UNA RAGIONE
Il filo spinato.
Le baracche.
I loro volti che scompaiono.
Zedaqah si alzò di scatto il suo volto grondava sudore, il suo respiro era affannoso e il sole che entrava dalla finestra illuminava le sue guance rigate da lacrime che lente raggiungevano il suo mento.
Lo sguardo dell'uomo si posò sul suo avambraccio sinistro.
522.711
Queste cifre di colore nero portavano la mente di Zedaqah a sei anni prima quando lui e la sua famiglia vennero deportati, deportati verso l'inferno costituito dall'uomo.
Auschwitz.
Un inferno subito solo per essere nati sotto la Stella di Davide.
L'uomo si alzò dal letto e si diresse verso lo specchio alla sua sinistra...una foto di una donna e un bambino era incastrata nel lato destro della cornice.
Lei aveva i capelli mori lunghi fino alla base del collo, gli occhi azzurri e un sorriso felice stampato sulle labbra.
Il bambino era biondo, i suoi occhi vitrei come il diamante, sorrideva mentre stringeva la donna con affetto.
L'uomo dopo aver fissato la foto accarezzò con l'indice sinistro la guancia della donna e diede un bacio sulla fronte del bambino.
Poco dopo alzò lo sguardo e fissò il suo riflesso.
Fissò i suoi capelli biondi tali e quali a quelli di suo figlio ritratto nella fotografia e poi i suoi occhi verdi lucidi a causa di altre lacrime.
La sua famiglia non c'era più, erano andati in cielo cinque anni prima.
Sul mobile situato sotto lo specchio erano poste delle piastrine.
Zedaqah le aveva indossate per tre anni mentre prestava servizio nell'esercito francese e le aveva riposte poco dopo aver conosciuto la donna che in futuro sarebbe diventata sua moglie.
L'ex militare si voltò quando qualcuno bussò alla sua porta.
"Avanti".
Disse con tono apatico.
La porta marrone si aprì con lentezza, un ragazzo sulla ventina entrò con un vassoio con sopra la colazione.
"Buongiorno".
Disse il ragazzo mentre poggiava il vassoio sul letto disfatto.
"Buongiorno Jonathan".
Rispose Zedaqah al ragazzo moro e poco più basso di lui.
Jonathan era un ragazzo solare e gentile anche se non parlava molto spesso con Zedaqah.
Quella mattina però qualcosa turbava il giovane si poteva dedurre dal suo sguardo.
"Qualcosa ti preoccupa Jonathan?"
Chiese l'uomo mentre addentava una fetta di pane presa da un piatto bianco posizionato sul vassoio nero.
"C'è un uomo nell'atrio e parla in tedesco, urla da chissà quanto".
"Non possiamo incolpare qualcuno solo perché parla la sua lingua".
Rispose Zedaqah mentre beveva il latte contenuto nella tazza rossa che stringeva dal manico.
Jonathan restò in silenzio.
"Ragazzo so benissimo che eviti di parlarmi perché temi di riaprire vecchie ferite ma ti assicuro che sono ancora aperte e sanguinano".
L'ex militare fissò la tazza ormai vuota come il suo cuore.
"Mi dispiace, so che sembrano parole al vento ma nulla accade per caso, se sei vivo è per una ragione".
"Quale? Siamo a metà secolo sono passati cinque anni, non l'ho ancora trovata".
L'uomo che aveva alzato la voce sospirò.
"Lasciami solo...per favore".
"Va bene...torno dal tedesco, forse un ex militare...Herr Richter di qua...Herr Richter di là...sembra come se parla ad un ufficiale".
Il ragazzo uscì dalla stanza, Zedaqah aveva gli occhi spalancati.
Herr Richter.
Era lui.
Colui che era a capo di Auschwitz.
L'ex militare fissò le piastrine, fu allora che pensò ad una ragione.
Richter era scappato, ma lui ora sapeva che era lì.
La sua ragione era ucciderlo.
CIAO A TUTTI, spero che il capitolo vi sia piaciuto, questa storia tratterà temi più seri e purtroppo reali rispetto alle altre, se avete domande o curiosità scrivetele nei commenti e ci vediamo al prossimo capitolo CIAU.
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