NO!
Una mattina. Mi svegliai. Mi alzai. Ed era l'inizio della fine. La mia fine. Una mattina come un'altra. Come tante altre. Un giorno qualsiasi nel bel mezzo del piovoso, uggioso novembre. Nebbia tra le foglie degli olmi ingialliti. Gocce d'acqua sui vetri, sul parabrezza dell'auto. Maledetta l'auto. Il mio boia, lungo il viaggio verso il supplizio. Mentre io pensavo di stare andando al lavoro. No. Verso di loro andavo.
Il viale mi parve stranamente silenzioso, cupo, di quell'abbandono che va oltre l'usuale vuotezza. Non soltanto completamente sgombro, privo di vita. Persino gli alberi mi erano di pietra, attoniti come sassi, più grigi di quel vento che smuoveva di tanto in tanto le nubi, facendomi sperare di poter vedere il sole, ma senza mai mostrarmelo davvero. Non vidi un'auto. Non vidi il tipico rumore provocato dai bambini dei vicini mentre strascinano i piedi sulla breccia. Non vidi nulla, se non il mio boia a motore, sotto la pioggia. E nel mio viaggio schizzavo l'acqua accumulata ai bordi della strada asfaltata, più nera del mio abisso, il nero baratro in cui sono ora. Aprii lo sportello. Scesi. Chiusi. Mi coprii con ombrello e cappotto, e poi via, verso il palazzone pieno di uffici in cui mi recavo ogni santa mattina, in cui gridavo e sbraitavo ai miei sottoposti, mentre vestivo i panni dell'umile contabile piegato dal capitalismo, nel mio blocchetto, nel mio ufficio delimitato da piccole e sottili pareti di plastica azzurra. Quella particolare mattina, ero stato chiamato, anzi svegliato, al cellulare, dal grande capo. Effettivamente era presto. Fin troppo presto. Era effettivamente sabato. Fin troppo strano. I nostri uffici erano chiusi di sabato. Forse, non era una mattina tanto simile alle altre. Ma me ne accorsi mentre varcavo la soglia dell'edificio.
Con una voce rauca, quasi affamata, mi aveva detto, al telefono, di essere fiero del mio lavoro, di volermi ricompensare. Sì, certo. Io abboccai. Se fossi andato al lavoro quella mattina avrei ricevuto una promozione. Ahahaha. Scusate ma adesso mi viene da ridere. È una cosa mia, scusate. Non dovrei proprio. Ma a una cazzata del genere non posso non ridere. Una promozione? Io? Che ero stato lì solo per racimolare pochi spiccioli per pagarmi l'affitto di casa, senza fare una virgola se non indispensabile per non essere licenziato, tanto che in quegli uffici avevo l'importanza di un tacchino in autostrada, io ? Ma io ero stupido. Stupidamente ambizioso. Non ci arrivai subito. E come avrei potuto, in effetti?
Le porte erano spalancate, ad aspettarmi, l'ascensore acceso. Ma non c'era nessuno, neanche il portinaio.
Al telefono mi era stato detto di prendere la porta del sottoscala, celata dietro l'ufficio della segretaria.
Con quella voce strana, meccanica. Mi parve contraffatta, diversa.
Aprii la porta.
Cosa vidi?
Nulla. Tutto buio. Spento, come la vita di un cadavere. Ma udii la sua voce. Da sotto la scalinata, che si stendeva davanti ai miei piedi, scendendo, dritto per dritto, verso l'oscurità, o non so ancora verso dove. Forse verso l'oblio. E da quell'oblio lui mi chiamava. Mentre si avvicinava. Avevo paura. Iniziavo a capire. Iniziavo a sentire i brividi lungo la schiena. Sì, capivo. Ma era tardi per capire. Era tardi per avere paura. Era tardi persino per cadere a terra e piangere, annegare in un oceano di lacrime. E lui saliva. Ma non era nemmeno più lui. No, no. Ora erano loro. E notai il cellulare suo, per terra, unico tuffatore in un mare di sangue. La porta mi si chiude sulle spalle. E lui si avvicinava. No, si avvicinavano. Loro. Con indosso i suoi vestiti, macchiati. Luridi e lerci, a ringhiare. Compresi. Tutto in quel momento esatto. Compresi di essere solo un misero bocconcino tra tanti impiegati, appesi con un filo a una vita regolare, spigolosa, fabbricata in serie. E ora mi trovavo su un piatto d'argento, fumante e succulento. Erano affamati, indemoniati. I loro occhi incendiati, un inferno, dinanzi a me. E volevano me. E urlavo, terrorizzato. Battevo i denti. Tremavo. Battevo i pugni, sull'acciaio della porta sbarrata dall'esterno. Grattavo, urlavo, con la poca voce in gola. Ma nulla. Sbraitavo e piangevo. Ma nulla. Nel dolore, nelle lacrime, mentre chiedevo aiuto, mi scrutai negli occhi. Vidi la mia miseria. Vidi che la mia arroganza, la mia bramosia, mi avevano condannato. La sentenza me l'ero firmata da me. Lo vidi, mentre ero divorato dalle piccole fauci di un infinito branco di pantegane, che parevano, nel loro complesso, una bestia unitaria, con tanto di corna e innumerevoli fila di maceri denti, ormai sporchi, inzozzati dai brandelli delle mie saporite carni.
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