72. SEMPRE E COMUNQUE
P.O.V. KLAUS
Per tutta la settimana seguente la neve scende fitta, portando con sé la muta promessa di un bianco Natale. Non che abbia importanza, visto che noi siamo confinati alla villa sotto la sorveglianza di omoni in nero sparpagliati dentro e fuori con l'incarico di proteggerci. Non possiamo uscire neanche per andare a scuola, infatti abbiamo ricominciato a prendere lezioni private come ai vecchi tempi. Per fortuna, manca poco all'inizio delle vacanze invernali.
Il nostro ritorno a casa ha suscitato esattamente le reazioni che mi aspettavo.
Carol è esplosa in un pianto isterico. Eileen è corsa ad abbracciarmi dandomi dell'idiota, e adesso ricorre spesso alla carta del "Se vuoi che ti perdoni" per obbligarmi a fare quello che vuole. Simon si è dimostrato molto sollevato che stessimo tutti e tre bene, anche se ho avuto la sensazione che fosse preoccupato più per Keeley che per noi.
Kal mi ha tenuto il muso per ben tre giorni in cui mi ha rinfacciato che sarei dovuto essere con loro in ospedale. Non aveva torto e mi sono sentito un vero schifo. Per quanto riguarda Toby, ci ha stritolati senza pietà appena varcata la soglia ed è servita la promessa di comprargli le figurine della nuova collezione di Harry Potter per calmarlo.
Il momento peggiore, però, è stato con Ian. In sette anni non l'avevo mai visto tanto infuriato ed era così cereo in faccia che, per tutto il tempo della sgridata, Keeley mi ha sussurrato all'orecchio "Sicuro che sviene".
Ovviamente, è toccato a Liam dare spiegazioni; sia io che lei ci aspettavamo che si inventasse qualche balla credibile, invece no.
Ha raccontato la verità, quasi tutta almeno. Il nostro piano per incastrare Vincent, la mia decisione di partire con lui per New Orleans e il salvataggio suo e di Keeley grazie all'intervento di Alan che, in quanto agente della Walker Agency –non potevamo certo dire che fa parte del FBI–, si era già ritrovato nella situazione di strappare ragazzini da parenti discutibili.
Pur avendo omesso qualsiasi dettaglio che riconducesse a Maxwell Storm o una rediviva Elizabeth, abbiamo chiarito il legame di Vincent con chiunque sia dietro agli attacchi alla nostra famiglia. All'indomani il Sunset Times ha ricevuto per via anonima una parte del materiale registrato con il microchip nell'anello, abbastanza per l'articolo di giornale che mi ha scagionato anche agli occhi dell'opinione pubblica.
Così l'immagine degli Hallander è tornata immacolata, Alizée è in via di guarigione e l'intera città non parla che del matrimonio di Matt sempre più vicino e della sua sposa ancora latitante. Tutto perfetto... o quasi.
«Dobbiamo proprio?» sbuffa Eileen, riportandomi alla realtà.
Simon si raddrizza gli occhiali sul naso. «Stefan è stato chiaro. Lo vuole entro sabato».
«Appunto!» Keeley incrocia le braccia sul tavolo e posa il mento sulle mani, annoiata. «Perché dobbiamo farlo con così largo anticipo?»
«Sabato è domani, ficcanaso» le faccio notare.
«Un'ora prima per un compito è più che sufficiente».
Jonas scuote la testa. Dato che il professore lo aveva messo in coppia con mia sorella; abbiamo provato a usare questa scusa per convincere Ian a farci uscire, ma ci ha dato solo il permesso di invitarlo alla villa. «Se perdiamo altro tempo in chiacchiere, ci ridurremo davvero a farlo un'ora prima».
«Non possiamo iniziare senza Ric e Amelia, sono in gruppo con Klaus» precisa Eileen, scrollando le spalle.
A onor del vero anche Rafael doveva unirsi a noi, essendo abbinato a Keeley e Simon, ma sia lui che suo fratello Jacob sono stati espulsi e Oliver, loro padre, è stato rimpiazzato con un altro preside. Sebbene non ci sia nessuna spiegazione ufficiale, sono piuttosto sicuro che la ragione della caduta in disgrazia degli Hale abbia un nome e un cognome: William Hallander.
«AMELIA?» strilla Kal, lasciando cadere il joystick. Si tuffa giù dal divano e controlla in tutte le direzioni. «Dove? Quando? Come?»
Abbozzo un sorriso. «Deve ancora arrivare, tranquillo».
«E io vengo a saperlo solo adesso? Ma che razza di fratelli siete?» Si sistema la maglietta fucsia, si sputa sul palmo e si passa le dita nei capelli neri per metterli in piega. «Come sto?»
Eileen arriccia il naso. «Disgustoso».
«Molto disgustoso» rincara Keeley.
«Voi non capite niente di ragazzi». Kal si volta verso di me a braccia spalancate. «Come mi trovi?»
«Perché io dovrei capirci di ragazzi, scusa?»
Keeley fa spallucce. «Beh, non si sa mai».
Jonas scoppia a ridere. Giurerei che abbia appena sfiorato il dorso della mano di Eileen, posata sul tavolo a pochi centimetri dalla sua. Okay che gli ho dato la mia benedizione, per così dire, ma non esageriamo.
Brontolando tra sé e sé, Kal ritorna a giocare a Resident Evil.
«Cos'è successo tra te e Amelia, comunque?» azzarda Simon curioso.
«Cos'è successo al triangolo amoroso tra te, Klaus e Keeley, comunque?»
Colpisco il libro di storia con un tonfo. «Duunque, qual è la consegna di questo compito?»
«Dobbiamo scegliere delle leggende che abbiano dei riscontri storici e analizzare le differenze tra mito e realtà» spiega Jonas, aprendo il quaderno.
Keeley prende il telefono e sussurra, digitando sullo schermo: «Leggende con riscontri storici...» Solleva lo sguardo. «Aspetta, com'era poi?»
«Non possiamo usare Internet!»
Lei dedica a Jonas un'espressione compassionevole. «Che tenero. È ovvio che non sei del mestiere».
Carol entra in soggiorno, superando le due guardie di sicurezza nell'atrio. «Ragazzi, vi ho portato la merenda!» Esibisce un vassoio di fagottini di pasta sfoglia ripieni. Toby le trotterella dietro tutto fiero, trasportandone un altro con delle tazze di cioccolata fumante. «Non potete fare i compiti a stomaco vuoto».
«Non l'eroina che meritiamo, ma quella di cui abbiamo bisogno» esclama Kal, mettendo in pausa il videogame.
Keeley arraffa una manciata di dolcetti. «Tu no. Shono sholo pe noi che shtudiamo shodo» farfuglia a bocca piena.
Sentiamo suonare al campanello e Carol va ad aprire. Un minuto dopo, Alaric compare in salotto tenendo sottobraccio un grosso pacchetto avvolto in una raffinata carta regalo argentata, con sopra un fiocco azzurro. Ha le guance arrossate dal freddo e il giubbotto fradicio.
«Amico, che notizie dal mondo esterno?» chiede Keeley mentre Kal rimane imbambolato a fissare l'ingresso in attesa.
«RIC!» grida Toby, correndo ad abbracciarlo.
Alaric dà un buffetto affettuoso al mio fratellino, depositando il pacco sul divano con l'altra mano. «Se il Diluvio universale fosse una nevicata, vi direi di mettervi a pregare». Si sfila i guanti, la cuffia e appende il cappotto all'attaccapanni. Sotto indossa una camicia bianca con un blazer trapuntato scuro e dei pantaloni attillati.
Simon aggrotta la fronte. «Perché ti sei conciato così... elegante?»
«Volevo far colpo su vostra nonna».
«Certo» ridacchio, girandomi sulla sedia. «E non c'entra niente che oggi Ed venga dimesso, giusto?»
«Neanche me lo ricordavo, pensa un po'!» esclama Alaric stupito.
Eileen si alza ed esamina incuriosita quello che, con ogni probabilità, è un dono di bentornato per Edric. «Che cos'è?»
Anche Toby si avvicina. «È un dinosauro telecomandato? Io ne voglio uno per Natale!»
«Perché a me non hai preso niente, quando sono andato in ospedale a farmi medicare la schiena?» obietto con finta indignazione.
«Sei scappato da casa mia per andare in fuga romantica con il tuo zietto psicopatico. Ringrazia che non ti ci abbia mandato io, in ospedale». Alaric mi fissa torvo, poi crolla su una poltrona. «Okay, parlando seriamente. Venendo qui, sono stato perquisito tre volte, passato al metal detector e ci sono più videocamere di quante mi aspetterei di trovarne nello showroom di un porno. Non vi pare eccessivo?»
«È quello che cerchiamo di far capire a papà da una settimana!» grida Eileen esasperata, tornando accanto a Jonas. «Io ho di meglio da fare che starmene agli arresti domiciliari!»
Lancio un'occhiata a Keeley per essere certo che sia al sicuro, mi alzo e faccio un cenno eloquente ad Alaric verso le scale. Lui coglie al volo il messaggio e, nonostante non ne sia troppo entusiasta, mi segue senza esitare.
«Torniamo subito» dico agli altri, che ci osservano confusi.
Non proferisco parola finché non siamo arrivati nella mia camera, al terzo piano. In corridoio ci sono un paio di guardie, ma non credo che siano pagate anche per origliare dai buchi delle serrature.
«Se il tuo piano per farti perdonare è sedurmi» commenta Alaric, appena ho chiuso la porta dietro di noi, «sappi che non funzionerà. Sono fedele al mio Edric».
Roteo gli occhi. «Le nostre stanze ormai sono le uniche parti della casa in cui si può parlare senza sembrare in un reality show».
«Quindi non vuoi portarmi a letto?»
«No, Ric. Non voglio portarti a letto».
Alaric si butta sul materasso e si stende supino a osservare il soffitto. Vorrei lamentarmi per il fatto che ha ancora le scarpe sporche addosso, o che mi sta facendo delle pieghe alle lenzuola, ma mi costringo a stare zitto. Non sarebbe un buon inizio per una riconciliazione.
«Senti» comincio. «So che sei arrabbiato per quello che è successo...»
«No, lo capisco. Non volevi condividere con me informazioni top secret. Colpa mia che pensavo di essere nella tua cerchia ristretta della fiducia».
«Certo che ci sei!» protesto indignato.
«Ah sì?» Solleva la testa, puntellandosi sui gomiti. «Però non ti ha impedito di intraprendere una solitaria missione suicida, quando ti sarebbe bastato chiedermi di guardarti le spalle».
«Me l'avresti lasciato fare?»
Ci riflette un secondo. «Probabilmente no. Ma avresti potuto tentare, invece di sgattaiolare via come un ladro».
«Avevo bisogno di incontrare Vincent da solo, okay? So che non ha senso...»
«Sono il tuo cazzo di migliore amico!» sbotta Alaric, tirandosi a sedere. «Sono sempre rimasto al tuo fianco a prescindere dalle opinioni degli altri sul tuo conto, anche quando sapevo che stavi sbagliando. Hai idea di come mi sarei sentito se ti fosse successo qualcosa? Tu avrai una squadra di fratelli, Klaus, ma io ho solo te!»
Con un sospiro, infilo le mani nelle tasche dei pantaloni e abbasso lo sguardo. «Mi dispiace».
Il silenzio che segue è talmente lungo da indurmi a sbirciarlo con la coda dell'occhio per accertarmi che non si sia addormentato, invece mi sta ancora fissando. Sul viso ha la stessa espressione impietosita che si riserverebbe a un cucciolo affamato che elemosina del cibo.
«Ma perché voi Hallander siete così adorabili? Che rottura» mugugna Alaric, balzando in piedi. «Va bene, sei perdonato. A una condizione».
Un sorriso si forma sulle mie labbra. «Vuoi la mia benedizione per stare con Ed?»
«A che mi servirebbe? Non riesco a immaginare neanche un motivo per cui non dovresti ritenermi il partner ideale per lui».
«Beh, tralasciando che la tua relazione più duratura sarà stata di due giorni...» Cogliendo la sua occhiataccia, mostro il pollice all'insù. «Scusa, hai ragione. Partner ideale. Qual è questa condizione, allora?»
«Voglio un abbraccio».
«Un abbraccio?» ripeto interdetto.
Alaric annuisce, tronfio. «Oh sì, voglio uno dei tuoi rarissimi abbracci. Sono quattro anni che me lo devi, lo pretendo».
La richiesta mi lascia sbalordito, ma non discuto. Mi avvicino e, prima ancora che possa muovermi, mi ha già gettato le braccia al collo e mi sta stringendo... o soffocando, dipende dai punti di vista. Lo ricambio, anche se in maniera più rigida di quanto avrei voluto.
Ci stacchiamo dopo una manciata di secondi.
«Non male, ma sembri un po' uno stecchetto di legno». Fa un movimento eloquente con le sopracciglia. «Dovresti chiedere a Keeley di aiutarti a fare pratica» suggerisce malizioso.
«Simpatico. Adesso andiamo, fangirl».
Appena spalanco la porta per uscire, un'ombra grigia scivola tra le mie gambe. Mi chino e provo ad accarezzarla sul musetto, ma Sparrow mi soffia correndo a rintanarsi sotto il letto. Toby ormai passa ore e ore a tentare di scovarla per casa o di trascinarla fuori dai suoi nascondigli; è un miracolo che non si sia ancora beccato un graffio.
«Poverina. Si nasconde sempre da quando ci sono tutti questi estranei armati per casa».
Alaric però non mi sta ascoltando, anzi direi che ho perso ogni briciola della sua attenzione dal momento in cui il suo sguardo si è posato su Edric, immobile in mezzo al corridoio. Il suo aspetto è migliorato dall'ultima volta che sono andato a trovarlo, o magari sono solo felice di vederlo senza il camice da paziente addosso o tubicini attaccati al suo corpo.
Ha il braccio destro gessato fin sotto alla spalla, dei graffi non completamente rimarginati sul viso e la neve tra i capelli, che appaiono più neri e spettinati che mai. Le guance rosse, in netto contrasto con la carnagione pallida, conferiscono un alone di tenerezza ai suoi lineamenti e le iridi sono dello stesso azzurro chiarissimo del ghiaccio.
«Ehm, ciao» balbetta mio fratello, e sono piuttosto sicuro che meno del dieci percento di quel saluto sia rivolto a me.
Alaric risponde con un sorriso ebete. «Ciao. Come stai?»
«Bene, a parte l'impressione di essere stato in un frullatore». Edric lancia una rapida occhiata attorno. Oltre a noi, c'è solo una guardia in fondo al corridoio che fa avanti e indietro. «Grazie comunque. Per essere venuto in ospedale e... insomma, per esserti preoccupato. Per me».
«Oh, figurati. Sarei rimasto appiccicato al tuo letto per tutto il tempo, ma in giro c'era sempre tuo padre. O, peggio ancora, tua nonna». Gli rivolge uno sguardo premuroso. «Non volevo metterti in difficoltà».
«Sì, lo so».
«Ah, ti ho preso un regalo. È in soggiorno. Fai il bravo e non aprirlo prima di Natale» lo ammonisce Alaric, puntandolo con l'indice.
«Non è un maglione natalizio, vero?»
«Potrebbe offendermi che tu mi creda così scontato».
Edric ridacchia e fa per spazzolarsi i fiocchi candidi dai capelli, ma lui gli blocca la mano con dolcezza. «La neve ti dona» mormora, facendolo avvampare.
Aspetto qualche secondo in silenzio, poi tossisco. «Io, ehm, vado di sotto. Amelia sarà arrivata ormai e avremmo un compito da fare...»
«Giusto, il compito». Il tono di Alaric è l'equivalente di "E che me ne frega?".
«Già. Comunque ben tornato, fratellino».
«Sì, certo» replica Edric con una sfumatura di delusione. «Anch'io devo studiare. Dopo una settimana di assenza, ho parecchie cose da recuperare».
Lo superiamo e ci incamminiamo lungo il corridoio. Ci siamo allontanati di pochi passi quando sentiamo di nuovo la voce di mio fratello. «Ric».
«Sì?» dice, voltandosi.
Ancora fermo nello stesso punto, Edric deglutisce come se fosse in bilico tra sputare un rospo o ricacciarlo giù per la gola. «Ci sarai al matrimonio?»
«Cibo a scrocco e champagne, non potrei mancare».
Questa volta, più che un rospo sembra che debba vomitare fuori un lunghissimo serpente. «Ci vieni... con qualcuno?»
«Con Keeley».
Dopo un brevissimo istante di sospensione, in cui il mio cervello tenta di collegare "Keeley" e "Verrà al matrimonio con il mio migliore amico", per poco non spicco un salto. «Tu cosa?»
«Che c'è? A lei serviva un accompagnatore per non avere seccature con vostro padre e io ho accettato. Piuttosto, dovresti ringraziare che lo abbia offerto a uno che non vuole infilarsi nelle sue mutandine» obietta Alaric.
Un lampo di sollievo guizza sulla faccia di Edric e sorride. È il sorriso più allegro che io gli abbia visto fare da che Alizée gli ha detto che avrebbe incontrato Stephen Hawking, a dieci anni. «Bene, perfetto. Allora ci vediamo presto».
«Ci puoi scommettere».
Edric afferra la maniglia della sua stanza, ma ci ripensa: si gira e indica la camicia di Alaric con il mento. «Per la cronaca, il bianco ti dona».
Un paio di ore dopo, sto picchiettando sulla porta con un gesto impacciato. Attendo di ricevere il permesso dall'altra parte e apro quanto basta per sgusciare dentro. «Carol ha detto che volevi parlarmi» affermo, indugiando sulla soglia. Spero che mi dica che si è sbagliata e mi permetta di battere in ritirata.
Ian solleva lo sguardo dalle scartoffie che sta leggendo. «Sì, vieni pure».
E che ca...
Rassegnato, chiudo la porta e avanzo nel suo ufficio. È meno ordinato rispetto allo studio di Alizée, ma molto più ospitale: un caminetto scoppietta nell'angolo, ci sono foto di famiglia ovunque e dei vecchi attrezzi da lavoro sono sparpagliati sugli scaffali alle sue spalle.
In sette anni sono stato qui solo un'altra volta; Kal mi aveva convinto a scassinare la serratura con il grimaldello, cosicché lui potesse prendergli qualche banconota dal cassetto per comprarsi i fumetti. Non volevo accettare, ma erano i primi giorni dopo che avevano iniziato ad accettarmi e sarei stato disposto a fare qualsiasi cosa per non essere tagliato di nuovo fuori.
Siamo stati beccati, ovviamente. E il suo discorso era stato di gran lunga peggiore di un rimprovero: loro mi avevano accolto e io li stavo praticamente derubando. Mi è sembrato di essere una persona orribile. Ecco, la sensazione che provo in questo momento è identica.
«Come stai?» mi chiede Ian, raddrizzandosi sulla poltrona.
Devo trattenermi dal controllare se c'è qualcun altro dietro di me a cui potrebbe rivolgersi. «Bene, grazie».
«La schiena?»
La situazione è sempre più strana. «Ehm, mi fa ancora un po' male. Ma va meglio, grazie».
Ian abbozza un sorriso. «Puoi anche non mettere un "grazie" alla fine di ogni frase».
Non trovando nessuna risposta educata, mi limito ad annuire. Finora rimanere zitto è stata la strategia vincente per andare d'accordo con lui.
«Scusami, non ho un'altra sedia» dice imbarazzato.
«Sto bene in piedi, gra...» Mi schiarisco la gola per seppellire la parola che stava per sfuggirmi.
«Volevo parlarti da quando sei tornato, ma ho preferito aspettare che ti riprendessi». Ian si alza, fa il giro della scrivania e si appoggia sul bordo. «Riguarda Vincent».
Quel nome mi provoca un brivido. È una settimana che tutti evitano di pronunciarlo in mia presenza, temendo di risvegliare brutti ricordi; questo senza sapere che le mie notti sono costellate da incubi che mi impediscono di dimenticare.
«Siete stati due giorni da soli. Magari ti ha raccontato delle... cose che potrebbero averti confuso. Cose non vere. Quindi sarebbe comprensibile se tu volessi farmi delle domande e sappi che non avrei nessun problema a rispondere».
Lo fisso intensamente. La luce pallida del tardo pomeriggio penetra dalle finestre e gli illumina gli occhi, azzurri come quelli di Edric. Per un istante sono sul punto di infrangere la promessa fatta a Liam di non affrontare l'argomento, almeno finché non abbiamo i risultati del test del DNA.
Mi mordo la lingua per frenarmi e scuoto la testa.
«Niente? Sei sicuro?»
«No, niente». Vedo la sua l'espressione distendersi un poco e non ho più il minimo dubbio: nasconde qualcosa. Forse sa persino che non è Michael il responsabile dello stupro. «A parte che sei stato tu a consegnarmi a lui» aggiungo in un soffio.
Ian si ritrae, quasi lo avessi appena trapassato con una freccia. «Ti ha detto questo?»
«Perché, ha mentito?» Mi pento subito di quel tono di sfida, consapevole che non è l'approccio giusto se voglio ricavare qualche informazione. «Intendo che non è una novità. Non volevate tenermi e immagino che Vincent sia stato la scelta più logica».
«Non è andata così!» esclama Ian sulla difensiva. Sospira e si passa una mano sulla faccia. «Klaus, darti via non è stata una decisione che abbiamo preso alla leggera. C'erano delle circostanze per cui era la cosa migliore per tutti, te compreso».
«Che circostanze?»
«Mi dispiace, questo non sta a me. Devi discuterne con tua madre».
Mi giro e comincio a esaminare gli oggetti sui ripiani appesi alle pareti. Mi soffermo su una bellissima scacchiera interamente di legno, pezzi compresi, e su una piccola chitarra con dei sottili fili di ferro al posto delle corde.
So che Ian è un appassionato di falegnameria; in passato ha addirittura costruito una stupenda casetta sulla quercia per me e i miei fratelli ed è un vero peccato che l'abbiamo distrutta (lunga storia) prima che Toby fosse abbastanza grande, e in salute, da poterci salire. L'avrebbe adorata.
«Neanch'io ho mai avuto un padre. Non uno decente almeno» riprende Ian, cogliendomi alla sprovvista. Non mi aspettavo che si mettesse a parlare della sua infanzia con me. «Jonathan Blackwood era il mio unico punto di riferimento. Capiscimi, ero un ragazzino di ventidue anni che non aveva un soldo in tasca e doveva pagare un mucchio di debiti. Per me, lui era quello che poteva risolvere tutti i problemi schioccando le dita. Quindi, quando mi sono trovato con un neonato che né io né Alizée eravamo in grado di tenere... ho chiesto il suo aiuto».
Mi volto di scatto. Dal mio volto deve trapelare benissimo ciò che sto provando, perché Ian si affretta a spiegare con fare mortificato: «Lo so che è assurdo. Ma mi aveva assicurato che ti avrebbe trovato una bella famiglia e non avevo ragione per non credergli. Era negli interessi dello stesso Jonathan farlo. Pensa cosa ne sarebbe stato della fragile reputazione che stava ricostruendo, se si fosse scoperto che aveva affidato il nipote a un delinquente arrestato più volte per risse e furti».
Non ha torto. Mio nonno era un uomo spregevole, ma di certo non stupido. Perché avrebbe dovuto correre un rischio del genere, quando aveva tutti i mezzi per evitarlo? Sembra una decisione troppo impulsiva per qualcuno così furbo, come se fosse stata dettata da... altro.
«Ho sbagliato a fidarmi di lui, l'ho capito molti anni dopo quando tu e Gladys avete bussato alla nostra porta. Ti direi che mi dispiace, ma non credo valga granché in queste situazioni». Ian si stringe nelle spalle. «Oggi agirei in maniera molto diversa».
Non gli voglio bene, non posso negarlo. Non lo odio nemmeno, semplicemente non rappresenta niente per me. Però mi ha sempre reso felice –sì, anche un po' invidioso– sapere che i miei fratelli avessero un padre che, nonostante i suoi difetti e le sue mancanze, li ama davvero. Ed è solo per loro che lo perdono.
«Non importa. Se fossi finito in una bella famiglia, probabilmente non sarei mai stato un Hallander. Avere i miei fratelli vale tutto ciò che ho passato, quindi mi va bene così».
Lui mi lancia un'occhiata scettica, ma non insiste. «Fra poco tornerò in ospedale» annuncia, incrociando le braccia sul petto. «Potresti venire con me. Sei l'unico di voi sette che non è ancora andato a trovarla».
«Perché altrimenti lo metteranno sul giornale?» domando ironico.
«No, perché è tua madre. Non cerco di costringerti, è soltanto una proposta».
Ruoto l'anello con il leone intorno al dito, osservando i riflessi scintillanti sulla pietra d'onice. «Non... cioè, in realtà stiamo per fare l'albero di Natale».
È la motivazione più idiota che potevo dare per rifiutarmi, ma non ho nessuna intenzione di aprirmi con lui su quanto non sono pronto ad affrontare Alizée. Non adesso, dopo tutto quello che ho scoperto. «E comunque dubito che si sia accorta della mia assenza».
Ian annuisce, si solleva e ritorna seduto sulla poltrona dietro la scrivania. «Si è sempre accorta della tua assenza, Klaus» sussurra, per poi immergersi di nuovo nelle sue carte in un chiaro segno di congedo.
Esco in silenzio dal suo ufficio e percorro distrattamente il labirinto di corridoi che conosco a memoria. Lungo la strada mi imbatto in una cameriera che sta litigando con alcune catenelle di perline imbrigliate che pendono dal soffitto. La riconosco all'istante.
«Ehi, serve una mano?»
Arianne si soffia via un riccio scuro dal viso. «Vuoi impazzire anche tu?»
Ridacchio, allungo il braccio e strappo via l'intero groviglio, provocando un tintinnio di cristallo contro cristallo.
«Rapido e indolore. Non male» commenta divertita.
«Ne metteranno altre». Sorrido e le restituisco l'ammasso di catenelle che ho appena staccato. «Non voglio farmi gli affari di nessuno, ma permettimi un consiglio. Mio fratello è bravissimo a scusarsi solo quando ha la certezza che sarà perdonato, forse perché non è abituato a sbagliare. Qualunque sia il problema, ti suggerisco di fare il primo passo se ancora ti interessa».
Arianne arrossisce, ma riesce a sostenere il mio sguardo. «E se sono io a non interessargli più? Non mi sembra molto... preso».
Ridacchio. «Beh, non è il tipo che scrive lettere d'amore. Più quello che, se sa che ti piacciono le rose, ti regala direttamente una fioreria. Con lui devi leggere tra le righe».
La lascio al suo lavoro e corro in soggiorno, che già è stato ripulito dalle macchie di cioccolata e dalle briciole di pasta sfoglia rimaste dal nostro spuntino. Recupero il cappotto e, mentre lo abbottono, Carol mi passa vicino con la scopa in mano.
«Tesoro, è andato tutto bene con il signor Ian?» chiede in tono premuroso.
«Sì sì, tutto okay». Non è neanche una grossa bugia. «Non vieni a fare l'albero con noi?»
Mi dà una carezza. «Spazzo un altro po' e arrivo. Dieci minuti al massimo».
Faccio per precipitarmi nell'atrio, ma torno indietro e le stampo un bacio sulla guancia. Gli occhi di Carol si riempiono di lacrime, facendomi sentire quasi in colpa ad andarmene dagli altri in giardino.
Il vento si è calmato, ma la neve continua a scendere fitta e l'aria gelida mi congela i polmoni a ogni respiro. Persino Kal si è messo un maglione e dei pantaloni di lana, anche se sospetto che lo abbia fatto solo per accontentare Carol. Amelia se n'è andata prima degli altri, Jonas non so dove sia mentre Alaric sta aiutando Simon a trasportare gli ultimi scatoloni straripanti di decorazioni. Eileen sta cercando di convincere Liam a indossare un orribile berretto con delle corna da renna.
«Spiacente, c'è un limite a quello che posso sopportare ed è...» Indica il copricapo con una smorfia. «... esattamente questo».
«Rinuncia, fratello» gli grida Kal. «In questa casa vige la tirannia delle donne».
Tenendomi a distanza di sicurezza da mia sorella, e dai suoi cappellini, mi avvicino al gigantesco abete bianco che è stato posizionato su un pilastro al centro del cortile. È alto tre metri e ancora completamente spoglio, se non si considerano i mucchi candidi tra i rami.
Keeley lo sta fissando meravigliata. «Lassù non ci arriva neanche lo spilungone».
«Di solito usiamo la scala» rispondo, affiancandola. Si è imbacuccata come se dovesse scalare l'Everest: giubbotto allacciato fino al mento, cappuccio tirato su, guanti foderati di pelo e sciarpa su bocca e naso. Tutto rigorosamente rosso. «Sembri una sfera natalizia».
«Allora dovrete stare attenti a non appendere anche me. A differenza tua, soffro di vertigini» ribatte con la voce ovattata.
«Un giorno voglio portarti sulle montagne russe».
«Quando sarò stanca di vivere, ti faccio un fischio». Keeley si volta, poi nota il mio abbigliamento total black. «Anche i Dissennatori festeggiano il Natale? Sono scioccata».
Faccio una risata sarcastica. Jonas spunta da dietro l'angolo della villa, trascinandosi dietro una scala. La getta senza tanti complimenti e si scompiglia i capelli fradici. «Beh, divertitevi».
«Tu hai già fatto l'albero?» gli chiede Eileen, ficcando a forza il berretto sul capo di un rassegnato Liam.
«Non ce l'ho. Aiutavo Liz a fare il suo solo perché le piaceva, quest'anno non festeggerò».
Beh, senza dubbio sa come intenerire mia sorella.
«Puoi restare e farlo con noi, anche Ric ci dà una mano. Nessuno avrebbe niente in contrario, no?» Rivolge a ciascuno di noi delle occhiate potenzialmente assassine.
«GUARDATE! GUARDATE COSA HO FATTO!» strilla Toby emozionato, saltellando attorno a un pupazzo di neve così sbilenco che ben presto gli si staccano le braccia. «No, aspettate. Non guardate». Si china e riattacca entrambi i rametti con cura. «Ecco, finito! Potete guardare!»
Si leva un coro di "È stupendo" o "Wow" e rischio di strozzarmi dal ridere quando Keeley mi sussurra che, se fossimo Pinocchio, ci saremmo già infilzati a vicenda con i nostri nasi.
Felicissimo, Toby si rialza; operazione non proprio semplice visto che è infagottato come un piccolo eschimese. «Dov'è papino? Voglio dirgli che ci sono riuscito tutto da solo!»
«Deve andare in ospedale dalla mamma. Quest'anno non farà l'albero con noi» spiega Simon, sfregandosi gli occhiali appannati.
«Oh». Un po' del suo entusiasmo si sgonfia. «La mammina però torna per Natale, vero?»
Nessuno ha il cuore di rispondergli che le probabilità sono piuttosto basse. Veniamo salvati da Kal che intanto si è appostato furtivo alle spalle di Edric; raccoglie una manciata di neve e gliela infila sotto la felpa. A diretto contatto con la pelle, a giudicare dalla sua reazione furiosa.
«PORCA MISERIA! SEI UN IDIOTA!» urla, saltellando per cercare di scrollarsela di dosso.
Kal sogghigna. «Non hai voglia di insultarmi con una vera parolaccia?»
«No, ho voglia di strangolarti!»
«Con una mano non ci riusciresti».
«Io ne ho due» interviene Alaric.
«Ragazzi, vi prego». Solo allora vedo che c'è anche Matt. È steso su uno sdraio in giacchetta di jeans, riparato da un ombrellone innevato, e sta pigramente sventolando un cocktail ghiacciato verso di noi. «Non uccidetevi durante la mia supervisione, per favore. Ho promesso a vostro padre di comportarmi da adulto serio e responsabile».
Jonas aggrotta la fronte. «Allora perché beve da mezz'ora?»
«Ho detto serio e responsabile, ragazzino, mica sobrio».
Appena Carol si è unita a noi, cominciamo ad addobbare l'albero con palline, ghirlande, nastri e ninnoli di ogni forma e tipo. A un certo punto, Keeley mi lancia in faccia un'enorme palla di neve e inevitabilmente ci ritroviamo a ingaggiare una guerra che termina solo quando Edric inciampa e finisce per bagnarsi il gesso fino al polso. Carol provvede subito ad asciugarlo con un phon, ma credo che dovrà farselo controllare.
Alla fine, arriva il momento cruciale: il puntale.
Eileen mostra la stella cometa cosparsa da tanti minuscoli cristalli e agganciata a un cilindro a spirale; l'albero cambia tutti gli anni, ma quella c'è sempre stata fin dal mio arrivo e anche prima. «Chi vuole metterla?»
«Io! Io! Lo faccio io!» strepita Toby, sbracciandosi.
«Non so. La metti sempre tu, dovresti lasciarlo fare a qualcun altro...» lo punzecchio.
Il suo sorriso si spegne. Prende a giocherellare con la nappa del suo berrettino di Babbo Natale e borbotta sconsolato: «Okay».
«Klaus fa il simpatico. Certo che puoi» lo rassicura Eileen, porgendogli il puntale.
Toby lo afferra con un urletto eccitato. Liam lo prende in braccio con delicatezza e sale qualche gradino della scala, che io e Simon teniamo stretta per non farla traballare.
Carol si torce le dita, nervosa. «Attenti a non farvi male».
Sistemata la cometa, il nostro fratellino si guarda attorno e agita le manine verso il cielo tinto dal tramonto. «Sono altissimo!» esclama estasiato.
Liam scende e lo deposita a terra, dandogli una pacca affettuosa. Essendo il più anziano, gli concediamo l'onore di premere il tasto del telecomando e un mantello di luci dorate si accende sull'albero.
Approfittando della distrazione generale, Alaric mi scavalca per posizionarsi dietro Edric e accosta il viso al suo da sopra la sua spalla, così che le loro guance si sfiorano. Siamo troppo all'aperto perché ci siano videocamere nei paraggi, quindi mio fratello si rilassa e gli appoggia leggermente la schiena contro il petto. Ha un fremito quando lui gli sussurra qualcosa che non capisco all'orecchio, cingendogli i fianchi per un istante prima di ritrarsi.
«Daisuki» sibila Edric, girandosi a guardarlo. «Che significa?»
Alaric sfodera un ghigno. «Che bella sensazione, sapere qualcosa che tu non sai».
«Goditela, non capiterà spesso. Allora?»
«Te lo dirò, ma ora devo proprio andare». Gli ammicca, ci saluta tutti e si allontana verso la propria auto.
Poco dopo anche Jonas se ne va; per un secondo mi è sembrato in procinto di baciare Eileen, ma ha cambiato subito idea e le ha rivolto solo un cenno. Non ho ancora capito se stiano insieme o meno, probabilmente non lo sanno neanche loro.
Dardeggio lo sguardo su Keeley, che ha l'aria piuttosto assorta mentre precede i miei fratelli e Carol oltre l'ingresso. Non abbiamo parlato molto in questa settimana, o almeno non di argomenti importanti. Mai di noi, ammesso che esista.
Al portone, Toby si gira e tira su con il naso rosso per il freddo. «Tu non vieni, fratellone?»
«Dopo».
Mi dirigo alla piscina, che è stata coperta per proteggerla dalla neve, e trovo Matt ancora sullo sdraio. Finge di sonnecchiare, ma sta tremando infreddolito e tamburella le dita sottili sul bicchiere vuoto. All'improvviso un sorriso gli increspa le labbra, come se avesse percepito la mia presenza.
«Ciao, piccolo Mozart» sbadiglia, schiudendo le palpebre.
«Hai cinque minuti per me?»
«Per te anche un'ora».
Iniziamo a passeggiare per il giardino, scortati da un paio di guardie che si tengono a discreta distanza. Superiamo il cancello ed è piacevole poter prendere una boccata fuori dalle mura di casa, sebbene sia inquietante essere pedinati da due omaccioni con l'incarico di proteggerci.
Sbircio Matt di traverso. Ha un'espressione molto pensierosa. «È successo qualcosa? Ultimamente sei... non so, diverso» commento accigliato.
«Mmh, davvero? Mi dispiace. Sarà perché Elise non è ancora arrivata». Emette un verso ironico. «Sarebbe il colmo se mio fratello invitasse mezza città al matrimonio e io venissi piantato sull'altare».
Deduco che Elise sia la sua fidanzata, non l'aveva mai nominata prima d'ora. «Ma no, dai. Avrà solo avuto un... contrattempo alle Hawaii» sparo lì.
«No, è che le ho detto che mi sono fatto di nuovo».
«Ah».
Procediamo in silenzio sul marciapiede, la neve alta fino a metà coscia, passando di fronte a sontuose ville piene di lucine e festoni, con il fumo che esce dai comignoli e Santa Claus arrampicato sui balconi con la slitta e le renne. C'è profumo di caramelle e da qualche parte si levano i cori natalizi.
«Quest'estate non ti ho ignorato, Klaus. Ero in un centro di recupero» confessa Matt con aria di profonda vergogna. «Volevo parlartene, ma poi ho pensato "E se ci ricado e lo deludo ancora?", quindi ho deciso di spiegarti tutto al mio ritorno. Così, nel caso, non avresti saputo nulla del mio epocale fallimento. Invece ce l'ho fatta. Cavolo, erano anni che non stavo sei mesi senza toccare quella roba».
«Elise ti ha aiutato a disintossicarti?»
Lui annuisce. «Da quando sono atterrato a Sunset Hills, il mio unico pensiero è stato venirtelo a dire. Ma tu non c'eri. Ti ho anche cercato dal tuo migliore amico, niente. Era una maledetta congiura cosmica». Fa una risata amara. «Ero disperato e ho mandato tutto a puttane, tanto per rimanere coerente».
«Hai commesso uno sbaglio, va bene. In ogni percorso si può cadere, non significa che sei tornato al punto di partenza. Basta rialzarti e andare avanti» replico con fermezza. «E comunque non mi hai deluso».
«Lo so, ma vorrei riuscire a meritarmi l'incrollabile fiducia che riponi in me». Matt reclina la testa, osservando il cielo grigio per un attimo. «Ti serviva un consiglio, Mozart?»
«Non proprio». Ficco le mani intirizzite in tasca. «C'è una cosa che Vincent ha detto su di te. Volevo sapere se fosse vera...»
Cammino quasi per un metro prima di accorgermi che si è fermato. È sbiancato di colpo e ha una maschera indecifrabile sul volto. «Quale cosa?»
«Che il motivo per cui mi vuoi bene è che ti rivedi in me» mormoro imbarazzato. Nella mia mente suonava molto meno infantile da dire. «Di sicuro entrambi siamo bravi a combinare casini, ma spero di somigliarti anche in altro».
Matt tira un lungo sospiro, recuperando un po' di colorito. E sorride. «No, Klaus. Non mi rivedo per niente in te».
Una fitta di delusione mi attraversa il petto e chino il capo, ma poi lo risollevo quando sento le sue mani che si posano sulle mie spalle. Mi sta fissando in una maniera così strana da lasciarmi di stucco. «O, per la precisione, vedo in te tutto ciò che non sono mai stato. Io ho permesso al mio passato di cambiarmi in peggio e ho commesso un numero vergognoso di errori che hanno fatto soffrire persone che amo».
«Sì, beh, anche molte delle mie scelte hanno fatto soffrire persone che amo» obietto mogio.
«Volevi soltanto proteggerle, perché sei così altruista da mettere loro prima di te stesso. Non hai permesso all'inferno che hai vissuto di rovinarti, anzi lo hai usato per diventare l'uomo straordinario che ho di fronte». Mi spinge in alto il mento per indurmi a guardarlo negli occhi. Non avevo realizzato di essere alla sua stessa altezza, ormai. «E ne sono assolutamente fiero».
A quelle parole, ho un tuffo al cuore. Lo abbraccio senza rifletterci, pensando tra me che forse quel test del DNA non ha nessuna importanza. L'unico uomo che potrò mai considerare mio padre è quello che sto stringendo in questo momento, non un mostro con cui condivido solo il sangue.
«Sì, piccolo Mozart. Ti voglio un gran bene anch'io» ridacchia Matt, togliendomi la neve dai capelli con una mano. «Ma sarebbe meglio tornare indietro. Sembri un ghiacciolo».
«Buona idea».
«Prima, però, avrei due... proposte, chiamiamole così, da farti. Una è questa: ti va di suonare al mio matrimonio? La marcia nuziale, se la mia promessa sposa si presenta, in caso contrario quella funebre».
Arcuo le sopracciglia. «Davvero? Vuoi che suoni?» chiedo perplesso.
«Sì, certo. Sei il miglior pianista che conosco, dopo di me».
«In realtà, credo che l'allievo abbia superato il maestro da un pezzo».
«E il maestro prende a calci l'allievo, se lo ripete» risponde Matt, dandomi una gomitata giocosa. «È un sì, allora?»
«Ovvio che è un sì!» La mia voce tradisce tutto l'orgoglio che mi sento dentro. In parte avevo sperato in una richiesta simile, ma non avevo voluto illudermi. «E la seconda proposta?»
Matt fa un sorriso nervoso e mi dà un bacio sulla fronte come se fossi un bambino. «Ne parliamo durante il tragitto».
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