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Capitolo ventuno

La ragazzina piangeva, rannicchiata su se stessa, con le ginocchia strette al petto.
Si sentiva sporca. Le mani su di lei, le mani su di lei, le mani su di lei...
Singhiozzò, se ne sarebbero mai andate?
Sentì una mano nuova sulla spalla e sobbalzò, allontanandosi di scatto. Guardò il proprietario della mano e tremò più forte.
Era un altro ragazzino, doveva avere all'incirca la sua età, e la stava osservando con aria preoccupata e confusa. Una reazione normale, ma l'aspetto di quel ragazzo era tutto tranne che normale. Era pallido come la neve, sembrava un morto, e quei due occhi rossi la fecero tremare di paura. Una piccola parte di lei, una parte con la voce di sua madre, e a cui preferiva non pensare, rimproverò quello sconosciuto per lo stato dei suoi capelli bianchi (ma pettinarseli no?). Il resto, però, aveva semplicemente paura.
Si faceva schifo. Parlava tanto di indipendenza e tremava come una foglia per niente, non riusciva a muoversi, a parlare, a smettere di tremare.
-stai bene?- aveva un tono gentile... -ti senti male?
-i-io...- deglutì.
-hai dei genitori? Qualcuno?
Scosse la testa -c-c'è u-un ragazzo c-con me.
-tuo fratello?
Scosse la testa -un a-amico.
-oh. Okay. Puoi venire venire con me se vuoi, vivo in un posto sicuro dove accolgono i bambini rimasti soli.
-s-sembra una truffa.
Quello rise -un po' sì. Però no, ti giuro che è un posto bello, hanno accolto me e mio fratello quando i nostri genitori sono morti.
Si allontanò da lui -e perché dovrei fidarmi?
-non lo so. Hai altra scelta?- si sedette al suo fianco -se vieni anche tu possiamo giocare insieme. A pallone magari, o alla guerra.
Il pallone, la guerra... -sono giochi da maschi.
-eh. Quindi?
-sono una femmina.
Quello sembrò stupito. La scrutò attentamente, poi scrollò le spalle -okay. Giochiamo uguale, se vuoi.
Giochiamo uguale. Non se l'era mai sentito dire prima.
-non ti importa che sono una femmina?
Il ragazzo alzò le spalle -ti funzionano le gambe, no? Allora puoi giocare a calcio con me.
La ragazzina lo fissò, con tanto d'occhi. Quello scoppiò a ridere.
-ti sciocca più il fatto che io voglia giocare con te che il fatto che ti stia dicendo di venire con me in un posto segreto?
-sì.
Ed era vero. Un orfanotrofio era qualcosa che poteva capire. La parità no -non mi avevano mai chiesto di giocare a calcio.
-perché?
-perché sono una ragazza.
-e cosa c'entra?- fu lui quello confuso -non capisco.
-neanche io. Non mi lasciavano giocare a calcio e basta.
-è stupido.
-lo so.
-allora, verrai con me? Con te in squadra vincerò di sicuro e Fran e Tonio dovranno fare quello che vogliamo.
-chi?
-i miei migliori amici. Sono simpatici, e ti faranno giocare, non preoccuparti. Francis è più femminile di te, non ti romperanno le scatole.
La ragazzina rise, e per un secondo quelle mani non ci furono più -va bene. Però devo parlarne anche a Rod.
-il tuo amico?
Annuì -è andato a cercare del cibo, dovrebbe tornare a momenti- si morse il labbro -lui ha... ha un potere magico.
-anch'io!
-no, guarda che parlo sul serio.
-anche io. Guarda- e scomparve. La ragazzina urlò.
-sei morto!
Quello rise, nella stessa posizione -no, sono invisibile! Forte eh? Posso anche rendere invisibili gli altri, ma li devo toccare, anche se sto cercando di imparare a farlo anche senza contatto.
-oh... forte.
-e tu? Hai qualche potere?- scosse la testa -non importa, magari non l'hai ancora scoperto. Sono sicuro che sarà un potere fortissimo, anche se non magnifico quanto il mio.
La ragazzina rise -sei un idiota. E non so ancora come ti chiami.
-oh, giusto- le porse la mano -sono Gilbert.
-non ti vedo.
-ah, scusa- tornò visibile e le riporse la mano -Gilbert.
La ragazzina gliela strinse -Elizabeta.
Gilbert fece una smorfia -non mi piace come nome.
-ha parlato Gilbert.
-Elizabeta sa di donna del millesettecento che si sventola il viso con un ventaglio di pizzo, e non mi sembri il tipo.
Sbuffò una risata -Eliza ti piace di più?
Sembrò pensarci qualche secondo. Annuì -sì, Eliza sa più di cazzuto.
-lieta di avere la vostra approvazione, sir.
-c'è gente che venderebbe un figlio per averla- confermò, sorridendo. Eliza rise.
-idiota.
-lo so.

In realtà dovette aspettare almeno un altro quarto d'ora.
-scusa- gli disse Hercules quando, finalmente, si degnò di farsi vedere -mi ero addormentato.
-non importa.
Sapete, c'è una cosa strana di noi umani: la nostra capacità di ignorare il dolore. Chiamatela autoconservazione, istinto di sopravvivenza o semplice testardaggine, ma siamo in grado di ignorare la maggior parte dei sentimenti nei momenti di pericolo, soprattutto se sono sentimenti negativi. Per fare un esempio banale, come quando sei di pessimo umore, circondato da altre persone, magari un gruppo di amici o i compagni di classe o i parenti o che so io, che fanno casino e quant'altro, e tu sorridi e fai finta di niente, anche se in testa hai milioni e miliardi e miliardi di milioni di pensieri negativi che cazzarola vorrei solo spararmi in testa e farla finita ma porca troia non ho una pistola a disposizione. Ecco, Lovino era in una situazione del genere, solo che non fingeva neppure di sorridere, questo stato era prolungato per tutto il giorno, tutti i giorni, senza pause, e se qualcuno si fosse accorto che qualcosa non andava avrebbe fatto una brutta, bruttissima fine. Forse non potevano ucciderlo, ma c'erano cose ben peggiori della morte, erano stati loro a insegnarglielo.
-dov'è il tuo blindato?
-non lontano.
-dai, andiamo. Vorrei dormire almeno un po' stanotte.
Avete presente la pioggia? Immagino di sì. No, non parlo di quella tossica presente in questa storia, parlo della pioggia nostra, che non brucia come acido e non ci uccide. Ecco.
Pensate a un temporale, va bene? Visionatelo nella vostra testa. Siete nella vostra camera, seduti sul letto, e vedete le gocce cadere una per una sulla finestra davanti a voi.
Tic tic tic.
Bello il rumore della pioggia, eh? Rilassa un casino.
Tic tic tic.
Bene. Ora immaginate che le goccioline siano piccoli traumi, o momenti di stress, insomma in generale cose poco piacevoli, e che la finestra sia la mente del nostro caro Lovino. Piano piano, goccia dopo goccia, si sentiva frantumare.
Una volta salito in macchina, Lovino chiuse gli occhi, appoggiando la testa al finestrino freddo.
-hai sonno?- gli chiese Hercules, con gli occhi fissi sulla strada.
Lovino sbuffò una risata -penso che non riuscirei a dormire neanche se mi imbottissero di sonnifero, mi rimboccassero la copertina e mi cantassero una ninna nanna.
-ma i sonniferi non hanno effetto su di te- ribatté Hercules -o sbaglio?
-presumo sia così- scrollò le spalle. Fuori era buio, l'unica luce erano i fari del blindato. Lovino vedeva solo l'oscurità, o in alternativa il suo riflesso. Non sapeva quale dei due fosse peggio.
-se vuoi parlare di qualcosa- aggiunse Hercules dopo qualche minuto di silenzio -fa' pure. Io non ti ascolterò, né ti farò alcuna domanda.
L'italiano si voltò a guardarlo, confuso -di che stai parlando?
Quello si strinse nelle spalle -è una cosa utile, sai? Parlare con qualcuno. E visto che mi sembri una persona schiva, sappi che io non ascolterò quel che dirai, non ti giudicherò né ti darò consigli stupidi, a meno che tu non lo voglia.
-oh...- scrollò le spalle e tornò a guardare fuori. Per un po' nessuno disse nulla. Poi la finestra di crepò -prima ho cercato di annegarmi, credo. Non lo so, era tutto confuso, e mi sentivo... vuoto. Non c'era niente- si aspettava che gli tremasse la voce, invece era salda. Probabilmente si stava così abituando a mentire che non tremava mai, neanche quando si concedeva di dire la verità -così mi sono immerso nella vasca per fare il bagno. E lì...- strinse i pugni -non... non so che cazzo mi sia preso. So che volevo sentire qualcosa così disperatamente che non mi importava di morire- ho detto una bugia, la sua voce aveva tremato lievemente sull'ultima parola. Inspirò profondamente, rilassando i pugni -ma quando mi sono ritrovato lì, c'era solo il silenzio. Non c'era niente, solo l'acqua e i riflessi azzurri intorno. Se guardavo in alto vedevo la superficie, la luce, ma non ci volevo tornare; stavo bene lì, nel buio, da solo. La luce fa male, mi sono detto. In fondo è meglio così. Pensavo che... che sarebbe stato bello andarsene così, circondato dall'oscurità. C'ero solo io, e per un attimo ho creduto davvero che andasse bene così, che fosse giusto andarmene da solo, in un modo viscido e schifoso come me, come il codardo che sono- si fermò, senza fiato per la foga. Si schiarì la voce prima di continuare -all'inizio era piacevole; niente casino, niente sensi di colpa... solo pace e solitudine. Non potevo far del male a nessuno, capisci? Solo a me stesso, e di me stesso non mi è mai importato molto. Poi però mi sono sentito soffocare. Ho guardato verso la superficie, e ho sentito...- strinse la croce che portava al collo -e così sono tornato su- si inumidì le labbra, secche come gli occhi, che erano così concentrati sulla strada e sul vuoto da non avere tempo per pensare alle lacrime -hai saputo cos'è successo al laboratorio?- lo scrutò sottecchi, aspettando una risposta. Hercules annuì, senza aggiungere altro, e per questo Lovino gliene fu davvero grato -ho ucciso delle persone. Sono così...- rise. Una risata isterica, di uno sull'orlo dell'esaurimento -chissà quanta gente ho ucciso senza neanche ricordarlo. Ho un vuoto di cinque anni. In cinque anni puoi far fuori tanta gente. E la sai la cosa più assurda?- scosse la testa, esasperato -non ricordo neanche uno di questi omicidi. Non ricordo il primo, ho solo dei flash, ma dell'uomo morto non so nulla. Non ricordo niente di questi cinque anni, e non ricordo di questi altri cinque fantasmi. È come se non fosse mai successo, ma io so che è successo, e non riesco a far finta di niente. Vorrei, vorrei così tanto dirmi che sono stati solo degli incidenti, che non è colpa mia, che sono comunque un essere umano come gli altri, ma non ci riesco- parlava con un fil di voce, un filo molto vicino a spezzarsi -non riesco a... a farmi scorrere addosso queste cose. Io non sono un essere umano come gli altri, e non ho la minima idea di cosa fare- si girò verso Hercules, con gli occhi lucidi -secondo te sono una brava persona? O... o solo un mostro da mettere al rogo? O un'arma? O qualche cos'altro? Cosa cazzo sono?!
Hercules non sembrò turbato dal suo sfogo. Ci pensò su, lasciandogli così il tempo di riprendersi.
-io penso che tu sia una persona molto coraggiosa- concluse dopo qualche minuto -non è da tutti farsi queste domande e sopportare il peso delle risposte. È vero, non sei una persona normale, e devi conviverci. Nessuno di noi lo è, ma tu in particolare devi sopportare più degli altri.
Lovino si asciugò gli occhi con fastidio, tornando a girarsi fino a guardare dritto davanti a sé -e quindi che dovrei fare? Soffocarmi?
-no- continuò quello, con voce calma -devi solo imparare a conviverci. Non è di certo una cosa facile, ma se la tua testa è forte quanto il tuo potere ce la farai.
-altrimenti?- aveva paura della risposta, anche se sospettava di conoscerla già. Ciò che conosciamo a volte è più terrificante di un salto nel vuoto.
-altrimenti il tuo potere prenderà il sopravvento su tutto, e diventerai a tutti gli effetti ciò che temi di essere già.
L'italiano annuì, in silenzio.
-so che hai passato gran parte della tua vita a reprimerla- aggiunse dopo un po' Hercules, in tono più gentile -ma devi scendere a patti con la tua natura.
Lovino annuì di nuovo. Ci mise qualche minuto a rispondere.
-grazie.
-figurati. Manca un'ora al posto, dovresti riposarti un po'.
Lovino scosse la testa, puntando ancora lo sguardo fuori.

E finalmente, il momento tanto atteso è arrivato. Sono un po' di capitoli che vi stresso con questa cosa, lo so, quindi non indugio oltre.
Hercules lo lasciò all'imbocco delle fognature, cosa molto puzzolente, e disse che lo avrebbe aspettato lì, il che significava che probabilmente si sarebbe fatto un bel pisolino nel frattempo (e come biasimarlo).
Il posto scelto era un paesino in culo ai lupi, composto principalmente di contadini e pastori. Più precisamente, si sarebbero dovuti incontrare appena fuori da tale paesino, in un vecchio granaio abbandonato. Per fortuna di Lovino, era abbastanza vicino alle fogne, quindi ci mise poco ad arrivarci.
Camminare da solo, nell'oscurità, gli diede il tempo di riordinare i suoi pensieri.
Calma, si disse. Respira. Non devi farli preoccupare.
Ma quella camminata, in fin dei conti, durò solo pochi minuti, e per riordinare tutto quello che pensava non sarebbe bastata una vita intera, figuriamoci le poche centinaia di metri che percorse prima di vedere il granaio in lontananza. Entrò nell'edificio passando da una finestra rotta, si calò dentro e raggiunse il centro della stanza. All'istante divenne invisibile.
-eccoti, finalmente- lo rimproverò Gilbert, ora visibile anche a lui.
Lovino neanche si diede la pena di rispondergli. Si chinò, posò lo zaino a terra e tirò fuori la radio e la lettera -tieni, dalle a mio nonno.
Gilbert le prese e le infilò nel suo zaino, rimettendoselo in spalla. Infine indicò l'elefante nella stanza, esclamando ehi, non possiamo ignorarlo ancora.
-noi due dobbiamo parlare.
-e di cosa, esattamente?- Lovino si rialzò, spolverandosi i pantaloni.
-intanto tuo nonno vuole sapere come stai- iniziò -e poi dobbiamo parlare di Antonio.
A quel nome, Lovino si sentì strappare il cuore dal petto. Andò nel panico -sta bene? Che gli è successo? Chi cazzo...
Gilbert lo interruppe con un gesto della mano -sta bene, a parte il cuore spezzato. Non voleva che te lo dicessi, ma gli manchi.
-perché non... non lo voleva?
-per non darti altri pensieri- ripeté, scimmiottando l'accento del suo migliore amico.
Lovino proprio non riuscì a controllare il sorriso dolce che gli spuntò a forza sul viso -sì, è la tipica cosa da Antonio.
-ci ha detto che state insieme- continuò Gilbert. Sbuffò -come se non fosse stato abbastanza ovvio di suo, ma comunque...
Lovino alzò le spalle. In confronto a quello che gli stava succedendo ora, le sue paranoie sul rendere la sua relazione pubblica sembravano la sciocchezza di un bambino -okay.
-senti, so che non sono affari miei. Ma Antonio è il mio migliore amico, quindi sono affari miei. Lo ami anche tu?
Lovino sbuffò -per quale motivo credi che stia facendo tutto questo? Per sentirmi un eroe? Non sono Alfred. Lo faccio per lui, per mio fratello e per mio nonno.
-per te stesso no?
-non vado molto d'accordo con me stesso- scrollò le spalle -quindi sì, amo Antonio. Contento o vuoi una qualche sdolcinata dichiarazione d'amore al chiaro di luna?
Gilbert annuì -e va bene, facciamo che mi fido.
-bene. Feli e il nonno come stanno?
-bene direi, anche se tuo fratello continua a dire che tuo nonno lavora troppo.
Sbuffò divertito -di' al nonno di riposarsi. E che sto bene, ho due tipi dalla mia parte, ho spiegato tutto nella lettera, e ho un paio di idee che penso siano interessanti.
-va bene, va bene- lo squadrò sottecchi -vuoi che dica qualcosa a qualcuno? Mi sento un fottuto postino, ma alla fin fine lo sono, per cui...
-di' a Feli che... che gli voglio bene. E ad Antonio che manca anche a me. Il resto è tutto scritto lì dentro.
-va bene- sbuffò -allora ciao. Spero di vederti vivo, la prossima volta.
Abbozzò un sorriso -lo stesso.
Gilbert fece un passo indietro, e Lovino tornò visibile.

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