'incoerenza di felicità e paura di vederlo.

-Già.- rise lui, divertito dalla faccia del moro, così sconvolta per così poco.

-Mhm, beh io devo andare allora.-

-Non ti sta più bene la mia compagnia?- chiese calmo la persona dei suoi pensieri, spuntando fuori proprio in quel momento; arrivando pacato, dietro di lui.

-No!- rispose, voltandosi, di scatto nel non aspettarsi quell'arrivo tanto atteso, o inatteso. -No... E, e che devo andare...- mormorò imbarazzato, facendosi rosso nell'incrociare i suoi occhi e ricordarsi della visione nella doccia.

-Possiamo accompagnarti.- sorrise allora, il biondo, contento di fargli quell'effetto mentre allungò una mano per poterlo accarezzare, mirando alle ciocche per poi scendere sulla tempia fino alla guancia, peccato che il moro si scansò prima che tutto questo si potesse avverare; e Marco ci teneva a sentire il calore di quella pelle, tra il rossore delle gote che si impossessò del più giovane completamente ormai, facendo ridere il castano.

Ace mormorò qualcosa tra sé e sé per le risate di Thatch per il suo imbarazzo, lasciando che le mani si infilassero nelle tasche dei suoi pantaloncini, stringendosi nelle spalle ma sorridendo nell'incrociare il volto sereno del biondo.

-Comunque, no. Vado da solo, scusate.-

-Va bene.- sorrise accondiscende, Thatch, per poi mandare un'occhiata di intesa al biondo appena il più giovane gli aveva dato le spalle, volendo andargli dietro.

Marco sospirò, finto deluso da quel comportamento infantile perché ormai lo conosceva; ma gli diede retta, e lo fece solo perché si trattava di Ace, andandogli dietro fino ad affiancarlo, e lo stesso fece il castano, divertito; solo dopo aver udito i borbottii del più giovane che sembrò sussurrare, offeso, a capo chino e ombroso, un: "E smettetela di seguirmi."

-Non ho detto che dovevate accompagnarmi...- mormorò con sufficienza, scrollando piano le spalle prima di alzare lo sguardo dritto davanti a sé, sospirando e arrossendo nel sentire e nel lasciare fare alla mano di Marco di adagiarsi sulla sua spalla sinistra.

-Okay, ma visto che stai facendo la nostra stessa strada, la facciamo insieme.- propose, gentile, il biondo, sorridendo.

Ace arrossì vistosamente nel vedere quelle labbra felici solo per lui, così decise di lasciare che lo accompagnassero, facendosi compagnia a vicenda; tra Thatch che gli scompigliava i capelli di tanto in tanto, e il biondo che non lasciava la presa sulla sua spalla. Camminarono, a passo lento e pacato come a non voler mai arrivare a destinazione, parlando dei loro svaghi, di studio, ed Ace era molto partecipe e loquace, felice di poter stare con quei due: ci stava bene. Purtroppo durò poco, giunse presto in prossimità della sua casa, così si divise, lasciando la postazione in mezzo ai due.

-Ciao.- gli salutò cordiale, scuotendo piano la mano e sorridendo.

-No, ma perché? Sicuro di non voler stare con noi?-

-Non posso, magari ci vediamo domani.- disse lui, ormai nel vialetto; dispiaciuto per la voce di Thatch, così triste che stava per andare via.

-Va bene, ci contiamo.- si allontanò il castano, mentre Marco si premurò di vederlo entrare in casa, come volendolo guardare varcare la soglia sano e salvo prima di girare i tacchi e seguire a ruota il castano che sorrise intenerito, per poi ridere sotto i baffi dopo i commenti del biondo che gli disse di smetterla.

Ace sospirò piano quando entrò; purtroppo aveva dovuto, visto lo sguardo di Marco. E pensare che il suo piano era solo di fingere di entrare, per poi scappare al Baratie. Strizzò gli occhi ed ingoiò un groppo di saliva in gola, e poi si guardò intorno con fare guardingo, sorridendo senza volere, tra sé e sé, a ripensare a Marco, arrossendo subito dopo e sgranando gli occhi: forse non gli avrebbe più parlato, o nemmeno guardato se avesse saputo che cosa aveva fatto nella doccia pensando proprio a lui, al suo tocco, ai suoi modi e al suo sorriso; tutta un illusione della sua testa. Borbottando, felice di aver potuto passare quei brevi minuti con quei due, si diresse in cucina aprendo il frigorifero e afferrando le bottiglie di birra, poco importava che appartenessero ad Akainu: per una volta avrebbe bevuto a suo discapito; che poi, le aveva comprate lui, quindi motivo in più per usufruire di quel privilegio; soprattutto perché non lo vedeva in giro, per ora.

Ne prese sei, e le stappò tutte, guardando come fossero piene; ricolme di quel liquido alcolico, e le assaggiò, prima una, piano, lentamente; gustandone il sapore amarognolo e un po' frizzantino, e poi sempre con andatura più veloce, sempre di più fino a finirle; volendo bere per il piacere che sapeva far provare, e poi si adagiò, sbuffando, contro lo schienale, guardando in aria e sentendosi le gote arrossate, la mente confusa, ma fissa su un unico e perenne pensiero: Marco. Ripeteva quel nome, ripeteva quella figura; voleva tanto alzarsi e correre da lui, cercarlo e poi, trovandolo, finire tra le sue braccia. Forse aveva bevuto troppo, o forse aveva bevuto troppo perché non aveva mai bevuto, pensò senza capirsi appieno, alzandosi e barcollando, scuotendo il capo per poi afferrare le bottiglie e buttarle nella pattumiera; tanto c'è ne erano altre, nel frigorifero.

-Ace, finalmente sei a casa. Brutto ingrato! Ci sono bollette da pagare, ed io ho bisogno di soldi, che diamine fai, lavori o no?-

Il moro si irrigidì, indietreggiando per l'inaspettata voce che tuonò nella casa, sembrò quasi uno sputo che voleva arrivargli in faccia, ma poi avanzò con fare intimidatorio, sapendo comunque che, con quel tipo, serviva a ben poco. Scrollò le spalle, raggiungendolo in soggiorno senza far cedere le gambe per la sbronza, e trovandolo in piedi ad aspettarlo e con una smorfia; a pavoneggiarsi con il suo petto muscoloso all'infuori, coperto dalla camicia cremisi, decorata da una rosa rossa all'occhiello sinistro; con i pugni stretti, nascosti da dei guanti che teneva sempre; e i suoi vistosi centimetri in più di lui che lo facevano sembrare un gigante, anche se a ripensarci, era una formica in confronto a quel Barbabianca, e quindi lui, in confronto a quel vero gigante era poco meno di una briciola. A rifletterci gli scappò una lieve risata che fece incuriosire l'uomo davanti a lui, che sbuffò deluso, stanco di lui.

-Che ridi, scemo? Vai a prendere i soldi, e fai in fretta. Se sei fortunato non ti punirò.-

Ace ritornò serio a quella frase, acconsentendo con un cenno del capo subito dopo e voltandogli le spalle, le stesse che ogni volta sentiva coperte da nuove ferite; lo fece con titubanza, temendo per un attimo che potesse essere una trappola e che quindi ora, lo avrebbe picchiato; invece no, così si diresse verso il corridoio, abbassando le spalle per rilassarle, ormai un po' più tranquillo e meno in guardia, salendo poi le scale in tutta fretta e andando a curiosare nel suo nascondiglio, tra rete e materasso, sotto al proprio letto, afferrando una cifra abbastanza cospicua, senza intaccare la droga là nel mezzo; e poi scese veloce come una scheggia, raggiungendolo di nuovo e servendogli, allungando le mani, quelle banconote come un cameriere servirebbe il vassoio con i pasti, chinando però, lievemente la schiena ed il capo, non volendo osservarlo. Eppure lo fece: lo guardò; scrutò il volto squadrato e dai tratti molto pronunciati di quell'essere, che lo fissava con un sorriso compiaciuto, anche se più diretto al denaro; ma che, al moro, dava solo un senso di conato, quel viso, soprattutto se sorrideva. Ed Ace lo osservò voltarsi, con quel ridicolo e bianco mantello, che usava portare sulle spalle per sentirsi grande o chissà cosa; svolazzò a quel suo scatto, oscillando mentre gli arrivava ai piedi e portava, la scritta in anagrammi, del suo nome al centro; quel particolare, però gli ricordò vagamente lo stesso del vecchio, quello che indossava Edward e lo faceva sembrare un comandante quasi, con la differenza che lui se lo meritava, suo 'padre' no. Ma, a mente più lucida, si disse che anche quel Barbabianca era un'idiota che si divertiva a giocare al ruolo del padre.

Alzò il capo, tornando ad osservarlo, ascoltando il ticchettio dei passi di quelle scarpe nere che si stavano recando verso il divano, illuminato dagli spiragli di luce che entravano dalle due finestre, con le tapparelle socchiuse, come in tutto il resto della casa. E sospirò, tornando a pensare a quegli occhi neri, a quel sorriso, a quel ragazzo che ormai lo aveva preso, e gli aveva preso il cuore. Ma aver abbassato così la guardia gli costò caro, o meglio, solo un colpo, un dolore che si sovrastò con suono secco e duro, vagando tra le pareti nude e solitarie della casa, fino a tornare con impulso e prepotenza nelle sue orecchie, innervosendo il cervello con un grande mal di testa mentre sentì quel pugno a contatto con la sua guancia, e poi un altro all'addome che portò in bocca del sangue, scombussolandolo fino a sdoppiargli la vista che divenne opaca. Tossì, ringraziando il cielo di avere ancora la mascella attaccata al volto, e i denti al loro posto, solo con la bocca che sapeva e sputava sangue, a terra, e rabbrividì; in ginocchio senza essersene nemmeno accorto, forse era caduto sul pavimento proprio dopo aver ricevuto quell'affronto, fin troppo quotidiano. Cercò di muovere le labbra, di chiudere le fauci, ma sentì solo un macabro suono di ossa, degli scricchiolii come quando muovi un oggetto metallico, ma arrugginito che non usi da tempo e cigola sofferente; e così era, in quel momento, la bocca di Ace. Sembrava dura e impossibile da muovere, come annodata. Non riusciva nemmeno a sgranchirla un po', restando immobilizzato, a terra.

Ringraziava però il fatto che Akainu non fosse drogato, lo aveva capito perché si era comportato in modo troppo gentile con lui, e anche dagli occhi, che non erano pieni di sangue come al solito, e nel camminare: non barcollava; e tanti altri fattori che non stava a pensare perché il dolore lo aveva colpito come una scossa in tutto il corpo, raggelandolo e bloccandolo mentre attendeva un altro colpo, ma quello decise di superarlo, camminare, ridendo fino alla porta e andarsene. Che bastardo, pensò, sputando altro sangue a terra che si fuse alle piccole gocce del medesimo colore che impregnavano il terreno.

Sospirò, stanco e provato, distendendosi a terra di petto per riposarsi mentre notò dei piedi, coperti da dei sandali fino al polpaccio, passargli intorno, e si maledì di aver bevuto; perché lui era lì, Marco era lì, proprio come quando, dopo la festa si era fatto picchiare da Akainu e Marco si era messo in mezzo. Quando beveva succedeva sempre, almeno, a quando sembrava, pensò; anche se quella volta era comparso alla fine, e non ha difenderlo, a frapporsi tra la sua sagoma e quella del 'padre'. Lasciò che l'illusione di Marco vagasse in giro, anche perché non aveva molta scelta, camminandogli attorno a tutto il suo corpo prima di fermarsi e inginocchiarsi davanti ai suoi occhi, rivolti al terreno, così gelido e duro, ma al momento non se ne rendeva conto, sentiva caldo, Ace; forse per via del sangue in bocca, o dell'alcool, o dell'adrenalina, o del pugno alla pancia... O forse era la visione di Marco che gli annebbiava il senso del tatto.

-Chi ti fa del male, Ace? A me puoi dirlo, puoi fidarti.-

-Lo so! Ti credo... Ti credo... Ma non posso... So che mi odi...- scattò nervoso a quella domanda che il biondo continuava a ripetergli, finendo con un sussurro, senza nemmeno capire perché gli aveva risposto: lui non era lì. E, anche se non ci rifletté, non comprese perché gli avesse sputato in faccia quelle ultime parole che, forse, dette così, non avevano molto senso.

Ascoltò, appagandosi di quel tocco, del calore che trasmetteva, della mano incorporea di Marco che gli accarezzò la schiena, sorridendogli caro prima di svanire e con un saluto; lasciandolo solo in quella casa, ma con il senso ed il ricordo del calore che attraversava tutta la sua spina dorsale, raggiungendo ogni parte del corpo, avvolgendolo come in una coperta e permettendogli di non avere freddo, e di ignorare il sangue che bagnava la guancia rivolta contro il pavimento. Chiuse gli occhi, stanco, riposandosi un po'.



-Ace! Ace che è successo? Avanti svegliati. Ace!-

Mugugnò contrariato, sentendo ancora il sapore amaro e metallico del sangue in bocca, e la mascella indolenzita, e la tristezza che quell'illusione di Marco aveva lasciato nei suoi occhi. E le urla di Luffy, mischiate al dolore e al mal di testa per la sbornia, non aiutavano molto ad alleggerire quelle sensazioni di confusione e sonnolenza-comatosa. Provò a parlare, tenendo gli occhi chiusi e senza muovere gli arti, ma realizzò di non poterlo fare, di non riuscirci; la mandibola non rispondeva ai suoi comandi. Faceva male, tanto, la sentiva, ma non si muoveva. Respirò a fatica, agitandosi e fremendo, infreddolito dopo essere stato per chissà quanto tempo in una posizione prona sul pavimento, e con il volto girato su un lato. Aprì gli occhi, in modo che Luffy si zittisse, ma continuava a guardarlo in attesa di una risposta.

Ace provò ancora, ma i denti non davano segnali di volersi aprire, così decise di issarsi in piedi, facendo prima uno sforzo con le braccia che scricchiolarono leggermente nell'aprirsi per reggerlo da sopra al pavimento, con le ginocchia che fece scivolare verso l'interno, lentamente fino ad averle orizzontali al busto. Sospirò, buttando fuori l'aria dal setto nasale, facendosi forza per poi mettersi in piedi con un saltello, rischiando poi di cadere di nuovo, ma Luffy lo sostenne, prendendogli un braccio e facendolo passare sulla propria spalla.

-Ti porto da Chopper...- mormorò il minore, facendo sentire Ace in colpa: ferito da quel tono triste, ferito di non essere riuscito a resistere, e ferito di essersi mostrato debole davanti a lui, specialmente davanti a lui.

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