47. QUESTIONI DI FAMIGLIA
P.O.V. Klaus
Per un attimo, un paio di occhi privi di iride mi restituiscono lo sguardo. Due piccoli frammenti di tenebre sospesi davanti a me, vuoti e spenti come il cielo di una notte senza stelle.
Dura un secondo, non di più. Il tempo di un battito di ciglia, ma abbastanza per congelarmi l'aria nei polmoni, trasformandola in lame di ghiaccio conficcate nel petto. Percepisco i ricordi strisciare fuori dalla mia mente, così vividi e concreti che sembrano avvinghiarsi al mio corpo in una stretta soffocante.
Le sue mani ruvide che mi stringevano i capelli, il dolore ai gomiti quando mi ha scaraventato nella cabina armadio, la rabbia che fiammeggiava nelle pozze buie incise sul suo volto. Quando era davvero furibondo, assumevano una tonalità ancora più cupa, simile a quella delle nubi che si addensano prima di un temporale, e avevo sempre l'impressione che mi avrebbero inghiottito.
Non riuscivo a provare altro che paura di fronte a quegli occhi, a quei buchi neri che si nutrivano di qualsiasi altro sentimento.
L'uomo cattivo mi aveva guardato mentre mi rannicchiavo in un angolo, tremando a testa bassa per fargli capire che avrei obbedito. Voleva che fossi docile e sottomesso, e lo sarei stato: forse, in questo modo, avrebbe smesso di farmi del male.
«Non muoverti finché non torno». La sua voce, graffiante come vetro scheggiato, mi aveva fatto sussultare. «Sai cosa succede se mi disobbedisci».
Mi riscuoto con un brivido gelido, ritrovandomi di colpo davanti allo specchio nel mio bagno. Appena mi accorgo del pallore sul mio viso, vengo assalito da un impeto di frustrazione e mi affretto a sciacquarmi, sperando di lavare via il terrore che mi scioglie le viscere.
Prendo un asciugamano e me lo strofino sulla faccia e sul torace. Esitante, sfioro una delle cicatrici rotonde impresse sulla pelle, ripensando al calore bruciante della sigaretta che si spegneva sfrigolando.
«Basta!» sussurro a me stesso. «Lui non è qui, idiota!» Se non avessi un'emicrania terribile, mi sarei già dato uno schiaffo.
Vado nella mia camera e apro l'armadio, ignorando la sensazione di panico alla bocca dello stomaco. All'interno, maglioni e pullover sono impilati con cura e le camicie sono appese in ordine cromatico, accanto alle giacche. Prendo una delle felpe, piegate e disposte in basso dalle più vecchie alle più nuove. Se ci fosse Keeley al mio posto, probabilmente la metterebbe al contrario.
Dopo essermi vestito, scendo a fare colazione. Lungo il tragitto, noto che alcune ragazze del personale mi salutano con ghigni maliziosi e confabulano sottovoce al mio passaggio.
Sono abituato alle loro attenzioni, ovviamente, ma di solito si limitano ad allungarmi occhiate languide e sorrisini smielati, a parte poche audaci che mi si avvicinano per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Giuro che, a volte, ho il sospetto che ci sia un messaggio velato dietro quella richiesta.
Non ho ancora varcato la soglia che vedo Liam. È in piedi e sta ammirando il proprio riflesso sulla vetrata che si affaccia al giardino, intento a sistemarsi i capelli con le dita. A giudicare dalla sua estrema concentrazione, deve essere un procedimento delicato pari a un intervento chirurgico.
Scoppio in una fragorosa risata. «Sei peggio di nostra sorella» commento, entrando.
Qualcun altro sarebbe trasalito o avrebbe fatto uno scatto sorpreso, invece Liam si volta con un movimento disinvolto. In sette anni, non credo di aver mai trovato qualcuno che riuscisse a coglierlo alla sprovvista. «Ammetto di non capire questo pregiudizio sugli uomini che tengono al proprio aspetto».
«Ottima scusa per farti bello per la tua cameriera» ammicco, massaggiandomi le tempie pulsanti.
In silenzio, Liam scosta una sedia e indica il vassoio posato sul tavolo rotondo: una ciotola di porridge d'avena e una tazza fumante piena di un liquido dorato con uno spicchio di limone. Abbozzo un sorriso, intuendo che deve essere opera di Carol.
Fin da quando eravamo piccoli, ogni volta che uno di noi si ammala, prepara una tisana allo zenzero raddolcita da qualche goccia di miele. Quando le avevo chiesto la ragione, anni fa, mi aveva spiegato che è una radice con proprietà antinfiammatorie e che in passato si usava per curare la febbre.
L'ennesima fitta lancinante mi trapassa il cranio, ma mi sforzo di non badarci. «Non ho fame».
Lancio un'occhiata al buffet addossato alla parete, solo per trovarlo completamente vuoto. Mi viene da ridere immaginando lo sgomento di Kal e Keeley, privati della loro ingente dose giornaliera di dolciumi.
«Non è salutare saltare i pasti, fratellino».
Inarco un sopracciglio, incredulo. «Sei serio? Prima mi dici che qualcuno ci vuole tutti morti e poi ti comporti da nonnina isterica?»
Liam alza un dito. «Primo, la colazione è importante» mi ammonisce in tono pacato. «E comunque quelle non sono state le mie esatte parole. Ho detto che i nostri genitori sono convinti che siamo in pericolo, ma ho imparato a non prendere per oro colato tutto ciò che pensano loro. Possono essere così... paranoici».
«Oh, scusa! Grande differenza!» Faccio una smorfia sarcastica. «Adesso sono molto più tranquillo».
«L'influenza di Keeley non ti fa bene». Un lampo divertito guizza nel suo sguardo, ma torna subito serio. «Tu mangi, io parlo».
Con un sospiro, mi avvicino e mi butto sulla sedia. Lo conosco abbastanza da sapere che non si arrenderà e, in fondo, non posso negare che mi piace che si preoccupi per me.
All'improvviso, un'ombra grigia sfreccia sul pavimento e salta sulle mie gambe, facendo le fusa. Un attimo dopo, una lingua ruvida mi sta leccando il mento, le lunghe vibrisse che mi solleticano il collo.
«Ehi, ciao, piccolina» mormoro affettuoso, dandole una grattatina dietro le orecchie.
Sparrow emette un miagolio dolce e si stende a pancia all'aria con le zampe allungate verso il mio viso.
Liam si appoggia contro il bordo del tavolo, mettendosi a braccia conserte. «Ti fa ancora male?»
Aggrotto la fronte, senza capire, e allora mi fa un cenno al polso, fasciato da una nuova garza. L'ho cambiata stanotte, dopo essere tornato dall'appartamento di Gladys, dato che quella vecchia era sporca di sangue rappreso.
Scuoto il capo in risposta e prendo un assaggio di porridge, gustandomi l'intenso sapore di vaniglia che prevale su quello della cannella. Carol ne mette sempre tantissima perché sa che la adoro.
«La polizia di Sunset Hills sta indagando di nascosto sul caso di Elizabeth e nostra madre è sicura che sia coinvolta anche l'FBI». La voce di Liam non lascia trapelare nessuna emozione.
Nonostante ciò, questo non basta ad attenuare il colpo. Per poco, non sputo fuori tutto quello che ho in bocca e mi devo costringere a non balzare in piedi, ricordandomi che Sparrow è ancora accoccolata sulle mia ginocchia.
Elizabeth.
Il suo nome risveglia un dolore ormai familiare che si annida dentro di me, come se le punte di mille aghi mi si fossero spezzati sottopelle e ogni pensiero su di lei li facesse rigirare nella carne, scavando sempre più in profondità.
Scocco un'occhiata furiosa a Liam. «Sai, potresti annunciare l'arrivo dell'Apocalisse mentre sorseggi del tè caldo, e io non mi stupirei».
«Non so per quale ragione i federali dovrebbero essere interessati a un omicidio in una cittadina di provincia» prosegue lui con fare grave, ignorandomi. «Ma probabilmente è solo un pretesto...»
«E allora?» Con un gesto brusco, lascio cadere il cucchiaio, che sbatte all'orlo della ciotola con un tintinnio. «Se qualcuno finalmente si è deciso a voler fare giustizia per Elizabeth, non mi importa chi sia. Ha tutto il mio appoggio».
Gli rivolgo un'espressione diffidente. «E dovresti considerarlo un bene anche tu, così potremmo ripulire il nostro nome. A meno che non credi che sia stato io, certo».
Liam esita per un istante e il mio cuore manca un battito. Potrei sopportare che chiunque altro mi ritenga colpevole - Jonas, Alizée, persino Alaric -, ma la sola idea di perdere i miei fratelli sembra sgretolarmi. Non voglio. Non loro, e soprattutto non lui.
«Temo che tu abbia frainteso» sentenzia, chinandosi per portarsi alla mia altezza. Un'ombra tetra gli balena sul volto. «Stanno investigando su tutti gli Hallander, non solo su di te. E nella nostra famiglia ci sono segreti che è meglio rimangano sepolti».
I miei occhi si incatenano ai suoi e non posso evitare di ripensare al mio sogno, alla prima volta che ci siamo guardati in questo modo.
Prima di allora, erano anni che nessuno riusciva a farmi sentire tanto... protetto. Anche se l'uomo buono mi aveva salvato, era difficile nutrire fiducia nei confronti di un estraneo che si era presentato grondante di sangue.
All'inizio, Liam mi appariva come un piccolo gigante con una passione per i papillon. Sapevo che gli sarebbe bastato poco per sopraffarmi e avevo imparato da mio zio che non si deve provocare chi è abbastanza grosso da poterti fare ciò che vuole, quindi per istinto cercavo di stargli lontano.
Eppure, giorno dopo giorno, mi rendevo conto che c'era una differenza enorme rispetto a Vincent: era gentile con me. Per qualche ragione, lo è sempre stato, dal primo momento.
«Taglia corto, William. Qualcuno ci vuole uccidere o no?» replico, continuando a fissarlo.
«È più corretto dire che forse qualcuno se la sta prendendo con la nostra famiglia, sì».
Segue una breve pausa, quasi stesse selezionando con estrema cautela le sue prossime parole. «Ultimamente, si sono verificate delle coincidenze abbastanza curiose. Sei stato quasi incastrato per un crimine che non hai commesso e, adesso che abbiamo l'opinione pubblica a nostro favore in vista del matrimonio, la faccenda ritorna alla luce. Simon è stato aggredito a Baker Street, proprio nella notte di Halloween, Elizabeth è morta il quindici agosto e ho scoperto che il ventitré di luglio dei ragazzi hanno fatto a Edric un pessimo "scherzo" che stava per finire molto male».
Serro le dita a pugno e avverto l'anello di metallo premere contro la pelle. La pietra d'onice scintilla di riverberi freddi alla luce del mattino che inonda la sala. «Chi ha fatto cosa a nostro fratello?» sibilo torvo.
«Non sarebbe giusto parlartene senza il suo consenso, ma è strano che abbia smesso di amare il nuoto di punto in bianco, vero?»
Sbatto le palpebre, perplesso. In effetti, quest'estate, ero rimasto abbastanza sorpreso dalla risolutezza con cui Edric aveva deciso di lasciare lo sport di cui rappresentava una giovane promessa. Tuttavia, avevo pensato che fosse un atto di protesta, o meglio di emancipazione da Alizée, e ne ero stato anche alquanto soddisfatto.
Non avevo riflettuto sul fatto che, oltre al talento, aveva sempre avuto anche la passione: già a dieci anni, era un mezzo delfino, tanto che era più facile vederlo in piscina che in biblioteca... e i libri erano letteralmente la sua ossessione!
Scrollando le spalle, Liam si raddrizza e cammina fino alla parete di vetro, le mani incrociate dietro la schiena. All'esterno, il cielo è tinto di un blu intenso, cosparso di nuvole bianche e dense simili a batuffoli di cotone e incoronato dai raggi vividi di un sole che splende tra i rami contorti della gigantesca quercia.
«Le date non sono casuali, Klaus».
Mi irrigidisco, contraendo la mascella; non ho bisogno di spiegazioni, so benissimo qual è il filo conduttore a cui si riferisce, o meglio chi è. Sparrow deve percepire il mio nervosismo, infatti si stiracchia, sale furtiva sul tavolo e inizia a lisciarsi il pelo grigio cenere.
La notte di Halloween di diciotto anni e mezzo fa, Michael è entrato ubriaco in questa casa e ha tradito la donna che definiva la sua migliore amica.
Circa nove mesi dopo, il ventitré luglio, è nato il frutto della sua crudeltà, io.
E il quindici agosto venne pronunciata la sentenza che lo fece rinchiudere in carcere fino al suo suicidio. O presunto suicidio.
Scosto la ciotola di porridge e bevo un sorso di tisana, più che altro per liberarmi dal senso di nausea che mi sta opprimendo. «Dunque, dobbiamo stilare un elenco di tutti i nemici degli Hallander? Servirà penna e molto inchiostro, magari finiamo entro Natale» ribatto sarcastico.
«Nostra madre ha un paio di nomi in mente. Persone che potrebbero odiarci per ciò che è capitato a Michael». Liam esita per un secondo. «Vincent Waylatt... e Maxwell Storm».
Non ho il tempo di reagire che una voce irrompe tra noi. «Ehi, ragazzi!»
Con un largo sorriso stampato sul volto, Carol sbuca dal corridoio. È infagottata in un pesante cardigan dal collo alto di almeno una taglia più grande e porta i capelli biondi raccolti in una crocchia sulla sommità della nuca. Il tacco largo dei suoi stivaletti la fa apparire meno bassa, anche se quei pochi centimetri svaniscono quando passa di fronte a Liam, dandogli una carezza sul gomito.
«Buongiorno, pigrone» mi dice radiosa, fermandosi accanto alla mia sedia. Mi dà un buffetto affettuoso sulla schiena come saluto e mi dedica uno sguardo premuroso. «Come stai? Meglio? Hai misurato la febbre?»
È davvero stupido, lo so, ma vorrei risponderle che sto malissimo solo per continuare a ricevere le sue attenzioni. «Tutto bene, grazie» ribatto invece.
«Sicuro? Sei molto pallido...»
Ridacchio. «Oh beh, sono bianco come un cadavere dalla nascita».
«La gatta sul tavolo non è igienico però, tesoro!» Carol si affretta a prendere in braccio Sparrow, che le struscia il musetto sulla guancia. Gli occhi celesti le cadono sulla ciotola, ancora quasi piena. «Non ti è piaciuto il porridge? Vuoi qualcos'altro?»
«No no, è buonissimo. Sul serio, non mi serve niente, grazie». Non ho finito di parlare che una stilettata di dolore mi attraversa le tempie, facendomi fare una smorfia.
Carol mi guarda come per dire "sapevo che mentivi" ed estrae un flacone dai pantaloni di velluto. Tira fuori un'aspirina e me la mette sul palmo.
«E tu» aggiunge rivolta a Liam, lottando contro la micia che vuole annusarle il rossetto. «Non fargli discorsetti per l'uscita di stanotte. Tuo fratello deve riposare».
«Certo, Carol. Non preoccuparti».
Osservo la donna uscire dalla sala, trasportando Sparrow con sé, e sospiro. «È confortante che tutti in questa casa sappiate ciò che faccio. Mi dà un senso di pace» borbotto, ingioiando l'aspirina.
Liam sfodera un lieve sorriso e, ripiegando la manica della giacca, controlla l'orologio che porta al polso. «Devo andare. Ho un esame fra qualche ora e non voglio perdere il treno».
Mi sollevo di scatto con una pungente fitta alla testa. «Aspetta! Non abbiamo finito!»
«Per ora, sì. Prometto che ne riparleremo». Liam mi raggiunge a grandi falcate e mi posa una mano sulla spalla.
Di riflesso, il mio corpo si trasforma in un intrico di nervi tesi e muscoli rigidi, ma riesco a soffocare l'impulso di ritrarmi. Non posso impedire, però, che l'immagine dell'uomo cattivo torni a galleggiare nella mia mente, talmente nitida da diventare quasi tangibile di fronte a me.
«Per favore, fratellino» mormora Liam, accigliato. «Devi avere un po' di pazienza. Ti chiedo soltanto di comportarti bene: niente risse, studia e riprendi le tue sedute con la dottoressa Mills. Ovviamente, questo include anche smettere con le scappatelle clandestine tue e di Keeley o marinare la scuola per andare allo chalet di Céline Dubois».
Coglie la mia espressione sbigottita e annuisce. «Sì, so che ci vai. E tornare sulla scena del crimine di cui sei accusato non è una mossa geniale».
«Io...»
«Dovrai essere un normale diciottenne e non attirare l'attenzione, almeno finché non saremo sicuri che la mamma si stia sbagliando. Puoi farcela?» Liam arcua un sopracciglio. «Se non per proteggere te stesso, almeno per nostra sorella o per Tobias... immagina se succedesse qualcosa a loro».
A quel pensiero, un fremito mi percorre la schiena. Che mossa meschina, sa benissimo che farei qualsiasi cosa per Toby e che Eileen è il mio tallone d'Achille. «Farò il bravo, lo prometto. Ma ho una condizione».
Liam ritira il braccio e si raddrizza il nodo della cravatta. «Non posso restituirti la Porsche. Sei ancora in punizione assieme agli altri».
«Voglio che ti riconcili con tuo padre».
Provo quasi un moto di compiacimento quando vedo la sua bocca che si dischiude, senza proferire suono. Chiaramente, non si aspettava una richiesta del genere.
«Non dovrebbe essere un problema per te. Sei bravo in tante cose, fratello, ma perdonare è quella che ti riesce meglio». Sfodero un sorrisetto impertinente. «Subito seguita da essere una vera spina nel fianco».
Liam corruga la fronte. «Per quale ragione ti importa tanto?»
Faccio spallucce e mi lascio crollare sulla sedia, bevendo dalla tazza la tisana ormai tiepida. Il miele aggiunge un tocco dolciastro che si mescola al gusto speziato dello zenzero.
«Semplicemente, non ha senso, quindi smettila di tenergli il broncio. Non impazzisco per Ian, lo ammetto, ma non ha torto a non volere fra i piedi il figlio di un mostro».
«Solo perché credi di meritare il suo odio, o quello di nostra madre». La sua voce è venata di amara tristezza. «Io no».
Forse dovresti, anzi dovreste tutti.
Ho rovinato così tante vite che dovrebbe spettarmi una medaglia come iettatore.
Rimango ammutolito, non osando pronunciare queste parole. Se lo facessi, non finirebbe di ripetermi la solita solfa su quanto mi sbagli per persuadermi che non ho nessuna colpa. Una bugia colossale.
«D'accordo, gli parlerò» si arrende Liam, emettendo un lungo respiro.
Si allontana verso la porta che dà sul giardino e abbassa la maniglia. Prima di aprirla, lancia un'occhiata nella mia direzione. «Ah, fratellino. Ti consiglio di tenere il telefono a portata di mano, oggi». Un ghigno enigmatico gli spunta sul viso. «Ti ho fatto una piccola sorpresa. Riceverai una chiamata e, fidati, non vorrai perdertela».
Mi fermo con il cucchiaio colmo di fiocchi d'avena a mezz'aria. «Da parte di chi?» chiedo confuso.
«L'unico che ascolti sempre».
***
Le mie dita danzano sui tasti del pianoforte, dando vita a una melodia delicata e malinconica che riempie la mia camera, simile al lamento più dolce e disperato che abbia mai udito.
Ho sempre pensato alla musica come a una forza invisibile, a una magia che scorre nelle vene, racchiusa nel sangue, che fluisce verso il proprio strumento in un legame di anima e corde.
È quel potere catartico che ti permette di liberare i sentimenti imprigionati nel cuore e di donarli a chi ti ama abbastanza da ascoltare la tua voce nascosta tra le note. Ogni canzone ha un significato e ne ha altri mille, diverso e uguale per chiunque la senta, perché la musica è un linguaggio universale che nessuno impara, ma che tutti parlano.
Mentre il testo di Let her go riecheggia nella mia mente, il volto di un ragazza prende forma attraverso le palpebre abbassate. È bellissima, con capelli di un biondo così chiaro da sembrare argento e pietre d'ambra che risplendono come fiaccole di luce rubate al sole. E il suo sorriso è così meraviglioso da farmi sperare che forse, se sono degno di ricevere un regalo tanto bello, può esserci qualcosa di buono anche in me. Qualcosa da amare.
Eppure, per quanto mi sforzi, non riesco a capire se quella ragazza sia Keeley... o Elizabeth.
"You see her when you close your eyes
(La riesci a vedere quando chiudi gli occhi)
Maybe one day you'll understand why
(Forse un giorno capirai perché)
Everything you touch surely dies
(Tutto ciò che tocchi muore sempre)"
«Klaus».
Continuando a suonare, apro gli occhi lentamente, ma non mi giro. «Non vi ho sentiti rientrare. Non dirmi che Keeley ha smesso di gridare frasi a effetto come "The Storm is coming"».
Sento la sua risatina, accompagnata dal fruscio della porta che si richiude. «Ehm, no, lei non c'è. È rimasta a scuola per una ripetizione con Stefan».
È il mio turno di sogghignare. «Se vuoi un suggerimento, Simon, non credere a tutto quello che dice la ficcanaso».
«Cioè?» domanda frastornato.
«Lascia stare». Ruoto la testa nella sua direzione e lo guardo, accelerando il ritmo della musica. «Cosa ti serve, fratellino?»
Fermo dall'altra parte della stanza, accanto alla scrivania, Simon ciondola sulle gambe con le mani nelle tasche. «Stai bene? Volevo parlarti».
Starei meglio senza questa conversazione. «Sì, la febbre è scesa. Non era niente di che».
«Bene». Impacciato, si avvicina di qualche passo, ma inciampa sul tappeto e si deve aggrappare alla maniglia dell'armadio per non scivolare. «Non so se Keeley te l'ha detto. Abbiamo deciso di provare a fare una ta...» Le sue guance sono tinte di un colorito paonazzo. «Insomma, avremo un appuntamento».
Se dovessi descrivere ciò che provo con una metafora, sceglierei quella di un serpente velenoso che mi si arrampica su per il petto e rimane incastrato nella mia gola, dibattendosi per uscirne. Premo forte il pedale tonale, prolungando le vibrazioni delle corde e creando un'eco a metà tra lugubre e armoniosa.
Faccio un sorrisetto ironico. «Non offenderti, ma la tua vita sentimentale non è nella lista delle mie priorità. Per quello, c'è Leen».
Incoraggiato dalla mia risposta, Simon riduce la distanza e si mette appollaiato sul bordo del letto a baldacchino. Il suo sguardo è incollato sulla tastiera del piano, rifuggendo il contatto visivo con me.
«Certo, ovvio, ma ho notato che tu e lei avete questa strana cosa di sparire insieme, di tanto in tanto. E non capisco bene se tra voi...» Lascia cadere la frase nel vuoto, stropicciando un lembo della coperta. «È che non voglio far stare male nessuno, ecco».
"Only know you love her when you let her go
(Ti rendi conto di amarla solo quando la lasci andare)
And you let her go
(E la lasci andare)"
Ripenso a Maxwell Storm e alla promessa che mi ha fatto fare. Ho sempre considerato l'uomo buono come il mio salvatore, ma in quel momento mi è apparso solo un padre che moriva lentamente, consumato dal dolore per aver spezzato il cuore alla figlia che lo chiamava eroe.
"Proteggila, anche se questo significasse doverle stare lontano".
Lasciarla andare... let her go.
«Non c'è nulla tra noi» sussurro con le dita che si inseguono sempre più velocemente sui tasti.
«Nulla?»
«Nulla cosmico, te l'assicuro».
Simon si spinge sul naso gli occhiali, storti come sempre. Apre la bocca per replicare, ma poi increspa le sopracciglia e indica il piano. «Puoi smettere? È inquietante. Comincia a sembrare la marcia imperiale di Star Wars, piuttosto che il singolo di Passenger».
Mi blocco e, in un istante, il silenzio piomba nella stanza come una gelida cappa, nonostante la finestra sia chiusa. Un angolo remoto del mio cervello è consapevole che mio fratello mi sta parlando, ma non riesco a prestargli la minima attenzione, troppo paralizzato dall'orrore.
L'uomo cattivo mi sta scrutando dall'anta socchiusa dell'armadio, con gli occhi iniettati di sangue e la bocca piegata in una smorfia furibonda.
Il mondo sembra fermarsi. Il gelo della paura mi invade, trasformandomi in una statua in preda ai tremiti. Non respiro. Non posso muovermi. Mi farà del male, di nuovo, e non potrò fare nulla per difendermi.
«Ehi, tutto okay?» chiede una voce lontana, carica di preoccupazione. «Stai bene? Klaus?!»
Qualcuno mi stringe la spalla. Un'ondata di terrore mi assale, balzo giù dallo sgabello con un gemito strozzato e crollo a terra sui gomiti. Ansimante, sollevo lo sguardo e vedo Simon che torreggia su di me, fissandomi dall'alto con un'espressione sconcertata. Quando lo riporto sull'armadio, Vincent è scomparso. O meglio, non c'è mai stato.
«Che hai? Devo chiamare Carol? Liam?»
Scuoto la testa freneticamente, cercando di calmarmi. Ogni boccata d'aria è un pugno dritto ai polmoni. Simon si china per aiutarmi a rialzarmi, ma arretro a carponi per poi scattare in piedi, lontano da lui.
«No, non toccarmi» bisbiglio in tono flebile.
«Sei sicuro che non...»
«Lasciami solo». Mi passo una mano sulla faccia e scopro che è bagnata. Prego che sia sudore, e non lacrime. Sarei ridicolo a piangere di fronte al mio fratello minore!
Simon non si muove e continua a fissarmi con un misto di ansia e compassione, neanche avesse il sospetto che io possa cadere stecchito da un momento all'altro.
D'un tratto, il terrore si tramuta in rabbia. «Beh? Ti serve un permesso scritto per andartene?»
«Dovresti farti aiutare, Klaus». Simon attraversa la camera, mi sbircia di sbieco dalla soglia ed esce.
Mi precipito a chiudere la porta ad almeno due mandate. Poi raggiungo l'armadio di corsa e gli sferro un calcio con tutte le mie forze, facendo sbattere violentemente l'anta. Appoggio la fronte al legno e faccio un sospiro profondo. Lo colpisco con un pugno a pochi centimetri dalla mia testa, fingendo che sia il volto dell'uomo cattivo.
«Perché non riesco a liberarmi di te?» mormoro tremante.
La suoneria degli Imagine Dragons infrange il silenzio e sento il telefono vibrare nella tasca dei jeans. Lo prendo con un impeto brusco e accetto la chiamata, senza nemmeno leggere il numero o il nome del contatto.
«Chi diavolo è?» sbotto con foga.
«Ma come? Rispondi così adesso, piccolo Mozart?»
Il mio cuore manca un battito e riesco a pronunciare un'unica parola mentre un sorriso incredulo affiora sulle mie labbra. «Matt».
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