52. ELAINE
Nel momento in cui le sue labbra lasciano le mie, ho la sensazione di soffocare, come se le acque della piscina mi avessero improvvisamente inghiottita, strappandomi l'aria dai polmoni. Il mio braccio lo cinge ancora attorno al busto e la mia mano gli esplora l'addome, accarezzando i muscoli morbidi e bagnati sotto la camicia ormai trasparente.
È perfetto, magnifico, con quella bellezza inconsapevole che risveglia negli artisti il bisogno di catturarla in un dipinto. I suoi fianchi snelli e sottili premuti ai miei, il fisico flessuoso di un felino segnato di cicatrici pallide, gli occhi simili a mercurio ardenti di desiderio, i capelli fradici che gli risplendono come un'aureola nel gioco di luci e ombre del suo volto.
A poco a poco che si stacca da me, riesco a pensare solo a ciò che ha detto: "Che tu mi voglia o meno, io ti appartengo". E io lo voglio. Se solo potessi dirgli quanto disperatamente vorrei che lui fosse mio. Mio per davvero, completamente.
Non come un oggetto, ma quel possesso dolce e protettivo che ti dà il diritto di reclamare una persona così che tutti capiscano che il suo cuore è soltanto tuo.
Forse, è sbagliato da parte mia. Non dovrei amare il modo assoluto con cui si abbandona a me, il potere incondizionato che mi concede su di sé, la consapevolezza che mi permetterebbe qualsiasi cosa, senza difese né emotive né fisiche.
È un amore egoistico, se si brama tanto qualcuno da volerlo fare totalmente proprio, anima e corpo?
«Ma quanto cavolo è bello il kajal?»
Sollevo di scatto lo sguardo dal libro, riscuotendomi dai miei pensieri.
Kal è stravaccato dall'altra parte del divano, intento a sfogliare una rivista a tema "beauty & estetica", con i miei piedi posati sulle ginocchia mentre mi picchietta le dita smaltate sulla caviglia. Indossa una t-shirt nera su cui è stampato un pulcino armato di pistole e dei pantaloncini rosa e gialli, con i laccetti sciolti e sfilacciati, che lasciano in mostra le gambe glabre distese sul tavolino. A giudicare dai polpacci robusti, deve aver fatto parecchio sport che implicava un particolare esercizio degli arti inferiori.
Corrugo la fronte. «È quella specie di matita-sushi che si mette con i bastoncini?»
«Signore, perdona questa miscredente». Kal mi fissa da sotto le sue lunghe ciglia coperte di mascara viola. I capelli scuri gli scintillano per i glitter e gli zigomi delle guance sono evidenziati da un fard rosato. «Il kajal è diverso dalla matita. Più pastoso e sfumato, e anche malleabile. Ha una tenuta migliore persino sulla rima interna».
«Quello che hai detto è comprensibile quanto il mio arabo» borbotto, abbassando di nuovo gli occhi sulla pagina. Non mi ero nemmeno accorta di aver riletto la stessa riga almeno dieci volte.
«Parli arabo?»
«Eccome!»
Kal mette via la rivista e si stende accanto a me, facendomi scivolare i piedi sul bracciolo. Quando appoggia la testa sulla mia spalla, un delicato profumo di nocciola misto a shampoo alla vaniglia mi invade le narici. «Non credevo ti piacesse Twilight».
«Non mi piace» sospiro rassegnata. «Ma leggere di qualcuno che ha una vita sentimentale più disastrosa della mia è confortante. Insomma, Miss Cado-a-ogni-passo si è innamorata di un cadavere centenario solo perché sbrilluccica al sole!»
«E di un lupo peloso». Kal prende una ciocca dei miei capelli blu e mi solletica il naso con le punte. «La zoofilia è peggio della necrofilia. Almeno Edward è un gran figo».
«Primo, sono team Jacob. Secondo, smettila che mi fai starnutire!» Gli do un pugno al braccio, ottenendo in cambio solo un ghigno sfrontato. Gli scocco un'occhiata torva e lo minaccio in un sussurro: «Ho un coltellino e non ho paura di usarlo».
«Inizia a vedersi la ricrescita» commenta lui, impertinente.
«Tu non avrai neanche la crescita, se...»
All'improvviso, un rumore di passi riecheggia in cima alle scale. Mi volto e vedo Ian che scende i gradini, tenendo una mano distrattamente infilata nella tasca dei pantaloni in twill. Ha un'espressione assorta e i lembi della camicia spiegazzata gli sporgono fuori dalla cintura, come se si fosse vestito di fretta.
«Papà!» Kal si solleva, puntellando i gomiti sullo schienale del divano. «Perché hai la faccia di uno che ha combattuto contro un demone in bagno?»
«Io stavo per dire "post-coito", ma Miss Peregrine è fuori e preferisco la tua ipotesi» obietto, facendo spallucce.
«Per Raziel, che brutta immagine!»
Giunto in salotto, Ian ci fa un cenno vago in risposta e si ferma davanti al camino scoppiettante. La luce rossastra delle fiamme gli mettono in risalto il nero lucente dei capelli, ancora un po' bagnati per la doccia, e gli occhi sembrano ardere come gemme di ghiaccio. Io e Kal ci scambiamo un'occhiata interrogativa, ma rimaniamo entrambi in silenzio.
Infine, dopo qualche secondo, si gira verso di noi. «Scusatemi, problemi negli affari». Abbozza un piccolo sorriso. «Keeley, ti stavo cercando. Se sei libera, vorrei parlarti».
«Davvero?» Mi raddrizzo di scatto, colta alla sprovvista. «Non è mai una buona notizia, in questa casa».
L'attenzione di Ian viene attirata sulla rivista finita per terra, aperta sulla sezione degli ombretti. Si avvicina e la raccoglie, esalando un respiro esasperato. «Kaleb, non dobbiamo rifare il discorso sul fatto che sei quasi un uomo, vero?»
«Intendi quello in cui mi ripeti che un vero maschio deve essere un macho che fa molta palestra, tratta bene le ragazze e non si trucca?» sbuffa lui in tono annoiato.
Emetto un verso stupito. «Quindi, Liam è un macho potenziato o roba simile?»
«Sono piuttosto sicuro di non aver usato queste parole». Ridacchiando, Ian gli dà una pacca affettuosa e indica col mento il piano di sopra. «Forza, da bravo. Vai a struccarti».
«Ma...»
La voce dell'uomo si indurisce un poco. «Non costringermi a ritirare la tua collezione dei fumetti di Fullmetal Alchemist».
«Manga, non fumetti!» lo correggiamo in coro, scandalizzati.
Cogliendo lo sguardo serio del padre, Kal lancia le braccia in alto in segno di resa, mi scavalca sbuffando e si butta giù dal divano. Ogni traccia della solita ilarità si è dissolta dal suo viso, contratto in una smorfia irritata. «Anche Jack Sparrow si trucca, comunque» brontola, sfrecciando rabbioso su per gli scalini.
Appena scompare oltre la rampa, Ian scuote il capo e mormora scoraggiato: «Vorrei che non lo facesse per attirare la nostra attenzione».
Getto il libro sul tavolino. «Magari gli piace e basta».
«Sono felice che tu e lui andiate d'accordo». Mi rivolge un sorriso riconoscente. «A parte i suoi fratelli, non ha molti amici, purtroppo».
«Beh, ha abbastanza fratelli da poterci giocare a calcetto con tanto di arbitro. Non è male». Mi alzo, stiracchiandomi. «A proposito della cucciolata, posso chiamarti Pongo?»
«Pongo?» Non ho ancora aperto bocca per spiegare che sta già ridacchiando. «Ah, certo. Il cane adulto nella Carica dei 101» commenta divertito. «Da piccoli, i miei figli mi hanno costretto a vedere tutti i film della Disney un'infinità di volte. È un miracolo che io sia sopravvissuto».
«Io preferivo Shrek, soprattutto il primo. C'è stato un periodo in cui lo guardavo in loop, anche se non sopportavo la scena dell'urlo perché mi faceva paura».
Per un attimo, ripenso a papà che mi metteva sulle sue ginocchia e, stringendomi forte, simulava una versione buffa del grido dell'orco mentre io mi rannicchiavo contro il suo petto con le orecchie tappate.
«Ehm, comunque». Mi schiarisco la gola per liberarmi del groppo che vi si è formato. «Volevi udienza con me?»
C'è qualcosa di comprensivo, addirittura tenero, nel modo in cui mi fissa. Come se avesse percepito quanto male mi abbia fatto quel ricordo. «Sì, vieni. C'è una cosa che vorrei mostrarti». E si indirizza fuori dal soggiorno.
Esito un istante, diffidente, ma alla fine la curiosità prevale e lo seguo di corsa nel grande salone. Al centro del pavimento, campeggia il mosaico in pietra: l'aquila nera spicca sullo sfondo bianco e il leone dorato è così realistico che potrebbe prendere vita.
La luce calda del pomeriggio danza tra gli specchi incorniciati da marmo nero che tappezzano i muri, creando un accecante gioco di riflessi. Sulle prime, sono convinta che mi stia conducendo allo studio di Alizée, invece tira dritto e imbocca un corridoio dall'aria antica.
Appese a un metro di distanza l'una dall'altra, delle strane torce si protendono verso l'interno, ormai con una funzione solo decorativa. Hanno tutte la stessa forma: delle mani ossute che, con lunghe dita pallide simili ad artigli, sorreggono la grossa candela che spunta dai loro palmi.
«Sono tipo la Mano della Gloria, in Harry Potter». Mi lascio sfuggire un fischio ammirato. «Ma quant'è vecchia questa villa?»
«Un po' troppo, almeno duecento anni. Mio suocero, Jonathan, la fece restaurare da giovane e decise di darle un'impronta ancora più medievale, anziché ammodernarla. Voleva che sembrasse un castello». Di tanto in tanto, Ian mi sbircia di traverso, forse per accertarsi che io sia ancora al suo fianco. «Visto che sei qui, ne approfitto per chiederti scusa. Da quando sei arrivata, sono stato così impegnato al lavoro che ci siamo incontrati a stento. Spero di non averti fatto una cattiva impressione».
La mia mente ritorna alla cena dell'annuncio del matrimonio di Matt, alla frase che ha sputato contro Alizée durante il loro litigio: “Ed io non voglio tuo figlio qui, ma lo sopporto da sette anni”. E vedo di nuovo il lampo ferito sul volto di Klaus, quando è stato cacciato via, malgrado fosse rimasto immobile e in silenzio per tutto il tempo.
Devo mordermi la lingua per evitare di rispondere che è anche colpa sua, se un ragazzo dolcissimo continua a sentirsi cattivo e sbagliato, per non rinfacciargli che avrebbe dovuto essere lui il padre di cui aveva un disperato bisogno, invece di punirlo a causa delle azioni di un altro.
«Ho goduto della calorosa accoglienza della tua alfa. Basta e avanza» mi limito a dire con tagliente ironia. «Tra l'altro, perché ultimamente non c'è mai? Non che mi lamenti, eh, ma dove deve andare?».
«Non ne ho idea». Un sorriso pacato, uguale a quello di Liam, gli increspa le labbra. «Alizée vuole sempre sapere dove sono, con chi o cosa faccio. A me, invece, non interessa e, in ogni caso, dubito che me lo direbbe».
Corrugo la fronte, perplessa. La naturalezza con cui ammette di doverle rendere conto di qualsiasi cosa è disarmante, quasi fosse un atteggiamento normale tra coniugi. «Non mi sembra molto equo».
«Le piace avere il controllo di tutto e tutti. E io preferisco non discutere con lei, eccetto che su... certi argomenti. Aspetta». Con un gesto gentile, Ian ferma una cameriera di passaggio e le porge la rivista di Kal. «Scusami, potresti rimetterla in camera di mia figlia, per favore?»
Mentre la prende, la ragazza –massimo venticinque anni– si sofferma avvampando sul triangolo di petto scolpito che gli spunta dalla camicia, annuisce e si dilegua di corsa, senza dargli neanche il tempo di ringraziarla. Ian rimane interdetto per un secondo, poi china la testa e, accorgendosi di avere i bottoni aperti fin sotto al collo, si affretta ad allacciarli.
Inarco un sopracciglio, incapace di trattenermi. «È gelosa?» L'immagine di una Crudelia protettiva verso il marito è tanto strana da risultare inquietante.
«Possessiva, più che altro» ammicca.
Svoltiamo in un corridoio più lungo, decorato con figure e simboli intagliati sulla superficie di marmo, e passiamo di fronte a un'immensa navata con file di panche disposte su due colonne e terminante in un altare. Manca soltanto un crocifisso e avrebbe lo stesso aspetto di una chiesa.
Proseguendo, raggiungiamo una specie di loggia, illuminata da una gigantesca vetrata che si affaccia sul campo da basket, e attraversiamo una galleria verniciata di bianco.
In fondo, si trova una graziosa porta di legno su cui sono scolpiti elaborati motivi floreali, dotata di uno spioncino e un oblò smerigliato intorno al quale sono incisi due rami d'alloro intrecciati. Ian gira la chiave nella serratura, la toglie e spinge in avanti la maniglia, scansandosi per farmi entrare per prima.
La stanza in cui mi ritrovo è piccola, ma carina. La posizione dell'ampia finestra a golfo è ideale per permettere al sole di inondare l'ambiente, facendo scintillare le cornici dorate dei numerosi quadri attaccati alle pareti. Una mezza dozzina di cavalletti sono posizionati in punti strategici, tutti già predisposti con tele ancora immacolate.
Su un tavolino basso sono ammucchiati dei blocchi da disegno, insieme a righe, squadre, righelli, compassi e altri strumenti. In un angolo, delle mensole offrono un set completo di pennelli e varie tipologie di colori, raggruppate con le tavolozze pulite: a tempera o acrilici, pastelli a cera o a olio, acquerelli, carboncini, semplici matite e così via.
Accanto a un mobiletto da toeletta, si stende una chaise longue in stile barocco con foglie in oro sull'intelaiatura di mogano e un rivestimento imbottito impreziosito da bottoni.
«Mi è stato detto che hai il talento di Maxwell, nella pittura» esordisce Ian, appoggiato allo stipite della porta. «Ad Alizée non piace che tu dipinga in camera. Potresti rovinare il pavimento. E poi ritengo che ogni artista dovrebbe avere un posto unicamente suo dove sfogarsi».
Avanzo a piccoli passi, guardandomi intorno a occhi sgranati. «Mi... mi stai regalando un atelier?»
«In pratica, sì» replica con disinvoltura. «Ovviamente, puoi arredare come vuoi. Dovrebbe esserci tutto il necessario, ma se manca qualcosa ti basta dirmelo».
Sbatto le palpebre più volte, passando un dito sul ripiano della scrivania orientabile, incastrata nel bovindo –la nicchia della finestra sporgente verso l'esterno. È formata da una solida lastra di ciliegio, con un supporto inclinabile e due cassetti, su cui è disposto un rigoglioso bonsai.
Ian si avvicina e mi consegna la chiave che ha sfilato dalla toppa. «È l'unica copia. Qui potrà entrare soltanto chi vorrai tu». Sfodera un mezzo sorriso e aggiunge: «Ma quello che volevo davvero farti vedere ti piacerà anche di più».
Lo osservo andare alla libreria che occupa metà della parete e cominciare a rovistare tra gli scaffali pieni di libri e articoli di cancelleria. Ne estrae un voluminoso raccoglitore rilegato in pelle rossa e torna indietro, posandolo sulla scrivania davanti a me. Sulla copertina, ricamato con un filo argenteo, c'è un leone dalle fauci spalancate, sopra a una scritta in corsivo: "Sempre e comunque".
Un cipiglio confuso si dipinge sul mio viso. «Non fraintendermi, l'idea di vedere degli Hallander in miniatura è fantastica... ma perché mi vuoi dare un album della tua famiglia?»
«Non credo che tu lo sappia, ma Alizée era grande amica di tua madre. Lei, Elaine e Céline Dubois si conoscevano da tutta la vita, oserei dire che erano come sorelle». Ian si stringe nelle spalle. «Questo album risale ai tempi prima del matrimonio dei tuoi, quando tua madre...» Deglutisce, bloccandosi per un secondo. «Comunque, è presente in molte delle foto. In alcune dovrebbe esserci persino tuo padre, o anche loro due assieme, probabilmente mentre battibeccavano. Non facevano altro» conclude, facendo una risatina incerta.
Con il cuore che mi tuona nel petto, avverto le gambe diventare molli e mi faccio scivolare sul bracciolo della poltrona per evitare di cadere. La mia mano trema mentre accarezzo il fianco ruvido dell'album, facendo scivolare l'indice sulla lettera in rilievo che spicca in basso – una H dorata e scintillante –, senza trovare il coraggio di aprirlo.
Grazie al mio incontro con il direttore Salim Okri, sapevo già del passato che Alizée condivideva con i miei genitori. Tuttavia, non avevo mai neppure riflettuto sulla vita che mia madre aveva avuto a Sunset Hills, alle prove di sé che si era lasciata dietro.
Un po' come quando si pensa ai propri nonni e sembra strano immaginare che anche loro siano stati giovani un tempo, per me è quasi strano rendermi conto che anche lei deve aver avuto esperienze normali, quotidiane, anche stupide. Studiare, innamorarsi, ubriacarsi a una festa, litigare con il proprio ragazzo, avere dei sogni per il futuro, sposarsi...
Mio padre non ne parlava quasi mai di sua volontà, ma mi ripeteva spesso che potevo chiedergli qualsiasi cosa sulla mamma e mi avrebbe risposto. Nonostante ciò, gli facevo solo pochissime domande sull'argomento, e non molto spesso: mi ero accorta che lo rendeva triste e malinconico, e io non sopportavo l'idea di fargli del male. Volevo soltanto vederlo felice.
Ian mi posa delicatamente una mano sulla spalla, facendomi trasalire. «Scusami, magari ho sbagliato» sussurra mortificato, piegando la testa di lato. «So che non è molto, ma speravo che questo potesse fartela... conoscere, almeno in parte».
Dentro di me, sono consapevole che dovrei ringraziarlo. Eppure, riesco a proferire un'unica parola. «Perché?»
Un lampo cupo guizza nello sguardo di Ian, che lo distoglie di colpo da me e lo sposta sull'album. A giudicare dalla mascella contratta e dai tendini del collo irrigiditi, ho la sensazione che sia turbato.
«Mi ricordi un po' mio fratello. Quando nostra madre è morta, io ero già abbastanza grande, ma Matt era solo un ragazzino di dodici anni. Gli fu molto... difficile, da superare. Avrei dovuto prendermi cura di lui, invece non ho capito quanto stesse male finché non è stato troppo tardi. Matt aveva già trovato dei modi tutti suoi per affrontare il dolore. O meglio, per ignorarlo». Emette un sospiro pesante. «Non voglio commettere lo stesso errore con te. Voglio aiutarti, per quanto mi sia possibile».
Un silenzio teso cala tra di noi, mettendomi a disagio. «Mi dispiace» sussurro, soprattutto per spezzarlo. «Per tua madre, intendo».
«Tranquilla, è passato tanto tempo». Ian si scompiglia i capelli scuri come il carbone, continuando a evitare di guardarmi. «Elaine era una donna straordinaria, di una gentilezza infinita. Se mia moglie ha superato quello che le è successo, è stato merito suo, più che di chiunque altro. Neanch'io sono riuscito a starle tanto vicino quanto ha fatto lei. Non smetterò mai di esserle grato per questo».
Gli occhi iniziano a bruciarmi e mi giro in modo da nascondere il mio volto, facendo finta di perdermi nel panorama fuori dalla finestra.
Oltre il campo da basket e la massiccia recinzione che cinge la villa, alle spalle della città, un'enorme distesa di campi di grano punteggiati di balle di fiero si abbarbica su per le colline, e il confine rosso e arancione di una foresta corre lungo la linea dell'orizzonte, come una ferita sanguinante che lacera un profondo cielo blu cobalto, tipico dell'autunno inoltrato.
«Alizée lo sa?» Per fortuna, la mia voce non suona incrinata. «Che mi stai dicendo queste cose?»
«Certo, ho avuto il suo permesso. Lo avrei voluto fare fin da subito, ma Alizée preferiva che non lo sapessi, lo considerava inutile. La verità è che non le piace parlare di persone che ha amato e non ci sono più» chiarisce Ian con amarezza. «Adesso, però, non ha granché senso nascondertelo: con le nozze di mio fratello alle porte e i riflettori puntati su di noi, gireranno parecchi pettegolezzi. L'avresti scoperto comunque, ed è meglio da me che leggerlo su un giornale, no?»
Annuisco, passandomi la manica della felpa sulla guancia. Abbasso le palpebre ed emano un fiotto d'aria dalla bocca per respingere le lacrime. Un moto di rabbia mi fa ribollire il sangue nelle vene.
Perché diavolo devo piangere ogni volta che penso a lei?
«Ero convinto che in giro ci fosse anche il suo registratore. Avevo pensato che ti avrebbe fatto piacere averlo, ma deve averlo preso tuo padre, prima di lasciare la città anni fa».
Increspo le sopracciglia. «Registratore?»
«Già, Elaine ci teneva molto. Da brava aspirante giornalista, se lo portava ovunque». Pur volendo apparire scherzoso, il tono di Ian è percorso da un fremito. «Lo hai tu? Maxwell te lo avrà dato, no?»
Mi volto, aspettandomi di incrociare le sue iridi, invece mi sta dando la schiena. È appoggiato alla scrivania, con le lunghe gambe incrociate e le mani infilate nelle tasche con i pollici in fuori. Sta fissando verso l'armadio, ma sono sicura che la sua attenzione sia tutta per la nostra conversazione.
In questo momento, la somiglianza tra lui ed Edric è ancora più impeccabile: ha la sua stessa postura schiva e vigile, quasi sulla difensiva.
Per qualche ragione, un brivido mi fa accapponare la pelle. «No» rispondo atona, con la mente che vaga al bauletto imboscato nella mia camera. «Non ne so niente».
Ian fa una breve pausa e infine scrolla le spalle, sollevandosi. «Non importa. Era giusto per farti avere qualcosa di suo». Mi scocca un'occhiata serena, poi assume un lieve ghigno. «So che tra poco devi uscire con i miei figli e con Klaus».
A quel nome, rabbrividisco di nuovo. Stavolta, però, so benissimo il motivo. «Già. Non ho ben capito cosa sia un'Operazione Talpa, in realtà, ma l'ha organizzata la leoncina rossa con l'aiuto del diavoletto nerd, quindi sono terrorizzata».
Ian scoppia a ridere. «Tua madre ti avrebbe adorato» sogghigna, facendomi stringere il cuore. Mi fa un sorriso dolce, si gira e si incammina in direzione della porta.
Sebbene detesti il suo atteggiamento nei confronti di Klaus, non posso fare a meno di riconoscere che mi piace. Anzi, provo per lui quasi un moto di compassione; non credo sia facile essere il marito di una donna che vuole comandarti a bacchetta, senza ricevere da lei nulla in cambio. Di certo, non l'amore.
«Com'è morta?» Le parole scivolano dalle mie labbra prima ancora che me ne renda conto. «Tu c'eri al matrimonio, no? Devi sapere cosa... cosa è...» La voce mi si strozza nella gola improvvisamente arida.
Ian si blocca sulla soglia, come paralizzato. «Sì, ho accompagnato Alizée. Portammo anche William» mormora assente. «Fu un giorno orrendo».
Ruota il capo e mi guarda con un'espressione premurosa, la mano che stringe forte la maniglia. «Ha avuto un malore. Non era strano e le capitava spesso; sapeva che era una gravidanza a rischio fin dall'inizio. Ma quella volta è...» Esita un attimo, gli occhi azzurri che sembrano trafiggermi. «Caduta. Dalle scale. C'era una ragazza, una studentessa di medicina. Non la conoscevo, perché era presente solo in veste di fidanzata di uno degli invitati. Comunque, mi è stato detto che ha cercato di salvarvi entrambe, ma...»
La vista mi si appanna, tuttavia non faccio nessun tentativo neanche di reprimere il singhiozzo che mi scuote il corpo. «E papà? Perché mio padre non era con lei? Dov'era?» Dov'era mentre la sua anima gemella si spegneva, mentre colei che definiva la sua regina stava morendo?
Lo sguardo di Ian diventa gelido. «Sulla tomba di Michael Waylatt».
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