XXVII.
Note d'autrice: penultimo appuntamento con Red Flags! Non vedo l'ora di conoscere le vostre impressioni/considerazioni finali su questa storia ❤
Buona lettura!
XXVII.
«Sono stati Katia e Carmine a dirglielo.»
Yousef rimase senza parole per qualche secondo, mentre reggeva il telefono vicino all'orecchio, con il respiro di Matilde dall'altro lato. Era un pomeriggio come un altro, prima che ricevesse la sua chiamata.
«Ma quanto tempo fa?» chiese poi.
«Francesco mi ha detto prima della laurea di Clarissa.»
«Prima?»
«Sì.»
Quando riattaccò, Yousef si lasciò crollare sul letto. Abbandonò il telefono sul materasso e si passò le mani sul volto. Non seppe come reagire a quella notizia, all'inizio. C'era troppo da elaborare.
Ma nel tumulto delle sue emozioni, emerse, come sempre, la rabbia per prima.
Tornò in piedi. Iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, cercando un modo per sfogarsi. Sentì il bisogno di rompere qualcosa.
Poi riafferrò il telefono e compose il numero di Carmine. Squillò a lungo, ma nessuno rispose. «Pezzo di merda, rispondi» imprecò lui tra i denti, e riprovò a chiamarlo, ancora e ancora.
Al sesto tentativo Carmine si fece vivo. «Yousef, che c'è?» disse freddamente, al posto di qualsiasi altro saluto.
Yousef non sapeva bene come insultarlo. «Carminù, sei contento adesso?»
Sentì un sospiro e nient'altro da parte sua.
«Non me l'aspettavo da te. Pensavo di poter contare su di te, ma sono stato un idiota.»
Carmine provò ad abbozzare una risposta. «Senti, non dare la colpa delle tue azioni a me adesso. Sei sparito dalla circolazione e non te n'è più fregato niente di-»
«Ma vaffanculo! Sei solo un figlio di puttana! Nun t' miett' scuorno? (1)»
Gli urlò tante altre cose e l'amico – quello che aveva sempre ritenuto un amico – restò semplicemente in silenzio. A un certo punto Carmine staccò la chiamata, perché non intendeva né giustificarsi né ascoltarlo.
Yousef tirò un pugno all'anta dell'armadio, che mandò un cigolio sinistro.
Presto giunse un bussare leggero alla porta. «Youz, ma che succede?»
«Linda, lascia sta' per piacere, non mi servono i tuoi inciuci.»
Riuscì a zittirla. Forse l'aveva persino offesa. La sentì tornare nella sua stanza. In realtà Linda sapeva bene che Yousef era ingestibile in momenti come quello.
E lui voleva tanto restare solo e distruggere qualcosa, oppure avere qualcuno al proprio fianco che distruggesse lui. Con una mazza chiodata, o qualcosa del genere. Matilde probabilmente l'avrebbe accontentato, se fosse stata lì.
Si appoggiò con la fronte all'armadio e inspirò lentamente.
Uno, due, tre. Calmati.
Anche Carmine l'aveva abbandonato. Aveva perso tutti i suoi amici. La sua secondo famiglia, dopo aver già deluso la prima. Ed era vero che era colpa sua, era sempre stata colpa sua.
Nessuno poteva capire come si sentiva.
Nessuno tranne Matilde.
Gli venne voglia di richiamarla. Di vederla e parlarle. Doveva sapere come l'aveva preso lei, quel tradimento. Matilde conosceva Katia da molto più tempo di quanto lui conoscesse Carmine.
Avevano entrambi riposto male la loro fiducia e adesso erano totalmente allo scoperto. Nudi di fronte a un pubblico giudicante. E in prima fila, in quel pubblico, c'era Clarissa.
Yousef doveva fare i conti con lei. Anche lei gli aveva mentito spudoratamente, quando si erano rivisti a casa sua, il giorno dopo la laurea. Forse aveva voluto metterlo alla prova... ma era una prova che stava durando già da diverse settimane.
In quel periodo si erano visti quasi tutti i giorni. E Clarissa non gli aveva detto niente. Anzi, alla fine aveva davvero lasciato Francesco, come gli aveva promesso.
Gli veniva spontaneo domandarsi: perché? Perché non sei arrabbiata con me?
Era deluso anche da lei.
Yousef desiderava la sua rabbia, perché gli avrebbe dato modo di colpevolizzarsi ancora di più. E di responsabilizzarsi, così da chiudere quel capitolo definitivamente e tornare alla normalità: sì, io e Matilde abbiamo preso in giro tutti; sì, abbiamo drogato Francesco e Clarissa con dei sonniferi; sì, abbiamo rischiato di uccidere Clarissa. Ora possiamo andare avanti?
Il perdono di Clarissa aveva stravolto tutto, ed era la cosa peggiore da ammettere.
Ogni giorno Yousef la guardava sorridere e doveva combattere con la morsa nel proprio petto che gli ricordava quanto male le avesse fatto e che no, non avrebbe dovuto dirglielo per niente al mondo.
Tacere. La soluzione era tacere. Anche lei aveva taciuto, dinanzi alla verità.
Il momento del confronto arrivò prima del previsto. Sentì il citofono suonare.
Linda gridò dall'altra stanza: «Vado io!»
Yousef guardò l'orologio a forma di vinile appeso alla parete: erano le cinque e mezza. Era Clarissa. L'aveva invitata lui.
Clarissa ci mise più del previsto a salire fino al terzo piano. E solo quando fu sull'uscio della porta, Yousef, ancora chiuso nella propria stanza, si ricordò che le serviva una mano per scalare tutti quei gradini, in assenza dell'ascensore. Si precipitò verso il pianerottolo, ma ormai lei era già lì, accolta da Linda, con un velo di sudore sulla fronte bianca.
Linda la salutò un po' stranita. «Oh Clarì... da quanto tempo.» Non sapeva ancora nulla. A dire il vero, non sapeva assolutamente nulla sin dal principio. Yousef aveva sempre mentito anche a lei, la persona con cui condivideva gli spazi da più di quattro anni. Le aveva dovuto mentire anche sull'episodio dell'ambulanza, che sulle prime l'aveva spaventata tantissimo. Le avevano detto che era stato uno scherzo, che Clarissa aveva chiamato il 118 per gioco. Da allora lei l'aveva sempre ritenuta una persona non proprio a posto, non importava quante lodi ne cantasse Yousef. «Come si fa a pensare a uno scherzo del genere? È proprio una cogliona» era stato questo il suo giudizio definitivo.
Clarissa la baciò sulle guance, reggendosi a una sola stampella. «Già, è passato tanto tempo. Come stai?»
«Beh... tutto sommato bene» rispose Linda. Lanciò un'occhiata a Yousef, alle loro spalle, ma lui le fece solo un cenno per farle capire che gliene avrebbe parlato dopo.
Era la prima volta che Clarissa tornava in quell'appartamento a Capodimonte.
«Vieni, andiamo in camera mia» la esortò Yousef, e fu l'unica cosa che le disse davanti a Linda.
Clarissa lo seguì in corridoio in silenzio. Quando si chiusero dentro quella stanza, Yousef notò che aveva un'espressione molto simile a un broncio, ma si sforzava di non farlo notare. Ci era rimasta male per il fatto che lui non si fosse preoccupato di aiutarla con le scale, però non gliel'avrebbe rinfacciato, perché era molto orgogliosa del fatto che nonostante tutto cercasse sempre di fare le cose da sola.
Yousef invece avrebbe voluto che si arrabbiasse.
Perché non ti incazzi? Incazzati!
Me lo merito.
Rimasero in piedi per qualche secondo senza dirsi nulla. Clarissa aveva notato il nervosismo di Yousef. Non si era nemmeno ancora tolta il parka di dosso.
«Chi ti ha accompagnato?» le chiese lui svogliatamente.
«Sara.»
Gli sfuggì un sorrisetto sprezzante. «Sara? Che ne pensa allora la tua amica Sara di noi?»
Clarissa si tese. «A dire il vero... non ne è molto contenta. È convinta che non dovessi lasciare Francesco per tornare con te.»
«Lo pensano tutti, immagino, dopo quello che hanno scoperto su me e Matilde.»
Lei capì finalmente il motivo di quel risentimento improvviso. «Ah, te l'hanno detto.»
Yousef incrociò le braccia. «Sì.» Poi sospirò. «Siediti, dài, non startene lì. Parliamone.»
Clarissa si tolse il parka lentamente e lo lasciò ben dritto sul letto, come se fosse la sua sagoma, una pelle da togliersi, e lasciò accanto ad essa la stampella. Si sedette lì e si strinse le mani tra le gambe. Per un po' tenne la testa bassa per evitare il suo sguardo. Quando la rialzò, appena più determinata, i suoi ricci raccolti in un codino alto le dondolarono sulla nuca.
«Perché non mi hai detto che sapevi la verità?» domandò Yousef, con un tono che tradiva una vena di vergogna. «Mi stavi solo mettendo alla prova?»
«No, no!» esclamò subito lei. «Ti prego di non dirlo neppure. Tutto quello che ti ho detto a casa mia quel pomeriggio lo penso davvero. Non... non accusarmi così.»
Yousef si diede dello stupido. «Scusa. Ma... Clari, perché non ti turba la cosa?»
Lei guardò verso la finestra, come se si sentisse in colpa.
Tu? Tu ti senti in colpa?
«Certo che mi turba» disse chiaramente. «Però, come ti ho già detto, sento che tu sei l'unico a potermi capire, nella mia vita, per quello che ci è successo. Io voglio stare con te. Non c'è altro da aggiungere. Non mi importa molto di quello che hai fatto con Matilde. Anzi... sinceramente... sono quasi sollevata che non stessi davvero con lei.»
Quella spiegazione lo colpì come un pugno nel fianco. Non seppe come rispondere e prese a camminare di nuovo avanti e indietro.
«Non vuoi neanche sapere il motivo per cui l'ho fatto?» chiese, incerto.
«No.» Si alzò di nuovo dal materasso, senza stampella, e si avvicinò a lui. Lo trattenne delicatamente per i polsi per farlo fermare. Gli accarezzò una guancia. «Yousef... io voglio tanto tornare a fidarmi di te. Lo voglio con tutta me stessa. Ma devi aiutarmi, devi promettermi che non ci mentiremo mai più. Puoi farlo per me?»
Un'altra promessa. Un'altra promessa che non poteva mantenere, perché falliva già in partenza, con i segreti che le nascondeva.
Ma fu costretto ad assecondarla.
Annuì. Clarissa sorrise e lo baciò, stringendosi a lui.
Mi ami davvero così tanto?
Non fu difficile per Yousef rendersi conto, con una morsa allo stomaco, di quanto la stesse illudendo.
Era quasi ora di cena e Clarissa si era appisolata sul letto accanto a lui, mentre guardavano un film in streaming. Yousef aveva spento il portatile senza neanche finirlo. Rimase immobile nella penombra per un po', con la testa di Clarissa appoggiata su una spalla.
I loro pomeriggi in quel periodo erano sempre molto simili – molto oziosi. Dovunque si trovassero, una sonnolenza apparentemente benevola li investiva, calando su di loro come un drappo opaco. Qualcosa spingeva affinché chiudessero sempre gli occhi, l'uno o l'altra, o entrambi.
Ma negli ultimi giorni Yousef provava uno strano timore prima di addormentarsi. Aveva sognato diverse volte Clarissa e Matilde. E non voleva sognarle, non voleva che lo perseguitassero anche in uno spazio così privato, oltre che inesistente. Matilde soprattutto. Era una costante che non lo abbandonava. Per due volte aveva sognato Matilde inseguirlo per le strade di Napoli. Percorreva tutto il centro storico guardandosi alle spalle, dalla Sanità a via Duomo e a Piazza San Domenico, e lei era sempre lì, con quella sua camminata paurosamente allettante, mai instabile, nemmeno sui sampietrini scoscesi. E il rossetto rosso, altro punto fermo. Gli erano rimaste impresse le sue labbra, il modo pressoché impercettibile in cui si piegavano. Nel sogno non sapeva cosa volesse da lui, né lei lo raggiungeva mai.
Altre due volte, invece, aveva sognato il corpo di Clarissa ai suoi piedi, agonizzante e colto dalle convulsioni, con gli arti scomposti. Qualcuno le aveva spaccato tutte le ossa e l'aveva lasciata lì a terra a morire.
Quando fu completamente buio, Yousef sentì Linda uscire di casa. Andrea era tornato ancora una volta in Abruzzo per il compleanno delle sue sorelle gemelle.
Yousef fu felice di avere la casa tutta per sé quella sera. Appena se ne fosse andata Clarissa si sarebbe fatto una canna. Ma per il momento non la svegliò.
Si alzò e andò in cucina facendo meno rumore possibile, con l'intenzione di preparare qualcosa da mangiare per entrambi. Aprì la dispensa e si ricordò del pacco di piadine che aveva comprato l'ultima volta che aveva fatto la spesa. Le avrebbe fatte in padella con kebab e patatine fritte, per poi riempirle di salse. Ridacchiò tra sé al pensiero che stesse cucinando di nuovo piatti certi ignoranti – così li definiva – per Clarissa dopo che lei aveva subito per mesi quelli vegetariani di Francesco.
Prima che potesse accendere i fornelli, però, qualcuno suonò al citofono. Yousef pensò che fosse Linda che aveva dimenticato qualcosa prima di uscire, così le aprì senza neanche rispondere, perché accadeva spesso. Dopo poco giunse il rumore gracchiante del campanello.
«Ma le chiavi non si usano più?» domandò retoricamente nell'aprire la porta, ma rimase del tutto sbigottito quando il viso di Matilde si rivelò dietro di essa.
Lei non disse nulla, lo guardò soltanto.
«Che ci fai qua?» chiese lui.
Non era trascurata e spenta come l'ultima volta che l'aveva vista. Si era truccata e vestita come se fosse pronta per una serata in giro con gli amici. La giacca di pelle, immancabile. Gli stivaletti con il tacco, i cerchi alle orecchie... e il rossetto rosso. «Non hai letto il messaggio che ti ho mandato?» fece lei di rimando, con un evidente moto di delusione. Vide che Yousef era in felpa e pantofole e allora quella delusione sul suo volto sembrò acuirsi.
«No... ho tolto la suoneria.» Un istante di silenzio. Non poteva non farla entrare, non dopo che lei l'aveva accolto così tante volte. Allora si scostò di lato per farla passare.
Lei infilò le mani nelle tasche della giacca. Si sedette al tavolo dell'ingresso-sala da pranzo, reclinando la schiena sulla sedia.
Yousef guardò verso il corridoio per un istante. Clarissa non si era svegliata, a quanto pareva. Forse poteva convincere Matilde ad andarsene prima che Clarissa la vedesse.
«I tuoi coinquilini non ci sono?»
«Nope.»
Diglielo, diglielo che lei è qui.
Per qualche assurdo motivo, Yousef non sapeva come gestire quella situazione.
«Come mai mi hai scritto, quindi?» la esortò.
«Avevo bisogno di uscire. Non ce la faccio più a stare chiusa in casa. Ti ho scritto che ti venivo a prendere per andare a fare un giro. È pur sempre venerdì sera.»
«Uhm... ho capito.»
«E poi domani è il mio compleanno. Volevo festeggiare la mezzanotte con qualcuno.»
A Yousef si strinse il cuore. No, non con qualcuno, pensò. Con lui. Con me. Il suo appiglio nella solitudine. Avrebbe tanto voluto accompagnarla. Girare per le strade notturne illuminate solo dai lampioni e dai fari delle altre macchine, come ai vecchi tempi, quando il senso di colpa era ancora sopito e c'era solo fascino, trepidazione, e una curiosa attesa: gioie oscure che gli mancavano.
Lui e Matilde, esploratori delle notti, troppo codardi per venir fuori alla luce del sole. Sinceri, sinceri con sé stessi, solo al buio, quando la giornata volgeva al termine e si rovesciavano tutte le medaglie.
«Se vai a prepararti ti aspetto» gli disse lei, facendo riemergere un briciolo di speranza.
Yousef non sapeva come rifiutare. Esitò. E quell'esitazione fece comprendere a Matilde, insieme alla figura di Clarissa che avanzò d'improvviso dal corridoio, che sperare non era servito a nulla.
Yousef avrebbe voluto sotterrarsi. Non era previsto che loro due si incontrassero ancora.
Clarissa venne da loro stringendosi nel suo maglioncino di filo dalle maniche che arrivavano a coprirle anche le dita, un po' zoppicando, un po' rabbrividendo, perché si era appena alzata, con gli occhi socchiusi e una piega nella fronte. Spostò lo sguardo dall'uno all'altra per qualche istante, indecisa su cosa credere.
In fin dei conti, non stavano facendo nulla di male, si disse Yousef. Lei sapeva la versione ufficiale – la verità: loro due non erano mai stati insieme, era tutta una recita senza alcun tipo di sentimento romantico. La sua presenza lì non significava niente. O quasi.
Le due ragazze non si salutarono. Ed era un segnale preoccupante.
«Cosa fate?» chiese Clarissa innocentemente.
«Stavamo parlando» rispose Matilde. L'imperfetto fu da lei parecchio calcato. Il suo sguardo, complice l'ombretto, era più scuro che mai.
Yousef pregò che quella scena penosa si chiudesse al più presto. «Sì, Matilde era passata per dirmi una cosa di persona.»
Clarissa si strinse i gomiti, a disagio, e inarcò un sopracciglio. «Cosa?»
«Te lo spiego dopo, dài» ribatté Yousef grattandosi la nuca.
Matilde si alzò in piedi. Inspirò e poi parlò. «Non importa, Yousef. Puoi anche dirglielo. Tanto ormai...»
Yousef si sentì interdetto. Non capì a cosa si riferisse. «Del compleanno?»
«No» disse lei con un sospiro irritato, come se fosse un'ovvietà.
«Ma che state dicendo?» s'intromise Clarissa.
«Sono venuta per dire a Yousef» fece Matilde, «che lo amo e che voglio davvero stare con lui. Ho capito che oltre ad aver preso in giro tutti abbiamo preso in giro noi stessi, ed è ora di smetterla. Ma ho fatto male i miei calcoli, se tu sei qui.»
Yousef ingoiò a fatica la sorpresa che lo investì. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma non disse nulla.
Clarissa si arrabbiò solo in quel momento. «È uno scherzo per caso?»
«Mai stata più seria.»
Yousef scoprì di avere ancora il nervosismo di quel pomeriggio accumulato sottopelle. Non era sicuro che Matilde stesse dicendo la verità. Era difficile districarsi dalla ragnatela di bugie che avevano intessuto. Ed era anche difficile trovare un senso, a quelle bugie. Adesso Matilde poteva mentire per mettere Clarissa contro di lui. Lei era rimasta sola e voleva che anche lui rimanesse da solo: nulla di più semplice, nulla di più plausibile. Era un'opzione che lo faceva imbestialire.
Matilde non ne aveva il diritto. Non aveva il diritto di parlarne a Clarissa. Nemmeno se fosse stata la verità. Avrebbe solo creato dei dubbi e dei sospetti ingestibili, infilandosi tra loro due per separarli.
Yousef fece un passo avanti, coprendo in parte Clarissa, quasi riparandola da Matilde. Come se lei volesse farle del male. Come se non gliene avesse fatto anche lui.
«Mati'... ora devi andartene, per favore» disse fermamente, per poi stirare le labbra in un'espressione che indicava assoluta irremovibilità.
La vide indispettirsi. Improvvisamente Matilde tirò fuori, da un anfratto remoto, l'orgoglio che le mancava da anni. Se ne rivestì, apparendo tutt'a un tratto spietata.
Yousef capì che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico. Iniziò a sudare freddo quando gli venne in mente la possibilità – più che concreta – che potesse dire qualcosa riguardo ai sonniferi. Sarebbe stato il colpo finale, il crollo di tutto ciò che stava provando a ricostruire. Un calcio ben assestato a un castello di sabbia.
Yousef sapeva che Matilde ne era capace. Era già sul punto di confessare a telefono con Francesco. Solo che stavolta l'avrebbe fatto senza piangere. Ridendo, forse. Le passò negli occhi un lampo di cattiveria, Yousef lo notò. Matilde era consapevole di avere un potere immenso tra le mani, in quel momento.
Ma alla fine non se ne servì.
Il suo sguardo tornò profondo, velato da una nuova tristezza. Fece un sorriso debolissimo e si voltò, dirigendosi verso la porta.
La aprì e uscì.
Yousef la guardò sparire con il desiderio di tirare un sospiro di sollievo, ma ciò che provò fu più simile al rimpianto che a qualsiasi altro sentimento.
Clarissa non gli diede nemmeno il tempo di riprendersi, che partì con una lunghissima predica sul fatto che volesse Matilde fuori dalla loro vita, che dovesse lasciarli in pace e smettere di perseguitare Yousef, che tutta quella situazione fosse solo riuscita a confonderla ulteriormente. Su tutto, sottolineò che non riusciva più a capire, per colpa loro, dove finisse la finzione e dove iniziasse la realtà.
In verità, neanche Yousef lo sapeva.
(1) Non ti vergogni?
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